Leonardo Da Vinci, il Duomo, la Milano da bere, quella del fashion e del design, del terziario avanzato e dei nuovi grattacieli, una città che sfodera i suoi gioielli a livello internazionale ma che spesso dimentica cosa rimane sotto le punte dell’iceberg, la parte sommersa che permette alle sue eccellenze di emergere. Una Milano sotterranea che produce da sé progetti e iniziative culturali estranee alla segnaletica ufficiale, che si inventa programmi di crescita e stili di vita sostenibili, alle volte più preziosi di quelli illuminati dalle luci del palcoscenico mediatico.
Milano da almeno 50 anni è un centro nevralgico della scena underground, tra i più vivaci in Europa, e lo dimostrano, per esempio, due esperienze editoriali come «Re nudo» e «Decoder», due riviste che hanno avuto un vasto pubblico di riferimento e che hanno interpretato al meglio le innovazioni sociali e culturali del loro tempo; Anche in altri settori come la musica: basti pensare all’esperienza della Cramps Records di Gianni Sassi con gli Area, Eugenio Finardi e le band del rock demenziale che avevano sede in un centro sociale autogestito nel pieno centro cittadino.
Scavare nella memoria della metropoli per scoprire suoi filoni aurei più nascosti è un lavoro necessario in questi tempi di così difficili e in questa ricerca siamo partiti da un percorso che dagli archivi si è spostato in strada, per riscoprire le tappe più importanti dell’underground milanese e quei luoghi che sono stati fondamentali per la nascita delle sue tracce storiche, il primo dei quali è proprio quell’incredibile spazio autogestito a due passi dal Duomo: il centro sociale Santa Marta.
Situato in pieno centro cittadino, il centro sociale Santa Marta era ospitato in un’antica casa patrizia abbandonata decenni prima dell’occupazione del settembre 1975. Una stupenda palazzina di tre piani, con cortile a colonne, saloni monumentali e pareti tappezzate di broccato. Al suo interno erano attive le più importanti organizzazioni della controcultura degli anni Settanta, dalla Comune di Dario Fo alla Cramps di Gianni Sassi e Demetrio Stratos; ma il Santa Marta era anche sede di alcune organizzazioni politiche e del comitato di quartiere, di un collettivo femminista e di un gruppo di cineasti militanti. C’era un laboratorio di grafica e scenografia, uno di teatro e tecniche attoriali e uno dedicato alla musica, mentre nelle cantine si trovavano due sale prove ben attrezzate. Fu lì che cominciarono a suonare i Kaos Rock, poi le Kandeggina Gang e i primi gruppi punk provenienti dalle periferie. Nel 1980 il Santa Marta venne chiuso dopo un accordo molto contestato con la proprietà, ma il modello di un centro sociale culturale e polivalente rimase impresso in molti dei giovani che lo frequentavano.
I punk da Rozzano, Quarto Oggiaro, Lambrate e Giambellino entrarono per la prima volta verso la fine del 1978, quasi per caso. Si trovavano abitualmente a una distanza di circa 200 metri dall’ingresso del centro sociale, davanti un negozio di dischi di importazione che si chiamava New Kary, in piazza San Giorgio adiacente a Via Torino, il corso più popolare dello shopping milanese. La loro presenza molto appariscente tra moicani, giubbotti borchiati e scritte irriverenti dietro la schiena non passava di certo inosservata. I passanti ne erano inorriditi e chiamavano spesso la polizia, i gruppi di ragazzi che andavano in discoteca e che si trovavano al vicino negozio di Fiorucci organizzavano spesso dei raidper punire la loro “sporcizia”. Anche i militanti comunisti più ideologici li consideravano fascistisolo per i loro vestiti neri. Le retate della polizia erano all’ordine del giorno, soprattutto il sabato, quando il numero dei punk aumentava. Molti di loro furono portati diverse volte nella questura centrale di San Sepolcro e da lì rilasciati dopo ore; i minorenni solo grazie l’arrivo dei genitori infuriati.
Quando arrivava la retata con blindati, caschi e manganelli, i punk non potevano far altro che scappare verso le piccole strade alle spalle di piazza San Giorgio, in particolare lungo la Stretta Bagnera, una via minuscola completamente attorniato da alti palazzi senza negozi o ingressi a stabili, un vicolo che alla fine immetteva sulla via Santa Marta, dove sulla sinistra incontravano il portone del centro sociale. Alto almeno tre metri, a doppia porta di legno antico, era stato pitturato con un murales: il personaggio di Charlot in nero su fondo rosso. Fu quella la scintilla che portò i punk a varcare l’ingresso del centro sociale. C’era un cortile con il porticato e le stanze al piano terreno con diverse sedi dei collettivi, una redazione di un giornale femminista, uno sportello per i disoccupati, una sala grande con il camino dove si svolgevano le assemblee di gestione e altre piccole stanze dove si ritrovavano le organizzazioni extraparlamentari. Nonostante l’aspetto sbrecciato e un po’ decadente il palazzo era fantastico, soprattutto nei piani superiori dove tra saloni stuccati, i dipinti sbiaditi sul soffitto e le travi in legno intagliato, c’erano i gruppi teatrali che provavano, le scenografie e il laboratorio di maschere gigantesche in cartapesta colorata, un pianoforte e molti strumenti a corde sparpagliati nello stanzone della scuola di musica. La caratteristica che colpì i punk milanesi si trovava però nelle cantine dove erano adibite le sale prove dei Kaos Rock e altre band del giro della Cramps records.
A quel tempo i numerosi gruppi musicali che si formavano, attratti dall’attitudine del «do it yoursel»f, erano costretti ad andare nelle carissime sale prove a pagamento orario, quindi non gli parve vero che lì era gratis: bastava chiedere e prenotare le date e le ore sul tazebao con il calendario. Fu una grande scoperta per punk milanesi ma non certo l’unica. La frequentazione divenne quasi giornaliera: ebbero modo di partecipare alle cervellotiche assemblee di gestione, capire come si articolavano i discorsi, quali erano le differenze politiche tra comunisti e anarchici, come rispettare i tempi per gli interventi senza parlare uno sull’altro e l’enorme distanza tra le scelte democratiche e quelle assembleari. Dopo qualche mese, dopo aver passato a dare una mano nei lavori più urgenti di ristrutturazione dei locali più fatiscenti con vanghe, cemento e fili elettrici, iniziarono anche a proporre piccole iniziative culturali. Fu un momento formativo straordinario perché impararono il senso profondo dell’autogestione così in linea con il loro modo di pensare fuori dagli schemi del conformismo di una trasformazione repentinavche poi sarà chiamata “Milano da bere”.
Come già anticipato, in quei mesi al Santa Marta nacquero diverse esperienze musicali, per esempio le Kandeggina Gang, gruppo punk di sole donne; la redazione e distribuzione del primo volantino firmato “punk anarchici milanesi” che rivendicava il diritto di aggregarsi davanti al negozio di dischi, denunciando gli abusi subiti da polizia, fioruccini e compagni con la “kappa”. Si progettarono le prime punkzine autoprodotte insieme agli anarchici di Viale Monza, incontrati in una serata musicale del Centro sociale, e si vissero gli strazianti momenti della malattia e della morte improvvisa di Demetrio Stratos. Nel 1980 le assemblee divennero improvvisamente infuocate e piene di polemiche, i punk troppo giovani per capire cosa stesse accadendo si limitarono alla frequentazione delle sale prove, ma si accorsero da subito che le dinamiche interne si erano ormai guastate. Un giorno vennero a sapere che quell’incredibile posto avrebbe chiuso a breve. I punk presero i loro strumenti e tornarono delusi davanti a New Kary, non capendo bene cosa fosse successo. Si venne a sapere qualche mese dopo che alcuni occupanti, nonostante la contrarietà di parte dell’assemblea, avevano accettato qualche milione di lire dalla proprietà per sloggiare.
Ma niente andò perduto. Dopo pochi mesi quegli stessi punk entrarono nella casa occupata di Via Correggio 18 e fondarono un centro sociale rinnovando a modo loro quello che avevano imparato al Santa Marta. Non certo consapevoli che quarant’anni dopo sarebbe diventata la parola più pronunciata al mondo, lo chiamarono Virus, forse uno dei luoghi più importanti del punk a livello internazionale e che divenne a sua volta modello per molti altri. Da allora i centri sociali hanno mantenuto la loro funzione, rinnovandola di volta in volta, rimanendo sempre uno spazio aperto per tutti coloro che vogliono partecipare alle assemblee di gestione e proporre iniziative culturali. Un luogo stimolante e accogliente per tutti i giovani dalle menti più inquiete e dissidenti, provenienti spesso da situazioni sociali complesse, che trovano tra i muri del centro sociale spunti, percorsi formativi, attitudini esistenziali in grado di liberare tanto il proprio immaginario, quanto un’identità collettiva generazionale, una possibilità e nello stesso tempo un tentativo concreto per migliorare la propria vita e quella dell’intera città.
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