Il 19 luglio 1960 dopo tre settimane di tensione altissima, cariche di scontri fisici ed emozionali, con una scia di morti – in gran parte giovani, è bene non dimenticare questo aspetto – il Governo di Fermando Tambroni si dimette. Certamente pesa in quell’atto la forza della piazza, ma pesa anche la percezione e la convinzione – dentro le stesse stanze del governo di centro destra – che la sfida della trasformazione non possa più essere giocata solo esclusivamente, o comunque prevalentemente, sul principio dell’antisinistra.

Dentro alla crisi e accanto alla crisi che si consuma nelle piazze d’Italia – da Palermo a Genova, da Reggio Emilia a Roma – ciò che la politica si trova a dover affrontare è raccogliere la protesta della piazza e tradurla in un processo di trasformazione.

Quel processo di trasformazione, o almeno la domanda di trasformazione, raccoglie in quel periodo e in quella scena due istanze diverse che hanno accompagnato le domande sia proprie di alcuni settori della politica, anche dentro l’area di governo (in particolare alcuni settori della Democrazia Cristiana e delle componenti laiche), sia del mondo della società civile, ma anche dei quei settori che per la prima volta entrano nella scena della storia pubblica e chiedono il «diritto di contare».

Il quadro italiano è dunque già in movimento. E quei fatti si innescano in una società che già avverte le sfide che ha di fronte, pur non avendo ancora chiaro quale percorso intraprendere.

In breve.

I risultati delle elezioni politiche del 1958 hanno indicato la crisi del modello di governo su cui la giovane repubblica ha costruito il processo di nuova industrializzazione nel corso degli anni ’50. A partire da quella data il problema è come dare espressione a un esecutivo che sia contemporaneamente di piazza e di palazzo, ovvero che raccolga il malessere sociale che ancora caratterizza un paese che con difficoltà riesce a crescere e a distribuire benessere e una realtà economica che, invece, dimostra crescita.

Nella primavera 1960, il governo che Tambroni presiede, con il voto determinate di appoggio esterno del Movimento sociale, non mette a tema la crescita e la ripresa di tanti episodi di antisemitismo che avvengono in varie città italiane, né la rivendicazione aperta di continuità con la memoria della Repubblica sociale italiana. La convocazione a Genova del Congresso del partito non è solo una sfida di luogo, è soprattutto una sfida di persone. Noi oggi capiremmo molto poco di quella contrapposizione se non ricordassimo che, come presidente onorario del congresso indetto per il 30 giugno a Genova, è nominato Carlo Emanuele Basile, già prefetto della città ai tempi della Repubblica sociale italiana.

Dunque quella scena che ha luogo a Genova (ma che era stata preceduta da altre manifestazioni a Palermo, a Licata, e poi Agrigento, Catania, Porto Marghera) trova nel rifiuto del passato un elemento simbolico, ma soprattutto ragiona e propone un sentimento sulla base non di un progetto, bensì di un’esperienza. E sulla base di quella esperienza di passato si carica di futuro.

Vediamo la scena.

Il 28 giugno, a Genova, Sandro Pertini tiene un affollatissimo e appassionato comizio (qui il testo integrale) che  inizia così:

“Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori”.


 

28 giugno 1960, Sandro Pertini a Genova


Il problema dei processi rivoluzionari, se ha la preoccupazione di dover proporre un esito, vive essenzialmente dei ricorsi di un’esperienza. Come ha intuito Hannah Arendt  nel suo Sulla rivoluzione, la forza mobilitante della rivoluzione americana consisteva appunto nell’obbligare a riflettere su un’esperienza. Gli americani del ‘700, in atre parole, erano consapevoli della sfida aperta dal percorso di libertà non perché gli aveva convinti un libro, ma perché la loro esperienza diceva che la libertà pubblica consisteva nel partecipare agli affari pubblici, ovvero era fondata sul piacere di “discutere, deliberare, prendere decisioni”.

Per questo nella riuscita di una rivoluzione, o comunque di un moto emancipativo e di un processo volto alla libertà, è importante il rapporto con il passato, con un’esperienza vissuta, più che la scrittura di programmi o di progetti palingenetici. Perché quel passato torni a parlare al presente non basta evocarlo o rappresentarlo scenograficamente in piazza (perché convinti che il suo ripetersi garantisca automaticamente del successo): quella evocazione – anche emozionale – deve trovare le parole per raccontarsi. E le parole sono quelle che la storia recente ha marcato. Poi sicuramente il processo va governato e la classe politica, anche quella di governo, sa che deve proporre soluzioni che non siano automaticamente il rovesciamento dei rapporti di forza. Tutti gli attori sanno che il passato è utile per trovare suggestioni, propositi, per tornare a sentire emozioni, ma soprattutto come terreno in cui progettare può diventare un percorso di creatività vera, per cui ne valga la pena.

In breve, il fascino non è sul progetto di domani, che ancora non ha un volto chiaro, ma sta nella possibilità di poter fare cose e sulla capacità, già dimostrata nel passato recente, di saperle fare. Condizione appunto che ne vale la pena, in cui non si tratta di alimentare un mito, ma di tornare a prendere in mano la possibilità di cambiare il presente perché nel passato quello sforzo si è già dimostrato un terreno di creazione di politica, ma anche perché quella storia dice che quell’impegno “ne vale la pena”. Anche per questo quella scena dice di una visione ottimistica di futuro.

Il che ci porta a osservare un fatto: la piazza, la voce che nasce dalla decisione di esserci in alcuni momenti centrali, laddove non può esserci più solo la delega alla politica, non è l’accantonamento della politica, o la sua rimozione. Perché quella piazza possa pesare, e dunque “contare”, deve avere la consapevolezza che il vocabolario che usa, le parole o le immagini che propone, i sentimenti su cui lavora hanno echi nella coscienza pubblica, non necessariamente identità o convinzioni. Quegli echi per poter costruire devono lavorare su una sedimentazione che c’è. Nessun salto in avanti in solitudine potrà dare possibilità alla voce della piazza, quando avverte di essere il soggetto che la cronaca sfida a prendere posizione e a esserci, di aspirare a diventare vocabolario diffuso.

Se quel passaggio non riesce, se quella piazza, pur esprimendo preoccupazioni o timori che dovrebbero riguardare molti o che sarebbe di grande valore che diventassero temi della discussione pubblica non riesce a compiere quel salto, registra una sconfitta che non è solo momentanea, ma che spesso ha i tratti della sconfitta generazionale. Può essere che poi le sfide della trasformazione impongano di tornare a quella scena, a considerare come futuro auspicabile quelle parole (o almeno una loro parte) che in precedenza sono rimaste sole e sconfitte. Ma la responsabilità non è solo di chi in precedenza non volle capire o non ascoltò o si lasciò attrarre da altre sirene. È anche di quelle voci protagoniste che non riuscirono a far diventare agenda pubblica questioni di interesse generale.

Lo dico perché il tema non è solo evocare a 60 anni di distanza i fatti dell’estate 1960, cosa provocarono e la stagione politica che consentirono di aprire, ma soprattutto perché se si riflette sul ruolo della piazza nella storia, si dovrà  con la stessa radicalità tornare a considerare quando ancora a Genova, quarantuno anni dopo quella scena, una generazione perse la voce o non trovò il modo e lo spazio per modificare l’agenda culturale e politica del proprio tempo (che è il nostro tempo, ora) .

È importante aprire quel capitolo perché a Genova, in quell’estate 2001, quando una generazione uscì sconfitta e silenziata, una delle conseguenze fu che alcuni dei temi che quella generazione proponeva di mettere in agenda ci riguardavano allora, e continuano a riguardarci oggi, ancora di più nel tempo in cui il dopo-Covid ci obbliga a pensare e ripensare “futuro”.


Genova, 2001


Possiamo pensare che l’occasione evocativa che ci porterà al ventennale non sia solo una riflessione triste della sconfitta rivendicando uno sterile “avevamo ragione” in un più proficuo percorso che metta a tema la qualità dello sviluppo, compresa la formulazione di un vocabolario politico, di una lingua per la politica in odore di responsabilità condivisa?

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