Il presente testo sviluppa un intervento al webinar del Forum Diseguaglianze e Diversità, Marzo 25, 2020, https://www.forumdisuguaglianzediversita.org ed è stato presentato nell’ambito del Workshop Investimenti nell’emergenza e post emergenza: attori, obiettivi e responsabilità – “After the coronavirus, a public infrastructure to overcome the pharmaceutical oligopoly” – Fondazione Giangiacomo Feltrinelli – 29/06/2020
Il COVID-19 ha mostrato tutti i limiti dell’industria farmaceutica nel programmare gli investimenti in ricerca a lungo termine e nello sviluppo di vaccini e nuovi farmaci per prevenire o contrastare le emergenze derivanti da malattie infettive, ossia nel presidiare la tutela della salute, bene pubblico per definizione. Come ricordato in un precedente contributo, la prima SARS-Severe Acute Respiratory Syndrome è comparsa nel 2002, causata da un ceppo di coronavirus con un genoma simile al Covid-19; così la MERS-Middle East Respiratory Syndrome del 2012. Nel marzo 2015 Bill Gates a TED denunciò l’alta probabilità e pericolosità di una pandemia, perché troppo bassi gli investimenti in ricerca per tutelare la popolazione del pianeta; mentre esperimenti dimostravano la pericolosità di coronavirus ospitati in altre specie, confermata nel 2017 in Cina. Nel 2016, Peter Hotez, esperto di vaccini, ha proposto di investire in tale direzione, senza riuscire a convincere le imprese farmaceutiche. Nel marzo del 2020 Jason Schwartz, della Yale School of Public Health, e il Segretario Generale dell’OCSE hanno entrambi dichiarato che se si fosse proseguita la ricerca sul vaccino della SARS-CoV-1, simile fino all’80%, ciò avrebbe accelerato lo sviluppo di quello per il COVID-19.
È indubbio che lo sviluppo di vaccini o farmaci sia un processo difficile, complesso, lungo e rischioso. La variabilità dei coronavirus e i potenziali effetti collaterali sono un fatto, ma ad evidenza sarebbe stato saggio tentare di sviluppare farmaci antivirali per contrastare l’evoluzione della malattia, almeno nella sua forma più severa e letale. Di norma, molte malattie infettive provocano epidemie locali non croniche, spesso nelle aree più povere del pianeta, tali da non rappresentare mercati stabili e significativi visti i rischi. L’intero processo di test clinici, realizzazione e commercializzazione di un nuovo prodotto può durare tra i 5 e i 10 anni e richiedere dai 400 milioni fino a 2 miliardi di dollari, con un tasso di insuccesso molto alto. L’unica tutela a favore dei ritorni economici è data dalla protezione brevettuale, pari a 20 anni, con differenze fra giurisdizioni.
Nonostante il valore sociale dei prodotti, le Big Pharma, imprese globali e quotate in borsa, privilegiano quelli ad alto potenziale – i cd. blockbuster da un miliardo di dollari di fatturato annuo, propri delle patologie croniche, quali il diabete, l’ipertensione e certe forme tumorali – ossia la ricerca nelle aree terapeutiche di maggior profitto e ritorno finanziario, considerando non prioritari o abbandonando i percorsi di ricerca a più alto rischio, anche quando prevedibili gli effetti sanitari potenzialmente devastanti. Il profitto è del tutto positivo, nella misura in cui stimola l’innovazione e remunera i diversi stakeholder. La distorsione è il perseguire extra-profitti di breve a scapito del rispetto della finalità sociale di tutela della salute, anche grazie alla mancata remunerazione dei fondi e sussidi ricevuti a sostegno della ricerca da enti pubblici, per indirizzare l’azione a favore delle produzioni più socialmente desiderabili. Il COVID-19 ha quindi messo in luce le criticità dovute all’assenza di una protezione vaccinale e ha palesato l’atteggiamento reattivo nell’allocazione delle risorse, in funzione delle opportunità di mercato e non per prevenire le cure delle diverse patologie. Inoltre, l’abbandono dopo ogni epidemia dei relativi percorsi di sviluppo di vaccini e cure, si traduce in spreco di energie che non possono essere capitalizzate a favore della ricerca di base.
La situazione è tale da pretendere di rivedere strutturalmente obiettivi e attività di tutti coloro che sono preposti a garantire la salute pubblica, un diritto imprescindibile, ottimizzando processi decisionali e investimenti, per evitare di accentuare le diseguaglianze tra Stati e fasce sociali e disinnescare conflitti per l’acquisizione dei vaccini. Una proposta concreta, avanzata e sviluppata più in dettaglio in un altro contributo, è BIOMED EUROPA: infrastruttura pubblica a livello europeo per garantire una attività di ricerca che possa presidiare e rendere disponibili non solo le cure per le attuali patologie, ma anche per prevenire quelle future. In questa ottica, è necessario che la struttura detenga la proprietà intellettuale delle scoperte, con il diritto di sviluppare, produrre o dare la licenza a terzi a prezzi accessibili i prodotti e le tecnologie, nonché di vendere e distribuire, anche in partnership con attori privati. Studiosi ed esperti sono attualmente allo studio di governance, fattibilità tecnica e finanziaria e analisi dei costi e benefici sociali. Le priorità di ricerca e sviluppo di questa infrastruttura, frutto di un trattato fra Stati aderenti, sono dettate dalla comunità scientifica e dai sistemi sanitari pubblici, annullando le distorsioni, quale contrappeso all’industria privata. Non si tratta quindi di una ulteriore agenzia di regolazione del mercato, ma di una vera impresa pubblica ad alta intensità di conoscenza, alla stregua di un “CERN Biomed”, grazie ai migliori ricercatori e alle collaborazioni scientifiche con competence provider pubblici e privati attivi nei diversi paesi, quali centri di ricerca, unità di produzione e attori logistici. Si stima un bilancio annuo pari a quello del National Institute of Health-NIH negli USA (41 miliardi di dollari), che in Europa può essere inferiore, concentrando le risorse sulla ricerca “in house” rispetto alla loro attuale dispersione, basato su un mix di trasferimenti: dagli Stati, da accordi commerciali con i sistemi sanitari nazionali, da meccanismi innovativi di compartecipazione ai risultati del settore privato. La convenienza nell’istituire l’infrastruttura è presto dimostrata, confrontando l’equivalente di qualche decimo di PIL, con quanto costerà la sola pandemia da Covid-19, in vite umane e depressione dei sistemi economici, per non aver investito in ricerca, per il bene pubblico.