Andammo sulle barricate a fare a cazzotti con i celerini e carabinieri che difendevano i fascisti. Eravamo tutti giovani, generosi e intransigenti, portavamo i jeans, avevamo il mito dell’America e siccome i soldi in tasca erano pochi ci vestimmo con delle magliette comprate per trecento lire nei grandi magazzini. Non ci interessava una vita passata solo lavorando, preferivano guadagnare meno ma avere più tempo libero, però quando ci fu da protestare non ci tirammo certo indietro.
Così Primo Moroni, nel ricordo di Marco Philopat , racconta le scene di disordini e protesta che cambiarono gli scenari politici in Italia in quell’inizio estate del 1960. L’anno infatti può essere considerato uno spartiacque nella storia dell’Italia repubblicana e del dopoguerra: con i moti contro il governo Tambroni, iniziati a Genova poi rapidamente estesisi al resto della Penisola, si inverte infatti il ciclo di sconfitte per le sinistre e il movimento sindacale italiano. Il lungo inverno degli anni Cinquanta aveva visto un alto numero di eccidi operai e contadini, l’emarginazione dei lavoratori sindacalizzati suoi luoghi di lavoro – si pensi ai famosi “reparti confino” della FIAT –, la rottura dell’unità a sinistra tra socialisti e comunisti, crisi acuita dall’annus horribilis 1956; oltre alla costante minaccia di approvazione di leggi speciali anticomuniste che, sebbene mai concretizzata, non impedì comunque l’applicazione di un sottobosco di misure di controllo da parte degli apparati di sicurezza dello Stato e dell’esercito , sostenuta da una vera e propria cultura della psicosi tipica del periodo più teso della Guerra Fredda. Anche l’Italia ha avuto il suo maccartismo.
Lo spostamento a destra e il passaggio dalla pregiudiziale antifascista a quella anticomunista come principio legittimante prioritario nella costituzione materiale del Paese produssero una delicata situazione politica proprio nella formazione del governo monocolore Dc di Fernando Tambroni grazie al voto determinante dei 14 deputati del Movimento sociale italiano. Il partito neofascista decise di cogliere l’occasione per sdoganare completamente la sua possibile presenza nell’area di governo, convocando per fine giugno il congresso nella Genova città medaglia d’oro della Resistenza. Il leit motiv scatenante della mobilitazione sarà la notizia che ad aprire i lavori sarebbe stato il prefetto della città ai tempi della Repubblica sociale italiana, Emanuele Basile: uno dei tanti uomini d’ordine “di carriera” che non saranno toccati dopo la Liberazione.
I fatti sono poi noti: la reazione popolare e i duri scontri di piazza che si susseguirono per oltre due settimane in molte città impedì il congresso missino e portò poi Tambroni a dimettersi il 17 luglio. Il saldo complessivo fu di 11 morti e oltre 100 feriti – per non parlare dei processi che seguirono. Ma è nell’immaginario di quelle settimane, nelle parole così come nelle fotografie e nelle canzoni, che troviamo le ragioni che rendono, come si diceva, il 1960 un momento di passaggio, interrompendo gli inverni degli anni Cinquanta e anticipando molti fenomeni dei Settanta.
Giovani, operai, con la maglietta a strisce.
Ci sono due immagini che hanno costruito la narrazione coeva e successiva dei moti di luglio ’60: la prima è la sequenza fotografica che documenta l’uccisione di uno dei martiri di Reggio Emilia, il 36enne Afro Tondelli. La seconda è la maglietta a strisce che indossavano i 18-20enni dei ceti medio-bassi, in realtà più per economia che per moda. Partiamo dalla prima.
Il 7 luglio anche Reggio Emilia scende in piazza contro il governo Tambroni. La tensione era aggravata dal fatto che due giorni prima, a Licata in Sicilia, i carabinieri avevano aperto il fuoco contro un corteo popolare uccidendo un giovane contadino, Vincenzo Napoli, e ferendo 24 persone. Nel capoluogo emiliano, la Camera del Lavoro aveva proclamato lo sciopero generale mentre la prefettura, come nel resto del paese, aveva proibito invece manifestazioni e assembramenti. Il corteo, che si forma spontaneo fuori dalle fabbriche e nella piazza cittadina, viene brutalmente caricato dalle forze dell’ordine che, respinte dalla resistenza a mani nude di cittadini e operai, aprono il fuoco uccidendo 5 persone e ferendone 16. I caduti, in breve ribattezzati “i Martiri di Reggio Emilia”, sono tutti iscritti al Partito comunista, 4 operai e 1 pastore, 3 ex partigiani (Marino Serri, Afro Tondelli, Emilio Reverberi). I più giovani sono Ovidio Franchi (19 anni) e Lauro Farioli (22 anni).
E’ di Afro Tondelli l’assassinio testimoniato dalla sequenza fotografica che pubblicherà l’Unità pochi giorni dopo, il 12 luglio, per confutare le menzogne della questura e del Viminale circa “l’aggressione” da parte dei manifestanti. La notizia fa nuovamente il giro della penisola, alcune immagini vengono anticipate dai giornali vicini alla sinistra: il giorno dopo è il turno di Palermo e Catania di scendere in piazza, dove al termine della giornata si contano rispettivamente 4 e 1 caduto sempre sotto i colpi delle forze dell’ordine; nel capoluogo i feriti da arma da fuoco sono 36, 370 i fermati e 71 gli arrestati.
Oltre alla fotografia, anche la musica giocò un ruolo di primo piano nella costruzione della memoria: il 24enne Fausto Amodei scrisse infatti a ridosso degli eventi quella che sarà destinata a diventare la canzone simbolo di quelle giornate e che assunse un significato identitario per la comunità politica reggiana: Per i morti di Reggio Emilia, ibrido tra la ballata popolare e il canto partigiano, parte fondativa dell’immaginario dei prossimi movimenti degli anni Sessanta e Settanta.
E qui veniamo all’altro elemento centrale nella storia orale dei moti di luglio: la maglietta a strisce. Caratteristica che dice molto di più del solo orientamento del vestiario giovanile dell’epoca. Come già ha anticipato Primo Moroni nella citazione riportata in apertura, chi scese in piazza tra il 28 giugno e il 17 luglio 1960 non era solo la base del Pci, ma anche e soprattutto un movimento spontaneo di giovani antifascisti, operai, figli di operai e partigiani, molti dei quali iscritti alle sezioni giovanili del partito ma in piazza accanto a molti altri senza tessera e provenienti da ambienti culturali diversi da quelli del marxismo e del socialismo italiano ortodosso, influenzati anche dalla cultura underground d’oltreoceano .
Questo connubio, assieme al clima globale in procinto di cambiare e in un battesimo politico culminato in un successo – la caduta del governo Tambroni e il respingimento dell’avanzata neofascista –, saranno tra le radici di quella che pochi anni dopo sarà definita Nuova sinistra e del rinascere di quel rivoluzionarismo anti-ortodosso presente da sempre nel retroterra culturale della sinistra italiana. Eppure, contrariamente a quanto avverrà con il ’68 e soprattutto con i movimenti degli anni Settanta a cui si contrappose nettamente, quella delle magliette a strisce fu una generazione che il Pci provò e in parte riuscì a intercettare. Basti pensare al fatto che a difendere molti degli imputati nei processi che seguiranno, anche i non iscritti al partito, saranno avvocati dell’apparato comunista come il costituente Umberto Terracini e il capo partigiano Giovanbattista Lazagna.
Ma lo scontro politico di quell’estate rappresentò una cesura anche per la controparte: nel Movimento sociale si parlò infatti di “trauma del luglio ‘60” per la generazione più giovane che, già critica verso la strategia di inserimento istituzionale della segreteria e della vecchia guardia proveniente dalla Rsi, si convinse della necessità di agire contro il nemico comunista su altri piani e con ben altri strumenti e interlocutori. Fu l’inizio di uno spostamento a destra più netto, che alimentò i propositi eversivi già presenti in un piccolo gruppo fuoriuscito nel 1956 e che negli anni successivi avrebbe fatto molto parlare di sé: il Centro Studi Ordine Nuovo.
Per Lapsus, Elio Catania