Giovanni Scirocco ha aperto un’interessante discussione sul futuro di Piazzale Loreto, oggetto da alcuni mesi di un bando del Comune di Milano per la riqualificazione della piazza, con un nuovo disegno urbanistico e di arredo pubblico. Egli lamenta che l’assessore Maran, cui si deve questa iniziativa, non abbia coinvolto anche gli storici nel dibattito sul futuro della piazza, ma solo architetti e urbanisti. Forse ha ragione, ma lo stesso si potrebbe dire per giardinieri e designer, per ingegneri dei materiali e studiosi dei flussi di traffico. I singoli architetti e urbanisti o gli studi che parteciperanno al bando di gara potranno benissimo, se lo vorranno, includere nei loro gruppi di lavoro e di progettazione anche queste figure assenti, compreso qualche storico. Scirocco, però, ritiene che la presenza dello storico, almeno in questo caso, dovrebbe essere automatica, stante la pesantezza di storia e memoria di cui piazzale Loreto gronda.
Milano è piena di luoghi di storia, di ambienti che rimandano alla memoria del passato, a eventi e personaggi che l’hanno riempita e caratterizzata nel corso dei secoli. Però è anche vero che piazzale Loreto ha avuto un ruolo particolare, perché l’evento, anzi, gli eventi che la caratterizzarono, sono in fondo abbastanza recenti, nonostante siano vissute dopo di essi due o tre generazioni e li ricordiamo, quindi, solo grazie alla memoria dei più anziani, ai racconti dei testimoni o alla narrazione fattane dagli storici.
Un primo elemento di discussione che mi interessa porre è se Piazzale Loreto appartenga – debba appartenere – più alla storia, più alla memoria o a entrambe, come suggerisce in chiusura Scirocco. In quella piazza, come ha ben ricordato il suo pezzo, che ci ha riassunto anche la sua storia passata fin dal XV secolo, la sera del 28 aprile 1945 i partigiani che ne avevano eseguito la fucilazione nel pomeriggio condussero i cadaveri di Mussolini, di Claretta Petacci e degli altri gerarchi del fascismo.
Fu solo il giorno dopo che, di fronte a una folla crescente e ingovernabile, si decise di appendere i cadaveri alla stazione di benzina della Esso perché potessero essere visti meglio e tenere a bada la pressione dei presenti. La scelta della piazza si collegava all’uccisione, il 10 agosto 1944, di quindici prigionieri politici che si trovavano a S. Vittore da parte di militi fascisti della GNR e della Brigata Muti. Scirocco scrive – e non si può che concordare – che piazzale Loreto rappresentò, quindi “una drammatica cesura, tra vinti e vincitori, tra fascismo e Liberazione”.
Dove non riesco a seguirlo, tuttavia, è nel proseguimento di quella frase – “simbolo di una memoria che segna la chiusura di un’epoca e l’inizio di una nuova” – perché credo che tutto possa dirsi dell’esposizione del cadavere di Mussolini, di quello della incolpevole Claretta Petacci (anche dal punto di vista della giustizia partigiana) e degli altri gerarchi fascisti, tranne che rappresentino il simbolo della nuova Italia, della nuova democrazia, della libertà riconquistata e di quella repubblica che di lì a poco vedrà la nascita con una Costituzione coerente con i suoi valori e i suoi obiettivi.
Ferruccio Parri, occorre ricordarlo, chiamò l’esposizione di piazzale Loreto “macelleria messicana”, e in modi altrettanto critici si espresse su quell’episodio Sandro Pertini. Dobbiamo prenderla, allora, come simbolo della “nuova epoca” che si apriva all’Italia democratica? Dobbiamo mantenerla tra i momenti alti e significativi della nostra memoria repubblicana, liberale, antifascista? Scirocco ha nuovamente ragione – nell’ulteriore proseguimento della frase già citata – quando ricorda che la memoria “non può essere unanime e, neppure, condivisa e riconciliata. Al limite, comune”. Certo, non può essere unanime e condivisa ma non solo, come è ovvio, nei confronti dei nostalgici del fascismo, degli ammiratori di Mussolini, dei passatisti e reazionari attaccati ai ricordi di un regime tragico e grottesco, di un impero criminale e pusillanime; ma nemmeno all’interno delle forze antifasciste e democratiche, che su quell’episodio si divisero, e a lungo rimasero divise e contrapposte e, ci scommetterei, lo sarebbero ancora oggi sia tra i più anziani che tra i più giovani. Comune, “al limite”, può infatti essere solo la storia.
Quello di cui abbiamo bisogno, oggi, è che quanto accaduto a piazzale Loreto, tanto il 10 agosto 1944 che il 28 aprile 1945, appartenga definitivamente alla Storia, venga ricordato, studiato, analizzato come oggetto di storia, per acquisirne una conoscenza il più possibile globale e coerente e per comprendere meglio, attraverso quegli episodi, le dinamiche, le divisioni, le identità, i comportamenti soggettivi che, in modo tutt’altro che omogeneo, caratterizzarono il periodo precedente alla “nuova epoca”, i venti mesi della battaglia dura e difficile che ci fu per poterci arrivare.
Chiunque potrà ovviamente ricordare, ogni anno, il sacrificio delle quindici vittime di piazzale Loreto, ma anche quell’episodio, come quello dell’aprile dell’anno successivo, vanno visti con gli occhi della storia. Mantenerne viva e continua la memoria può solo significare restare ancorati al passato come atteggiamento, modo di pensare, come immaginazione, simboli e valori, mentre è giusto affrontare l’oggi e il domani (come dovrà fare il restyling urbanistico della piazza) senza farsi limitare e inibire da memorie – parlo in questo caso del 28-29 aprile 1945 – che non sappiamo più bene come collocare, in un ordine non solo cronologico, ma anche morale e politico.
Che senso potrebbe avere, oggi, rivendicare l’utilità e la giustezza di quella esposizione di corpi, che tanto ci offende quando riguarda i massacri e i genocidi più vicini a noi, in nome del clima di quei giorni, del dover costruire un rito simbolico di massa per esorcizzare la potenza del dittatore osannato fino a tre-cinque anni prima da quella stessa folla? Lasciamo che sia la Storia a discuterne, come è suo compito, per comprendere e spiegare nel modo migliore. La memoria chiede inevitabilmente una presa di posizione, un approccio identitario, di schieramento, come quelli cui ci costringono, anche se vorremmo evitarlo, i social media quando affrontano questioni di natura pubblica e politica.
Perché, allora, uno storico dovrebbe dire la sua sul modo di ridisegnare e riqualificare piazzale Loreto? Può farlo, ovviamente, ma come ne avrebbe diritto ogni cittadino, a maggior ragione forse se abita lì vicino e ci passa continuamente (come è il mio caso). Ci sarà bisogno, sarà necessario, possibile, inevitabile, auspicabile che nella piazza ci sia qualche targa, qualche elemento discreto che ricordi quegli eventi? Certamente: si ascoltino le diverse proposte, e si adottino quelle che meglio si accorderanno con le scelte estetico-urbanistiche che verranno selezionate e adottate. Personalmente, se ho una proposta da fare nel momento in cui si discute del rifacimento di piazzale Loreto, è quella di cogliere l’occasione per cambiargli nome, per lasciare “Loreto” definitivamente alla storia (sia quella antica, del monastero che le diede il nome, sia quella più vicina, del 1944-45) e trovare un nome nuovo che meglio rappresenti quella “epoca nuova” che stiamo vivendo dal 2 giugno 1946, e quella spinta a una nuova modernizzazione che accompagni questa fase di transizione bellissima e interessante che la città di Milano sta vivendo. Verso il passato, ma con una piena consapevolezza storica, fatta di conoscenza e riflessione.