Proponiamo qui un estratto del saggio “La costruzione delle pratiche fasciste e la nuova politica” pubblicato nel volume Siamo stati fascisti. Il laboratorio dell’antidemocrazia. Italia 1900-1922
Attorno a Fiume si concentrava una parte considerevole dell’azione politica fascista e combattentistica del momento, ma anche si tessevano reti di rapporti che unirono il fascismo e il nazionalismo, specie nell’area nord-orientale del Paese (ma non solo). A Fiume, come è ben noto, si fondava – o meglio si raffinava e si definiva ulteriormente – una nuova simbologia e un nuovo linguaggio della politica, un linguaggio evocatore, teatrale e capace di incidere nel profondo nell’immaginario e nella politica del successivo dopoguerra.
Fiume non fu la “festa” di una rivoluzione che avrebbe potuto essere sia di destra sia di sinistra, e non è stata neppure una palestra di democrazia; fu, invece, un luogo di incontro e di sintesi di forze eversive che desideravano opporsi all’ordine liberale e rifiutare l’ordine di Versailles, costruendo una piattaforma per una rivoluzione nazionalista che seppe attirare a sé esponenti diversi, e provenienti da tutta Europa, che cercavano un’alternativa politica all’ordine che si stava delineando in quei mesi, e anche alla possibilità rivoluzionaria aperta dalla rivoluzione bolscevica. Il declinare dell’esperienza fiumana, e della sua importanza per quell’amalgama di forze che intorno all’impresa si stringeva, cominciò a diventare evidente dall’estate del 1920, soprattutto perché altri problemi si facevano più urgenti nella politica italiana, e l’avvicinarsi delle elezioni amministrative rendeva evidente l’esigenza di una riorganizzazione del campo antisocialista.
Le prime prove dell’azione diretta fascista e dell’uso della violenza, dopo la fase di risacca all’indomani delle elezioni del 1919, avvennero però non casualmente nelle aree più mobilitate dalla polemica contro la “vittoria mutilata”, nel Nord-Est del Paese.
Fu a Trieste, in modo particolare, che si verificarono i primi incidenti consistenti, contro l’Hotel Balkan, sede delle associazioni slovene in città, che sembravano compendiare due elementi centrali della piattaforma politica di molti gruppi fascisti, nazionalisti e reazionari:
l’antisocialismo e la difesa oltranzista dell’italianità, in questo caso a danno delle minoranze nazionali.
I disordini si replicarono poi in una Venezia che si era ampiamente mobilitata per Fiume, in chiave antisocialista e rivelano una notevole disponibilità di armi nelle mani dei fascisti locali.3
La centralità del confine orientale e di Trieste come luogo simbolo dell’italianità fascista, fu evidente nella frequenza dei richiami alla città nei discorsi del 1920, ma anche nell’importanza del discorso che Mussolini vi svolgeva, nel cinquantesimo della breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1920, pochi giorni dopo il primo anniversario della presa di Fiume (e nel mezzo delle trattative per la definizione del confine orientale con il Trattato di Rapallo). In questo discorso, Mussolini rivendicava con forza che “Primo pilastro fondamentale dell’azione fascista è l’italianità”, un’italianità aggressivamente schierata contro “tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili” ai confini del Paese; rivendicava il suo essere antidemagogico e pragmatico, mettendosi sulla linea della modernità già tracciata con forza dai futuristi, e accolta, almeno in parte, dai nazionalisti. Trieste, si ribadiva, era insomma un baluardo dei confini dell’italianità, ma anche il luogo da cui ribadire la forza di quell’italianità, per fare il punto sugli obiettivi a breve termina e di lungo periodo del fascismo, rivendicando – nell’immediato – l’azione dannunziana, anche se, di fatto, si stava contribuendo a depotenziarla.