Questa intervista a Manlio Milani (MM) è stata realizzata e curata da Pietro Savastio (PS).
MM: Prima di cominciare vorrei manifestare solidarietà per le vittime della strage di Bologna e i loro famigliari, una carneficina che ha comportato una tragedia non solo in termini di vite umane ma anche di devastazione personale e psicologica per molte persone, come è in tutti i casi delle grandi stragi italiane di quegli anni.
PS: Dalla strage di Bologna del 2 agosto 1980 sono passati oramai 40 anni, a che punto siamo con l’accertamento dei fatti?
MM: Per quanto riguarda Bologna, ci sono già state diverse sentenze passate in giudicato che hanno accertato alcune responsabilità, tra le altre quelle di alcuni esponenti della P2 come Pazienza e Gelli, nonché di alti apparati dello Stato come i Generali Giuseppe Belmonte e Pietro Musumeci. Alcune responsabilità sono state acclarate grazie al lavoro svolto dai magistrati che hanno fatto emergere anche il supporto che la destra eversiva ha ottenuto da parte di alcuni degli alti apparati dello Stato, come hanno più volte ribadito anche i nostri Presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella. A questo proposito si parla sempre di apparati “deviati” ma al riguardo occorre stare molto attenti a non banalizzare: quegli uomini agivano in funzione di una politica, erano coinvolti in precise dinamiche politiche e di potere. Anche in questo caso si ritrova lo schema delle stragi ’69-‘74, come nel caso dell’ultima sentenza del 2017 su Piazza della Loggia: uomini legati alla destra eversiva unitamente a servizi segreti e alti apparati dello Stato hanno avuto responsabilità miste tra esecuzione, organizzazione e mandato.
PS: Per i fatti di Bologna la colpevolezza giudicata in tribunale non è stata riconosciuta dai condannati. Cosa significa questo?
MM: Come dice giustamente lei, ci troviamo di fronte a persone che ammettono la propria responsabilità per altri numerosi atti terroristici ma si dichiarano innocenti per
questa strage e asseriscono di essere state “intrappolate”, benché non forniscano alcuna ricostruzione di come ciò sia avvenuto e ad opera di chi. Questo ci pone davanti al principale ostacolo al processo di ricucitura storica e sociale: il non-riconoscimento, che apre al disaccordo. Si evidenziano qui i tre livelli della verità (processuale, umana e storica): Il primo è il livello della giustizia ufficiale e dello stato di diritto, che conduce le sue indagini e pronuncia le sue sentenze; il secondo è il livello del riconoscimento umano e personale dei fatti, dell’accettazione o del rifiuto che come parti in causa accordiamo al processo e agli elementi giudiziari accertati; il terzo livello è più ampio e ricomprende i precedenti tratteggiando un quadro ben più sfaccettato che è quello della verità storica complessiva.
PS: Come è possibile, nel caso specifico, muoversi tra questi tre livelli?
MM: Innanzitutto occorre prendere atto dell’ostinata dichiarazione d’innocenza dei giudicati colpevoli, che affermano di essere stati incastrati. È impossibile ignorare questa posizione, che ci costringe ad interrogarci, sia come vittime sia come storici. La “verità giudiziaria” passata al vaglio e confermata dalla Cassazione ci indica una verità processuale che, proprio perché siamo in uno Stato di diritto, non può essere ignorata, anzi, va accettata soprattutto perché conclusione di un confronto pubblico. Eppure quella verità giudiziaria è messa in dubbio dall’ostinata dichiarazione d’innocenza dei condannati, quel “grido” ininterrotto che dice: “Riconosciamo le nostre colpe ma non questa della Stazione di Bologna…. Abbiamo, per questo delitto pagato una ingiusta detenzione”. In questo senso prendere atto di quelle dichiarazioni, abbandonare per un istante le certezze della verità processuale, è un lasciarsi prendere dal dubbio, un’apertura al possibile della “verità storica” che è altro rispetto al solo giudicato processuale.
PS: Qual è dunque il rapporto tra verità storica e verità processuale?
La verità processuale “fissa nella storia” non solo le singole responsabilità
dell’accadimento ma pure permette l’ascrivibilità della strage a una certa parte politica (in questo caso la destra neo-fascista). Essa non la lascia dunque in balia di dichiarazioni spesso interessate – soprattutto quando il fatto resta impunito, come per molte stragi – dove le parti potrebbero accusarsi l’un l’altra: la verità giudiziaria segna la “traccia profonda” da cui partire poiché essa fissa nella storia alcuni punti fermi. Occorre però anche riconoscere i limiti della ricostruzione giudiziaria e ampliare la ricerca della verità approfondendo il contesto storico e andando a definire le ragioni più sotterranee che hanno prodotto le stragi. È importante questo sia da un punto di vista della vittima che da un punto di vista pubblico: la continuazione della ricerca, il posizionamento degli eventi in una dimensione storica e conflittuale consente di strappare quelle morti alla sola “malvagità” dei condannati e ricostruisce il terreno politico e culturale nel quale quegli episodi si sono iscritti; consente di dare insomma valenza storica a quelle vite distrutte. Questo allargamento consente quindi di accedere ad una lettura più articolata che spiega le vere ragioni di quella violenza. Così anche la vittima è in grado di trovare un senso agli accadimenti ricollocando la strage in uno scontro di natura sociale e politica. Solo così è possibile ricostruire la strategia di potere – che in quegli anni si è avvalsa dello strumento terrorista – che ha prodotto quelle stragi.
PS: Che ruolo hanno svolto secondo lei gli iter ufficiali nella costruzione della memoria?
MM: La memoria in questo paese, mi è capitato di dirlo diverse volte, viene costruita in un’ottica assolutamente sbagliata. La Commissione Stragi che è durata 15 anni, anziché ricostruire la storia partendo dalle diverse esperienze politiche è invece partita da una logica di contrapposizione frontale, che non fa altro che produrre uno scontro tra certezze divergenti. Si è limitata la comprensione del contesto politico in cui quelle stragi sono avvenute e non è stato possibile in sostanza indagare gli interessi in gioco in quella fase storica di conflitto est-ovest. Non è stato possibile ricostruire le tensioni e le determinanti di quegli episodi di violenza. Per questa ragione la Commissione non è stata in grado di consegnare alcuna relazione al Parlamento, perché non ha attivato nessun ripensamento critico sulle ragioni delle stragi e dell’assenza di giustizia. È stata un’occasione mancata di ricostruzione dei moventi storici e politici proprio perché ancora allora lo scontro e le contrapposizioni ideologiche e geopolitiche erano forti e presenti in seno alla società italiana e mondiale.
PS: Sono possibili altri percorsi per provare a costruire dialogo tra le parti offese?
MM: Se manca riconoscimento tra le diverse parti del proprio operato e delle proprie responsabilità viene meno il terreno comune sul quale provare a costruire un processo di ascolto e confronto. Qualsiasi percorso di riparazione, accettazione e superamento prevede un’assunzione di responsabilità che nel caso della strage di Bologna viene a mancare dal momento che i condannati si dichiarano innocenti. Stando così le cose, non è possibile avviare alcun percorso di incontro, confronto e ascolto. In termini generali, invece, come può essere in altri casi di stragi o di crimini simili, ritengo che il confronto tra le memorie sia l’unica via per formarne una collettiva. Questo però presuppone un riconoscimento dei propri atti, del proprio ruolo, delle proprie responsabilità. A partire da ciò, nella diversità dei vissuti e delle memorie, tra vittime e carnefici, possiamo accettare di confrontarci con l’altro e le sue ragioni.
PS: Quali tipi di interrogativi possono animare l’ascolto e il riconoscimento?
La diversità di scelte e azioni commesse, da un punto di vista umano, domanda di essere problematizzata e interrogata. La sfida è quella di tenere vivo il dubbio: “come mai abbiamo agito diversamente?” Anche come vittime possiamo sfidarci a tenere conto dell’altro, proprio nel tentativo di scorgere e comprendere quella logica diversa che sulle prime sembra inspiegabile e inconcepibile. Il rischio, altrimenti, è quello di cadere in una spirale in cui si resta chiusi nella propria verità e nella propria memoria, dove l’altro viene semplicemente demonizzato. Al contrario, lo sforzo immane a cui siamo chiamati è quello di avviare un processo di mutuo ascolto e riconoscimento. Dal lato dei famigliari delle vittime occorre domandarsi: chi è costui che è stato condannato? È questo, mi pare, l’unico antidoto per non restare prigionieri della propria memoria che va messa in discussione attraverso il dialogo e il confronto. Certo, ciò domanda una scelta di disponibilità e un’assunzione di responsabilità rispetto alla propria storia e a quella degli altri. Solo da qui possono partire percorsi di giustizia riparativa fondati sull’ascolto dell’altro e sullo sforzo di immedesimarsi.
PS: Cosa fare, dunque?
MM: Occorre continuare a cercare di fronte alla complessità e agli intrighi, con un dubbio e un’interrogazione continui. Bisogna aprire gli archivi e continuare il lavorio storico: consolidare la verità è possibile solo nella desecretazione di tutti i documenti. Non dobbiamo avere paura della verità, anche se ciò potrebbe portare a ridiscutere, come previsto dalla legge, l’esito degli accertamenti giudiziari. Contemporaneamente, sul piano sociale, è importante imparare a confrontarsi con la diversità di vissuti tra vittime e carnefici. Quando si entra in un’aula di tribunale si capisce l’importanza della democrazia e del vivere insieme, lì ci si trova a lavorare sull’idea della responsabilità come processo di confronto. I percorsi di giustizia riparativa potrebbero essere visti come lo specchio della democrazia, ossia come il momento in cui ascoltiamo il punto di vista diverso che non avevamo considerato. Ecco, io credo sia da qui che dovremmo ripartire per allenarci al riconoscimento e all’ascolto dell’altro che dovrebbero essere il sale delle nostre società e del vivere civile.