Università di Milano Bicocca

… Continua da Covid-19, povertà e disuguaglianze di salute


Nel contributo precedente ho cercato di delineare le implicazioni dell’epidemia di Covid-19 in termini di disuguaglianze di salute. In questo secondo intervento discuterò le possibili conseguenze dell’epidemia sulla povertà e la disuguaglianza in Italia, date le caratteristiche del nostro paese. Si tratta di un esercizio non semplice sia perché al momento non ci sono dati consolidati sulle conseguenze socio-economiche dell’epidemia in corso, sia perché si tratta di una situazione senza precedenti – l’unico evento simile è l’epidemia di influenza spagnola di oltre un secolo fa, avvenuta in un mondo completamente diverso da quello attuale – e non abbiamo quindi modelli ai quali fare riferimento. Cercherò tuttavia di delineare alcune possibili conseguenze di medio periodo a partire dalle caratteristiche della povertà e della disuguaglianza in Italia e utilizzando le informazioni disponibili al momento.

L’epidemia avrà, anzi sta già avendo, rilevanti e drammatiche conseguenze sociali a causa della profonda crisi economica che si sta manifestando. Le ultime stime segnalano una caduta del PIL italiano superiore all’11%, il peggior calo tra i paesi europei, al quale seguirà nel 2021 una crescita del 6%: ci sarà quindi una perdita netta di ricchezza superiore al 5%. Il tasso di occupazione è passato dal 65,2% di gennaio al 62,7% di maggio: si sono persi circa 515.000 posti di lavoro, metà dei quali occupati da donne (Istat, comunicato stampa del 2 luglio 2020). Già adesso da più parti viene segnalata la crescita della richiesta di aiuto alle organizzazioni che forniscono supporto economico o alimentare: la Caritas italiana ha recentemente dichiarato che il numero di persone che si sono rivolte ai suoi centri è aumentato del 50%, e sono in buona parte persone che non si erano mai rivolte a loro in precedenza. Alcune stime parlano di un milione di nuovi poveri, il Banco Alimentare teme che da 5,5 milioni di poveri assoluti si possa arrivare addirittura a 10 milioni.

Tutto questo accade dopo che nel 2019, per la prima volta da diversi anni, la povertà assoluta aveva segnato una diminuzione. La figura 1 descrive l’andamento della povertà assoluta nel nostro paese per tipi di famiglie a partire dal 2005. Come si può osservare la crisi del debito del 2010-2011, seguita alla crisi finanziaria del 2007-2008, aveva determinato un forte incremento della povertà assoluta nel nostro paese, che era raddoppiata passando da valori inferiori al 4% negli anni precedenti, al 7% nel 2017-2018, per poi scendere al 6,4% nel 2019 1. Ciò che è importante sottolineare è la diversa distribuzione del rischio di povertà assoluta per tipo di famiglia, nonché la diversa dinamica manifestata in questi anni: una delle caratteristiche peculiari è infatti il forte rischio tra le famiglie con bambini, che è cresciuto moltissimo in questi anni. Nel caso delle famiglie con almeno 3 figli minori l’incidenza è infatti quadruplicata, passando dal 4% ad oltre il 16%, per poi diminuire al 15,8% nell’ultimo anno. Gli altri aspetti peculiari della povertà nel nostro Paese sono la maggiore incidenza nel mezzogiorno (8,5% contro il 5,8% nel Nord e il 4,5% nel Centro), la quota elevata di lavoratori poveri 2 (oltre il 12%), il fortissimo rischio per le famiglie immigrate (24,4% quando sono tutti stranieri contro il 4,9% quando sono tutti italiani). La valutazione dell’impatto che potrà avere l’epidemia sulla povertà in Italia deve tenere conto di queste caratteristiche di partenza.

Infatti, i soggetti vulnerabili sono quelli che subiranno gli effetti di questa crisi per primi e più profondamente. Interi settori economici, come il turismo e i trasporti, sono stati messi in ginocchio dal lockdown e non è verosimile immaginare una ripresa a breve considerando che le limitazioni alle attività sociali dureranno per molto tempo.

 

Ma in particolare saranno colpiti soprattutto i lavoratori impiegati con contratti a termine e tutti coloro con una posizione debole nel mercato del lavoro. I dati Istat citati in precedenza ci dicono che tra gennaio e maggio gli occupati con contratti a termine sono diminuiti di 413.000 unità (-14%), e tutto lascia prevedere che il calo proseguirà nelle prossime settimane, quando molti contratti non verranno rinnovati alla loro naturale scadenza. Ma anche molti indipendenti a partita iva stanno subendo un calo del giro d’affari, alimentando una tendenza al calo dei redditi in atto da tempo. In questi mesi gli interventi del governo a sostegno del reddito di questi lavoratori hanno consentito, non a tutti, di fronteggiare l’emergenza immediata, preoccupa però il prossimo futuro, quando termineranno le misure adottate e verrà rimosso il divieto di licenziamento. A queste persone si aggiungono naturalmente tutti coloro che sono occupati nelle zone grigie dell’economia italiana, in particolare lavoratori italiani a bassa qualificazione, soprattutto ma non solo, nel Mezzogiorno, e una quota rilevante dei lavoratori stranieri. Fortunatamente il Governo ha introdotto il Reddito di Emergenza come misura eccezionale e temporanea che consentirà di avere un sostegno economico anche a chi non ha potuto accedere alle altre misure – più generose – messe in campo in questi mesi (cassa integrazione in deroga, sostegni agli autonomi).

Un’altra conseguenza, che rischia di avere gravi conseguenze sul lungo periodo proprio per le caratteristiche della povertà in Italia, riguarda l’impatto sulle famiglie. Innanzitutto, tutti gli osservatori segnalano i pesanti effetti sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, e questo per una serie di effetti combinati. Infatti, la chiusura delle scuole ha aumentato il carico di cura che, ancora oggi, è prevalentemente svolto dalle donne, riducendone la disponibilità al lavoro retribuito. Inoltre, le donne sono spesso occupate nei settori più colpiti dalla crisi (turismo, piccolo commercio, servizi alle famiglie, etc). Infatti, le donne inattive sono infatti aumentate tra gennaio e aprile di quasi 600.000 unità, per poi diminuire di circa 50.000 a maggio. La perdita o il mancato ingresso di un secondo reddito nelle famiglie aumenta, evidentemente, il rischio di povertà dell’interno nucleo famigliare, soprattutto in un paese nel quale i servizi di cura e le misure di sostegno del reddito per le famiglie con bambini sono particolarmente scarse.

La pandemia sta inoltre esasperando le conseguenze del digital divide tra le famiglie italiane, e in particolare sui bambini e sui ragazzi. La chiusura delle scuole e lo spostamento della didattica sulle piattaforme digitali ha sicuramente consentito di proseguire l’attività didattica anche in questi mesi. Questo però ha penalizzato le famiglie con minore disponibilità degli strumenti necessari per partecipare alle lezioni online: il 12,5% delle famiglie con minori non dispone di computer o tablet, un valore che cresce al 20% nel Mezzogiorno, dove si concentrano le famiglie maggiormente svantaggiate. Questo svantaggio materiale si somma alla minore capacità di utilizzo di questi strumenti da parte delle famiglie con minore capitale culturale, e alle difficoltà che le famiglie straniere possono incontrare nel supportare i loro figli nelle attività scolastiche a distanza a causa delle difficoltà con la lingua italiana. Nel loro insieme, queste conseguenze della pandemia sulle famiglie rischiano di esasperare ancora di più la natura famigliare della povertà nel nostro paese, e di conseguenza di rafforzare il meccanismo perverso di trasmissione intergenerazionale dello svantaggio sociale.


1 Per un’analisi approfondita della povertà in Italia mi permetto di rimandare a Saraceno, Benassi e Morlicchio (2020) Poverty in Italy. Features and Drivers in a European Perspective, Policy Press, Bristol.

2 Ci riferiamo alla in-work-poverty, cioè quelle famiglie che pur avendo almeno un componente occupato regolarmente hanno una disponibilità di risorse economiche non sufficienti a superare la socglia di povertà (vedi Benassi e Morlicchio, in corso di stampa ANNALE FELTRINELLI).

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