Fra gli aspetti di interesse della “crisi iperconnessa”, vi è senza dubbio la grande visibilità informativa dell’emergenza, la crescente interrelazione fra comunicazione politica e comunicazione della scienza, e il ruolo del complottismo e delle fake news nel formare l’opinione pubblica e nell’indirizzare i comportamenti individuali e le progressive scelte dei decisori.
Anche se molti commentatori paiono averlo scoperto solo in questi mesi, l’affollamento dell’ambiente comunicativo è da anni al centro dell’attenzione degli studiosi di comunicazione anche in virtù della sfida che esso costituisce per il funzionamento delle democrazie. Peraltro anche il lemma “infodemia”, di onnipresente successo in questi mesi e presente anche nelle dichiarazioni dell’Oms, risale al 2003 ed era stato coniato per descrivere le modalità informative in occasione dell’epidemia di Sars. Mentre la Sars è rimasta prevalentemente limitata ai paesi asiatici, non è stato così per la sua espressione comunicativa, quella patologia che il vocabolario Treccani definisce come: “Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”.
Una rapida ricerca su Google Trends mostra come “infodemia”, frequentemente cercato nel 2020, ha vissuto anche precedenti picchi di attenzione; ad esempio, in occasione delle elezioni Usa del 2016, quelle che hanno lanciato nel dibattito pubblico il termine di “post-verità” e attirato l’attenzione verso i temi delle fake news, del complottismo, e dei consumi comunicativi segmentati in “camere d’eco” entro cui gruppi di cittadini tendono a richiudersi rifiutandosi di confrontarsi con opinioni diverse dalle proprie. Al di là del suo appeal immediato, insomma, l’“infodemia” non costituisce certo una novità: in questi anni svariate voci si sono levate a indicare come la disinformazione – moltiplicatasi grazie all’apparato informativo e infrastrutturale dell’era digitale – mettesse a rischio la qualità dell’opinione pubblica e le modalità discorsive tipiche delle democrazie consolidate.
Con riferimento all’emergenza, ripercorrendo questi mesi, possiamo osservare come si sia parlato di fake news per svariati aspetti della pandemia: dalle cause del virus (laboratorio cinese, Bill Gates, il 5G, e declinazioni varie), alla sua trasmissione (via liquidi, alimentazione, superfici, eccetera), o ancora su come prevenirlo (mangiare aglio, agrumi, bere alcolici, stare al sole, tagliarsi la barba, e così via), per non parlare poi delle responsabilità politiche e delle misure di contrasto alla crisi. Le ricerche dell’AgCom stimano che la diffusione della disinformazione sia andata all’incirca di pari passo con quella dell’informazione. Un’altra evidenza riscontrata anche dalle prime ricerche a livello comparato (e non nuova, si pensi all’emergere delle medicine alternative dopo la pandemia di influenza spagnola di un secolo fa) mostra come in occasione della pandemia di Covid-19 le opinioni false e cospirazioniste si siano fortemente consolidate negli orientamenti dell’opinione pubblica.
Anche nel caso dell’emergenza Covid, la discussione relativa alle fake news si è spesso concentrata sugli aspetti regolativi e di debunking, finalità doverose e lodevoli e su cui vi è stata la collaborazione anche delle principali piattaforme digitali, ma che spesso ricordano un po’ lo svuotare il mare con un cucchiaino. Maggiore attenzione, invece, andrebbe data a comprendere le motivazioni della loro diffusione: dal disorientamento, alla mancanza di basi culturali, alla sfiducia verso le élite, alla mobilitazione attiva di echo chambers da parte di imprenditori di questo tipo di comunicazione. Tutti elementi che spiegano perché le fila dei cospirazionisti sono più contigue di quanto si possa pensare a quelle dell’opinione pubblica informata. Inoltre, la confusione informativa spesso prolifera nella commistione dei generi, per cui brani satirici possono venire estrapolati e commentati come se si trattasse di notizie reali, oppure l’autorevolezza degli scienziati venire erosa dall’inadeguatezza dei loro interlocutori (un tema, questo, che ha a che fare anche con la questione di quanto sia opportuno o meno svolgere ad esempio divulgazione e interlocuzione scientifica sui social network).
Un aspetto relativamente poco considerato ma decisivo nell’analisi della diffusione delle fake news riguarda come esse, sebbene false, siano spesso verosimili: o perché poggiano sull’analogia con notizie effettivamente verificatesi e/o perché coerenti rispetto a qualche visione, spesso cospiratoria, della società (“loro”, le élite di qualche natura, nascondono qualcosa a “noi”, un qualche tipo di popolo).
Anche nel caso del Coronavirus e della crisi sanitaria, su molte tematiche di estrema rilevanza per il pubblico la questione era ben più complessa rispetto alla semplice possibilità di distinguere il vero dal falso: la scienza medica procedeva (come sua ovvia natura) per tentativi nel conoscere e contrastare il virus, la gamma delle possibili scelte politiche era nuova, ampia e indefinita, così come le (iper-) connessioni fra gli aspetti (per citarne solo alcuni) sanitario, economico, sociale, psicologico, geografico, ambientale e informativo della pandemia. Le certezze che in un primo tempo erano state dispensate dal culto laico della conferenza stampa della protezione civile erano poi state compromesse dalla scoperta che i dati riportati risentivano di rilevanti falle metodologiche legate al gap fra pazienti sintomatici e tamponi effettuati, alla disponibilità di posti letto ospedalieri e alle scelte locali di terapia e assistenza, nonché alle modalità di certificazione delle cause di decesso. Analogamente, le testimonianze di medici e scienziati sui media progressivamente rendevano l’impressione che gli esperti brancolassero nel buio o fossero, peggio, in qualche modo politicizzati nel fornire i dati e nell’interpretarli. Per non parlare, last but not least, della vaghezza su ciò che probabilmente stava più direttamente a cuore a molti spettatori, vale a dire quali indicazioni operative trarre per la propria vita di tutti i giorni (lavare o meno i prodotti acquistati al supermercato, considerare terapeutica o meno una passeggiata nei dintorni di casa, eccetera).
Il problema, insomma, non risultava solo dalle notizie del tutto false (che pure sono state diffuse, ma spesso in ambiti relativamente ristretti) ma soprattutto dall’incertezza che permeava il quadro complessivo dell’informazione e i suoi protagonisti. Se così tante persone credono alle – e condividono le – fake news, non possiamo non interrogarci su come mai lo facciano: e la risposta è che spesso sono in qualche modo delusi dalle notizie vere, che sia per la loro scarsa utilità pratica o per l’incompletezza o per il sin eccessivo pluralismo del quadro complessivo che ne emerge. Se dal punto di vista epistemologico è abbastanza inevitabile che la performance delle fonti istituzionali e ufficiali di fronte a un virus sconosciuto le cui contromisure venivano sperimentate via via si sia aggiustata col tempo, non è detto che la stessa tolleranza verso l’incertezza sia stata condivisa da un pubblico che, proprio a causa dell’emergenza, era più che mai in cerca di certezze e ancora meno incline del solito ad adattarsi al variare delle conoscenze e indicazioni scientifiche sull’argomento.