Premessa
Le istituzioni culturali rappresentano un sottoinsieme rilevante fra le organizzazioni culturali. Una caratteristica che le accomuna è la conservazione e la valorizzazione della memoria e del patrimonio: hanno quindi un ruolo e una rilevanza specifici per le comunità di ricerca e per le possibilità di svolgere attività di divulgazione. I mesi del lockdown hanno determinato bruschi cambiamenti nelle condizioni di funzionamento di queste organizzazioni: luoghi della cultura chiusi, difficoltà di accesso ai documenti, attività convegnistica e di relazione spostata online, o semplicemente cancellata.
Nel tempo “sospeso” del lockdown, molte istituzioni hanno ripensato alle loro attività, potenziato la comunicazione e la produzione di documenti digitali, approfittato delle chiusure per attività di riordino, conservazione e messa in sicurezza. E va riconosciuto che la pandemia ha reso possibili sperimentazioni e cambiamenti che avrebbero impiegato molto più tempo a realizzarsi in assenza di choc.
Dopo il lockdown
Se il lockdown ha prodotto uno tsunami, il dopo lockdown ha caratteri molto più sfumati e di difficile interpretazione; l’ambiguità è un carattere tipico del momento e del contesto. Ad esempio, una diversa organizzazione del tempo, del lavoro e degli spazi ha determinato un aumento significativo dei consumi culturali digitali, anche perché, contestualmente, l’offerta di contenuti culturali in formato digitale – soprattutto gratuiti – è aumentata esponenzialmente.
Non sappiamo ancora se questa accresciuta attenzione alle produzioni culturali digitali è destinata a consolidarsi, né a beneficio di chi; appena è stato possibile le persone hanno ripreso a frequentare spettacoli, conferenze, incontri, dibattiti, ma la ripresa non è un ritorno allo stato pre pandemia. “Ibrido” è l’aggettivo che qualifica il modo di accedere alla conoscenza: che sia una lezione universitaria, un convegno, un festival. Ma siamo lontani da aver trovato una definizione condivisa di ibrido a partire dalle pratiche messe in atto.
Non stupisce che a fronte di una diffusa ambiguità di contesto e in presenza di molte situazioni ibride, un atteggiamento molto diffuso sia lo smarrimento o comunque la prudenza. Ci sono però bisogni emergenti molto rilevanti, che ingaggiano anche le istituzioni culturali ad una risposta pragmatica, significativa e culturalmente all’altezza della loro reputazione. Ne cito tre:
- 8 milioni di studenti e 1,6 milioni di iscritti alle università tornano in aula dopo un semestre di didattica a distanza e sollecitano risposte sul piano dell’offerta culturale di qualità.
- Il profondo cambiamento nel lavoro, nei consumi e nella mobilità in ambito urbano ha avuto un effetto immediato sull’economia e sul funzionamento delle città, rendendo più rilevante la vitalità dei quartieri e il funzionamento delle infrastrutture; è bene che l’infrastruttura culturale sia un pezzo rilevante della soluzione.
- Sappiamo che, ceteris paribus, le donne e i giovani hanno subito più che proporzionalmente gli effetti negativi della pandemia. Stiamo parlando rispettivamente di metà e del 16% della popolazione nazionale (se consideriamo la fascia d’età 20-35 rispetto ai dati ISTAT al 2019).
La chiusura dei luoghi della cultura durante i mesi del lockdown ha portato a un ripensamento radicale delle condizioni di funzionamento di tali istituzioni
Le questioni sono semplicemente troppo grandi e troppo importanti per non toccare anche le istituzioni culturali; non è però scontato che oggi si pensi a loro come a uno sparring partner, così come non è scontato che le istituzioni culturali vogliano davvero essere parte attiva della soluzione.
Vedo molte ragioni per questa distrazione da parte degli amministratori e dell’opinione pubblica, ma in due parole direi che è riconducibile ad una supposta idea che le istituzioni culturali siano mondi a sé, autoreferenziali. La scommessa è dimostrare che non è vero. Contesti ambigui suggeriscono prudenza, contesti in profonda trasformazione chiedono imprenditorialità culturale. I tempi che stiamo attraversando ci mostrano entrambe le facce del contesto: sta a ciascuno decidere come interpretarli.
Davanti a un contesto ambiguo ed incerto, in genere le organizzazioni (tutte le organizzazioni) “tirano i remi in barca”. Davanti all’esplosione di “mercati”e “bisogni”, in genere, le organizzazioni investono, cambiano i processi, si rendono visibili il più possibile, si pongono il problema di rappresentare nelle loro attività, nella scelta dei temi da affrontare, del taglio e degli output, in modo da valorizzare la loro specificità, il loro particolare modo di affrontare il bisogno e il contributo particolare offerto dal loro patrimonio e dalle loro relazioni. In un momento di discontinuità, le organizzazioni imprenditoriali – quando hanno successo – plasmano il contesto in cui sono inserite, invece di subirlo.
Tirare i remi in barca non è facile per istituzioni culturali con una struttura di costo molto rigida, dipendenti da poche fonti di finanziamento, con vincoli molto stretti di pareggio economico con una scarsa abitudine a guardare i numeri come conseguenza delle proprie scelte di posizionamento culturale: i costi maggiori a copertura delle attività più rilevanti, il numero e la varietà di accessi e di partecipanti come indicatore di qualità culturale.
Diventare imprenditori culturali è ancora più difficile. Le istituzioni più prestigiose di conservazione della memoria sono vincolate dalla loro storia e dalla loro reputazione. Innovare nel rispetto della tradizione è molto difficile, per un problema di autenticità e di coerenza; ma è difficile tirarsi indietro a fronte dell’infodemia, della rimozione del passato o del suo travisamento.
Un altro aspetto delicato è rappresentato dalle risorse: i risparmi di costo legati all’interruzione di alcune attività sono stati limitati per molti. In compenso, la riapertura ha comportato l’inserimento di una serie di procedure (con costi connessi), richiedendo al tempo stesso una dose non indifferente di flessibilità per adattarsi all’evolversi degli eventi. Insomma, il sistema di vincoli in cui costruire la sostenibilità economica delle istituzioni culturali cresce. La fase dell’emergenza si è tradotta in una serie di richieste di sostegno al ministero presentate dalle diverse filiere culturali e categorie professionali.
La preoccupazione dominante è stata sostenere davanti allo choc una serie di settori complessivamente molto fragili. Non credo che questo modo di procedere sia efficace per gestire la nuova normalità e non credo peraltro continuerà per molto. Credo sarà premiante l’identificazione di una rete di alleati per rispondere con massa critica adeguata ai nuovi bisogni di autorevolezza e di conoscenza specialistica.