Sono trascorsi poco più di due anni da quando Greta Thunberg ha iniziato a scioperare per il clima. L’immagine di questa ragazzina, sola davanti al Parlamento svedese, con il suo cartello Skolstrejk för klimatet, è stata così evocativa da aver presto mobilitato milioni di giovani in tutto il mondo. Tutto ciò accadeva nel mondo pre-coronavirus.
Ora la pandemia sembra aver cambiato profondamente le priorità. L’attenzione di media e opinione pubblica è concentrata oggi sui problemi sanitari e sulle implicazioni economiche della ripresa post-Covid. In questi mesi, la stessa partecipazione degli attivisti sembra essersi affievolita.
Per un movimento che è costruito sull’unione tra le persone, non potersi incontrare ha rappresentato una grande limitazione e il susseguirsi delle notizie sull’aggravarsi degli effetti della crisi climatica e sulla lentezza delle iniziative dei governi hanno generato un forte scoraggiamento negli attivisti. I politici e l’opinione pubblica avevano accolto con interesse le mobilitazioni per il clima. Diverse istituzioni, come la Camera e il Senato italiani, hanno firmato dichiarazioni di emergenza climatica e ambientale, ma ai proclami di sostegno sembrano essere seguite finora poche azioni concrete. Lo stesso European Green Deal, presentato con enfasi lo scorso 11 dicembre dalla Commissione Europea, dopo la pandemia sembra molto più difficile da realizzare.
Qualcuno è portato a credere che l’attivismo climatico, come altri movimenti del passato, finirà per indebolirsi ed essere dimenticato nel giro di qualche tempo. Come negli anni ’70 negli Stati Uniti, negli anni ’80 in Europa con la nascita dei partiti Verdi e poi ancora nel ’92 a Rio de Janeiro, diversi movimenti di protesta sono venuti alla ribalta, per poi essere pian piano dimenticati. La comunità internazionale si è riunita in Conferenze su clima fin dal 1972. Spesso sono stati firmati accordi in pompa magna, che sono rimasti poi silenziosamente inapplicati. Perché questa volta dovrebbe essere diverso?
Le cose oggi sono differenti per due ordini di motivi. In primo luogo, perché l’incremento delle temperature sta accelerando e creando effetti crescenti, visibili e tangibili, in particolar modo nell’emisfero settentrionale, che ospita oggi il 90% della popolazione mondiale e nel quale si produce la quasi totalità delle attuali emissioni climalteranti.
Le estati sempre più calde, le ondate di siccità alternate a precipitazioni intense, gli uragani, l’innalzamento del livello del mare che sommerge le città costiere (per esempio Venezia), i vasti incendi dei nostri boschi e foreste ci ricordano quotidianamente gli effetti del cambiamento climatico, contribuendo a cambiare progressivamente e inevitabilmente la percezione dell’opinione pubblica.
Una seconda importante differenza è quella tecnologica.
In passato, l’abbandono delle fonti fossili era solo un auspicio. Gli accordi internazionali venivano firmati, ma nessuno sapeva veramente come mettere in atto quegli accordi. Oggi, i costi delle energie rinnovabili e della mobilità elettrica sono pressoché paragonabili a quelli delle tecnologie tradizionali e la costante caduta dei prezzi di queste nuove tecnologie, dovuta alle crescenti economie di scala, le renderanno entro breve più economiche rispetto alle analoghe tecnologie tradizionali. Come conseguenza, le aziende che non saranno in grado di gestire la transizione sostenibile in atto rischieranno di essere spazzate via[1].
La sfida del disaccoppiamento tra crescita economica e utilizzo dell’energia fossile sarà tutto fuorché semplice. Il sistema economico negli ultimi cinquanta anni ha ormai superato i limiti della crescita, tanto da portare la nostra impronta ecologica a 1,6 pianeti. Decarbonizzare il settore energetico, responsabile di circa un quarto delle attuali emissioni, è indispensabile, ma non basta.
Per riallinearci con le potenzialità e i limiti del nostro pianeta saremo costretti a intervenire profondamente anche in altri settori, da quello agricolo all’alimentazione, dall’industria ai trasporti. Per fare questo, una quota elevata delle risorse economiche dovrà essere destinata agli investimenti, con una conseguente riduzione delle risorse disponibili per il consumo. D’altro canto, alcune spese non saranno più necessarie, per esempio le spese militari: che senso avrà dedicare oltre il 2% della propria economia alle spese militari, quando tutti i paesi saranno costretti a cooperare per fronteggiare la comune crisi climatica?
La vera sfida che abbiamo di fronte a noi è quella di convincere l’opinione pubblica che la riconversione sostenibile dell’economia è desiderabile, anche se ci porterà a compiere delle rinunce e a cambiare i nostri stili di vita. Per affrontare questa sfida abbiamo bisogno del supporto dei mezzi di informazione e dei media.
Questo supporto alla nostra azione, al momento, fatica a farsi sentire. Eccetto rari casi, come per il quotidiano inglese The Guardian, la maggior parte dei mezzi di informazione sembra più preoccupata di scoprire quali interventi saranno messi in atto, piuttosto che di contribuire alla nuova necessaria visione degli obiettivi e della prossima trasformazione. Concentrarsi su quello che possiamo fare per difendere uno status quo che consuma 1,6 pianeti equivale a difendere l’indifendibile.
Purtroppo, una larga parte dell’opinione pubblica è ancora convinta che i cambiamenti climatici non siano causati dall’Uomo e questa parte del pubblico è pronta a sostenere movimenti politici che perseguono politiche economiche dannose. L’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno ora è che si perdano anni preziosi ritardando la transizione ecologica e costringendoci in futuro a compiere sacrifici molto maggiori. La risposta all’emergenza climatica e alla transizione vengono dalla lucidità, dall’unione delle persone e dalla prontezza dei riflessi della nostra classe politica e dei cittadini.
La situazione attuale è grave e richiede soluzioni urgenti: abbiamo poco tempo per agire. Come dimostra l’orologio climatico di Manhattan (New York, USA), mancano ormai poco più di sette anni all’esaurimento del nostro budget di carbonio. Dopo di che, gli obiettivi dell’Accordo di Parigi diventeranno irraggiungibili.
Tic toc, tic toc.
[1]https://www.theguardian.com/environment/2019/oct/13/firms-ignoring-climate-crisis-bankrupt-mark-carney-bank-england-governor