Pubblichiamo qui un estratto del libro di  Kiran Klaus Patel, Il New Deal. Una storia globale, Einaudi 2018. Si ringrazia l’autore e l’editore per la gentile concessione.

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La Grande depressione non fu soltanto una crisi del capitalismo, e più specificamente del laissez-faire, ma anche degli ordini politici esistenti. La democrazia liberale, in particolare, era in una situazione di regresso e secondo alcuni aveva già fatto il suo tempo. Nel campo delle idee politiche dell’epoca il teorico britannico Michael Oakeshott notò con enorme disappunto un «profondo e spontaneo malcontento» nei confronti dell’ordine politico esistente, e osservò che tanti consideravano la democrazia «intellettualmente noiosa» rispetto al fascismo e al comunismo, alternative considerate invece più innovative, creative[1].

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La Grande depressione minacciò e travolse gli argini dell’ordine politico del primo dopoguerra. Dette inoltre nuova linfa agli estremismi politici, contribuendo alla proliferazione di regimi autoritari di destra o fascisti. Il panorama politico mondiale si polarizzò e divenne molto più complesso. Non era facile categorizzare i nuovi ordini politici sorti in quegli anni: a contraddistinguerli era piuttosto una logica di «superamento» − come ha sostenuto Harry Harootunian nel suo lavoro sul Giappone − che puntava a ricreare un’unità nazionale perduta incentrata sull’autenticità culturale, sull’originalità e su uno spazio affrancato dalle pressioni della mercificazione e delle grigie logiche del mercato[2]. Spesso all’epoca questa aspirazione coincise con la ricerca di una «terza via» alternativa alle soluzioni esistenti.

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È difficile spiegare il comportamento dei paesi dell’epoca avvalendosi delle categorie fin troppo definite in cui gli studi accademici hanno cercato di inserirli successivamente. Rexford G. Tugwell, che faceva parte della cerchia più organica al New Deal, rifiutava sia il laissez-faire sia il comunismo, e parlava piuttosto di un «terzo corso», mentre l’economista Stuart Chase sosteneva una «terza via» e il procuratore generale aggiunto John S. Dickinson esaltava il bisogno di «restare saldamente sulla via di mezzo»[3]. Spinti dal desiderio di sperimentare, questi uomini si misero alla ricerca di nuove soluzioni politiche.

 

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Come si inseriscono gli Stati Uniti in questo quadro? La vittoria schiacciante di Roosevelt alle presidenziali del novembre 1932 segnò una svolta nella storia politica americana. Roosevelt vinse in quarantadue stati con il 57 per cento delle preferenze, dimostrando che in America il vecchio ordine aveva perso gran parte della sua credibilità. I democratici divennero il nuovo partito di maggioranza, e alcune minoranze critiche cambiarono posizione ed entrarono a far parte della coalizione del New Deal. Si è spesso detto che il 1932 dette il colpo di grazia al vecchio «sistema del 1896» dominato dai repubblicani, e che tale riconfigurazione politica determinò un cambiamento durevole e la nascita di un nuovo sistema destinato a segnare la politica americana nel corso dei cinquant’anni successivi.

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Pur essendo una democrazia gli Stati Uniti condividevano con i regimi estremisti una serie di elementi tra cui – come ha sottolineato di recente Ira Katznelson – «una solida ideologia razzista, l’espansione imperiale e il controllo delle popolazioni assoggettate»[4].

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Ma a cosa puntavano i democratici del New Deal, e per cosa si batteva Roosevelt? Come per i leader di altri paesi la sua vittoria non fu tanto una conferma della validità del suo approccio quanto una rea- zione al modo in cui il suo predecessore aveva gestito la crisi. Persino l’espressione «New Deal» – oggi identificata con il programma di riforme attuato a partire dal 1933 – fu in una certa misura frutto del caso: Roosevelt non la usò nelle prime fasi della campagna, ma quando accettò la nomina a candidato presidente dei democratici, nel luglio del 1932, durante un discorso in cui promise un «New Deal», «un nuovo patto per il popolo americano». In quella circostanza non attribuì al termine un significato specifico e i suoi consiglieri pensarono si trattasse essenzialmente di un artificio retorico, finché non fu recuperato dalla stampa, che identificò in esso lo slogan del candidato democratico14. Questa espressione condensava un’idea sostenuta da diverse correnti politiche in tutto il mondo: qualcosa di essenziale non aveva funzionato nel capitalismo e i governi dovevano assumersi più responsabilità per superare il disastro in corso. Per il resto l’espressione «New Deal» era priva di contenuti, e nonostante Roosevelt continuasse a garantire che sarebbe rimasto fedele alla democrazia, diverse questioni di prim’ordine restavano aperte. La sua idea di come avrebbe combattuto la crisi, ad esempio, restò alquanto vaga per tutta la campagna elettorale.

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Alcuni dei problemi nella definizione dell’approccio politico di Roosevelt erano inoltre dovuti al fatto che la presidenza Hoover era stata più ambivalente di quanto si sostiene abitualmente. Gli anni tra il 1928 e il 1932 non possono essere intesi semplicemente come un periodo di capitalismo sfrenato e di laissez-faire. Pur credendo fermamente in una politica di bilanci equilibrati, e pur essendo contrario a sussidi federali diretti destinati ai singoli individui – che secondo lui ne avrebbero ridotto l’iniziativa personale –, Hoover aveva creato una divisione Antitrust in seno al dipartimento di Giustizia, aveva spinto i dirigenti di ferrovie e servizi pubblici ad ampliare i programmi di costruzione e manutenzione, e aveva raddoppiato il numero di strutture ospedaliere destinate ai veterani.

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Sebbene la stragrande maggioranza degli americani pensava che la democrazia avesse ancora un futuro, all’epoca erano in molti a credere che l’avvenire dell’America stesse piuttosto nella dittatura, parola che allora indicava un concetto piuttosto vago. L’uso del termine «dittatura» è ben esemplificato da una trovata commerciale di quegli anni: nell’estate del 1927 la casa automobilistica Studebaker lanciò una nuova automobile chiamata Dictator. Il nome di questo modello di base – il piú economico della serie – fu scelto per indicare che esso «dettava lo standard» che tutti gli altri avrebbero dovuto seguire. Ad alcuni, però, la macchina piaceva semplicemente per il suo nome: ad esempio al premier estone – e poi dittatore – di destra Konstantin Päts, che lo scelse come veicolo ufficiale. In altri paesi, tuttavia, quel nome fu molto meno popolare e Studebaker pubblicizzò l’auto in maniera meno provocatoria, chiamandola Director. Negli Stati Uniti, invece, non ci fu alcuna controversia sulla Dictator: Studebaker vendette piú di quarantamila veicoli e quel nome fu usato fino al 1937. All’epoca la maggior parte degli americani aveva solo una vaga idea di cosa significasse quella parola[5]. Alcuni la associavano a Benito Mussolini, che rappresentava il vigore e l’audacia.

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Tutto sommato non fu tanto Roosevelt a essere eletto quanto Hoover a essere sconfitto. La prima metà degli anni Trenta fu un momento in cui i valori cambiarono e le istituzioni si trasformarono, in circostanze politiche ed economiche in piena mutazione. Con il suo miscuglio di vaghezza sul piano dei contenuti e retorica esuberante, il New Deal fu un tipico prodotto della prima metà degli anni Trenta. Nell’interregno compreso tra l’elezione e l’insediamento di Roosevelt non era ancora chiaro cosa avrebbe portato il 1933: una continuità forte con gli anni di Hoover? Una rinascita economica in tandem con un rinnovamento della democrazia? Oppure addirittura una specie di dittatura?


[1] Oakeshott, Introduction, pp. xi-xii.

[2] Harootunian, Overcome by Modernity.

[3] La citazione di Tugwell si trova in Schlesinger, The Politics of Upheaval, p. 648 [trad. it. L’età di Roosevelt, vol. III: Gli anni inquieti, p. 666]; s. chase, A New Deal, p. 242; e j. dickinson, Hold Fast the Middle Way.

[4] Katznelson, Fear Itself, p. 39.

[5] Alpers, Dictators, Democracy, and American Public Culture, pp. 15-16.

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