È urgente, più di sempre, riflettere collettivamente sull’importanza di far conoscere luci, ombre e nodi irrisolti della nostra Storia recente alle nuove generazioni. Sapere che “Siamo stati fascisti”[1] e fare i conti con questa pagina drammatica del nostro passato è un’acquisizione fondamentale per qualsiasi cittadino di questo Paese.
Dalla mia prospettiva di pedagogista mi sento chiamata in modo particolare a riflettere su quali siano i contesti e i metodi attraverso i quali trasmettere il senso della Storia entro comunità scolastiche fortemente eterogenee. La trasmissione storica non è infatti un processo scontato.
La Storia non è mai neutra
Non voglio studiare la Riforma protestante,
perché non è della mia religione.
Studente di origine marocchina,
Istituto professionale, Milano
Nelle scuole delle grandi città d’Italia un alunno su tre è nato in Italia da genitori stranieri. In alcuni contesti di scuole superiori tecniche e professionali, così come nei centri di istruzione per gli adulti, la stragrande maggioranza degli studenti ha una storia personale di migrazione, non di rado drammatica e forzata[2]. L’ora di Storia diviene spesso luogo di confronto vivace attorno ai grandi eventi del passato ma anche di reazioni identitarie da parte di studenti che rifiutano, in particolare nell’età adolescenziale, alcune pagine di Storia considerate estranee al proprio orizzonte culturale.
Insegnare in questi contesti significa ricercare, spesso con fatica, un equilibrio tra trasmissione culturale, rispetto di sensibilità diverse e gestione di dinamiche relazionali complesse.
La Storia non è mai neutra e diventa non di rado terreno di sfida e di scontro. Ma la Storia può diventare, con egual potenza, terreno di incontro, nella misura in cui si allestiscano occasioni di apprendimento che, lontane da una concezione depositaria dell’educazione, si basino sul dialogo e il confronto[3]. C’è in particolare una strategia, che è parte integrante delle competenze interculturali degli insegnanti, per scardinare queste dinamiche: mettersi in ascolto delle storie dei ragazzi, lasciarli esprimere, dare voce alle loro domande e alle loro ferite[4]. Solo se ascoltati, sapranno mettersi a loro volta in ascolto.
Le voci dei testimoni di ieri e di oggi
Vado nelle scuole a parlare della Somalia, il mio Paese.
Devo come prima cosa spiegare ai ragazzi dove si trova,
perché molto spesso non è nemmeno indicata sulla cartina.
Giovane rifugiato somalo,
Generazione Ponte, Torino
Tra le esperienze più formative in assoluto della nostra scuola vi è senza dubbio l’ascolto di storie e testimonianze dirette. I testimoni della Shoah in primis hanno portato dentro l’istituzione scolastica non soltanto contenuti fondamentali ma un metodo per accostarsi alla Storia. Se dovessi descrivere l’educazione alla cittadinanza nella scuola italiana – la cui istituzione formale è sempre stata fallimentare – lo farei descrivendo quelle immense palestre con centinaia e centinaia di ragazzi raccolti in silenzio assoluto di fronte a un anziano testimone.
Quando questa generazione di testimoni non ci sarà più, resterà in eredità quel metodo che veicola un’idea precisa di trasmissione della Storia e di scuola come laboratorio di cittadinanza.
Negli ultimi anni assistiamo alla nascita di esperienze pilota da parte di associazioni di rifugiati[5] che hanno fatto proprio in qualche modo quel metodo: entrano nelle scuole e portano le loro storie di migrazione, di diritti violati, di paesi segnati dal Colonialismo, proponendo in questo modo pagine di Storia contemporanea spesso assenti dai nostri programmi scolastici. È in quelle occasioni che la scuola cessa di diventare un supermercato dove si acquista della merce e diventa un teatro dove attori e spettatori sono coinvolti in un’esperienza comune.
La sfida di diventare una comunità plurale
Da qualche anno ho introdotto la lezione di Storia in bicicletta.
I ragazzi mi seguono per strade, piazze e monumenti.
Ricostruiamo la storia del Novecento a partire dai luoghi della città.
Insegnante di Storia,
Istituto tecnico, Verona
Prendiamo dunque ad esempio a il 13 luglio di cento anni fa. Può diventare una delle date da imparare a memoria per l’interrogazione a scuola. Può diventare un simbolo privo di significato. Può diventare una ricorrenza che riguarda soltanto Trieste e la sua comunità. Sappiamo, purtroppo, che la sorte di molte ricorrenze è questa: diventare un contenuto mnemonico, piuttosto che una memoria viva che riguarda ognuno di noi. Non basta un’ora per formare il cittadino, non basta un’aula per imparare la Storia, non basta una data per formare una coscienza collettiva.
È qui che entra in gioco allora una sfida pedagogica e civile più complessa: quella di rendere gli studenti protagonisti attivi della Storia, liberi di consegnare la propria storia di sofferenza e violazione delle libertà, all’interno di una comunità capace di accoglierle. È importante far sperimentare loro, anche con metodi innovativi, che l’acquisizione della Storia è un processo attivo e non mera ricezione di contenuti. È importante che sentano che il loro personale contributo di storie lontane e sconosciute può contribuire ad allargare lo sguardo dell’intera comunità.
Solo così si può dare forma a una coscienza collettiva, che è poi lo scopo più profondo dello studio della Storia.
[1] Cfr. Albanese G., Bidussa D., Perazzoli J., Siamo stati fascisti. Il laboratorio dell’antidemocrazia (1900-1922), Feltrinelli, 2020
[2] Si può far riferimento ai dati del Miur sugli alunni con cittadinanza non italiana relativi all’anno scolastico 2017/2018 e ai dati della fondazione Ismu (2016-2017) sui minori non accompagnati collocati negli istituti tecnici, nei professionali e nei centri provinciali per l’istruzione degli adulti.
[3] Sul metodo dialogico in Pedagogia si può far riferimento a Danilo Dolci, Dal trasmettere al comunicare, Sonda, 1988 e a Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, Ega, 2002.
[4] Cfr. Granata A., Pedagogia delle diversità. Come sopravvivere un anno in una classe interculturale, Carocci 2016; Reggio P., Santerini M., Le competenze interculturali nel lavoro educativo, Carocci 2015.
[5] Cito, tra le altre, l’esperienza di Generazione Ponte a Torino e il progetto “Con altri occhi” nel contesto lombardo.