L’Istat, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l’Inps, l’Inail e l’Anpal hanno pubblicato il 19 giugno la Nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione, relativa al primo trimestre 20201. È un’utile raccolta di dati che, da un lato, permette di valutare il primo impatto dell’emergenza sanitaria sul mercato del lavoro italiano, dall’altro consente una riflessione più di lungo periodo sul tema della visibilità della disoccupazione come problema sociale ed economico.
Alcuni indicatori sembrano apparentemente preannunciare un miglioramento della situazione, ma si tratta evidentemente di un’illusione ottica. Nel primo trimestre 2020, dopo tredici trimestri di crescita ininterrotta, diminuisce il numero dei lavoratori a chiamata o intermittenti. Si registra inoltre, negli ultimi mesi, un sostenuto calo degli infortuni sul lavoro. Entrambe le variazioni sono semplicemente l’effetto della progressiva sospensione di ogni attività produttiva considerata non essenziale per il contenimento dell’epidemia da Covid-19, e non il risultato di una crescita dei diritti di chi lavora.
Il tasso di occupazione risulta ancora in aumento su base annua, ma il vero dato da evidenziare è la forte riduzione delle ore lavorate nel primo trimestre 2020: l’input di lavoro misurato in termini di Unità di lavoro equivalenti a tempo pieno subisce infatti un’eccezionale diminuzione sia rispetto al periodo precedente (-6,9%) sia su base annua (-6,4%), come conseguenza dell’emergenza sanitaria a partire dall’ultima settimana di febbraio. L’andamento del quadro occupazionale va infatti letto in relazione alla fase di forte flessione dei livelli di attività economica, con il Pil che nell’ultimo trimestre segna una diminuzione congiunturale di -5,3%.
Anche i dati sulla disoccupazione, se letti frettolosamente, possono dare l’idea che le cose stiano andando per il meglio. Nei primi tre mesi del 2020, infatti, si è ridotto il tasso di disoccupazione (-0,6% rispetto al trimestre precedente), ma sono cresciuti quasi specularmente gli inattivi (+0,7%), ovvero coloro che si collocano al di fuori del mercato del lavoro. Sono dati che si riferiscono soltanto alla fase iniziale del lockdown, ma che già preannunciano un’imminente recrudescenza del problema della mancanza di lavoro, che diverrà acuto soprattutto quando verranno meno gli ammortizzatori sociali messi in campo sinora (come la Cassa integrazione o il blocco dei licenziamenti).
La misurazione della disoccupazione, da quando è stata concepita all’inizio del Novecento, ha sempre posto complessi problemi di definizione del fenomeno e raccolta dei dati. In particolare, il fatto che non tutti i disoccupati rientrino nella stima del tasso di disoccupazione (un indicatore che tiene conto solo di chi cerca attivamente un lavoro) è un fatto noto e oggetto di riflessione da parte di economisti e sociologi almeno dagli anni Settanta[2]. In quel decennio alcune ricerche sul mercato del lavoro indicarono l’esistenza di una parte della disoccupazione non immediatamente visibile alle statistiche ufficiali, facendo riferimento ai cosiddetti «lavoratori scoraggiati» (coloro che rinunciano alla ricerca del lavoro perché convinti di non poterlo trovare).
Nel 1970 un saggio di Giorgio La Malfa e Salvatore Vinci evidenziò come la riduzione del tasso di attività iniziato dopo la fine del boom economico non andasse considerato del tutto fisiologico, ma dovesse essere ricondotto piuttosto al rallentamento della domanda di lavoro e al conseguente scoraggiamento di una quota della forza lavoro, specialmente quella appartenente alla fascia «secondaria» del mercato del lavoro, composta da donne, giovani e anziani. Il calo dell’occupazione, secondo gli autori, aveva comportato una diminuzione delle persone in cerca di lavoro e quindi un’apparente riduzione dei livelli di disoccupazione. Il calo del tasso di attività, dunque, era dovuto almeno in parte allo scoraggiamento[3].
All’inizio degli anni Settanta l’economista Luca Meldolesi si cimentò invece in una stima della consistenza dell’«esercito industriale di riserva» che, nell’accezione marxiana, include non soltanto i disoccupati espliciti, ma anche il più vasto mondo della precarietà occupazionale e della sottoccupazione agricola[4].
Lo scenario degli anni Settanta è utile per un confronto sul tema del lavoro e sulle diverse sfaccettature della disoccupazione, ma va anche evidenziato che la crisi economica di allora ha ben poco in comune con quella attuale. Gli indicatori macroeconomici dei primi anni Settanta, infatti, potevano legittimamente apparire all’epoca come il segno di una «crisi» solo in confronto alla straordinaria crescita degli anni Sessanta. I dati statistici riferiti agli anni fra il 1971 e il 1980, nell’insieme, restituiscono l’immagine di un’economia tutt’altro che stagnante, con una sostenuta crescita del Pil e delle esportazioni, in presenza di salari reali in crescita (ancora più rapida che non quella della produttività) e di un tasso di disoccupazione non eccessivamente alto. Nonostante il rallentamento nella crescita del reddito, nell’insieme il decennio comportò per l’Italia una rilevante crescita economica e notevoli progressi in campo sociale, che vanno però messi a bilancio insieme a numerose criticità e vari problemi di segno opposto[5].
Se la condizione del lavoro precario e dei disoccupati scoraggiati emerse con forza già in una crisi tutto sommato lieve, come quella degli anni Settanta, si può presumere che essa occupi un ruolo ancora maggiore oggi. E in effetti i dati elaborati regolarmente dall’Istat, se letti per intero, permettono di cogliere una crisi occupazionale di portata ben più vasta di quanto non possa apparire dal semplice tasso di disoccupazione. Oltre al «tasso di part-time involontario», che dà una misura delle riduzioni di orario di lavoro dovute alla crisi, è importante considerare soprattutto il «tasso di mancata partecipazione», che tiene conto non solo dei disoccupati in senso stretto, ma anche di chi, pur non cercando un lavoro, è disponibile a lavorare (cioè gli «scoraggiati»). Quest’ultimo indicatore, rispetto al tasso di disoccupazione, sembra adattarsi meglio alle caratteristiche del mercato del lavoro italiano, dove sono meno sviluppati che altrove i canali istituzionali di mediazione del lavoro e dove particolarmente ampia è la fascia dello «scoraggiamento»[6]. Per avere un’idea del diverso impatto dei due strumenti di misurazione, basti pensare che nel 2019 il tasso di mancata partecipazione complessivo ha raggiunto il 18,9%, contro il 10% del tasso di disoccupazione.
Un attento sguardo ai dati permette dunque di cogliere la complessità della situazione che l’Italia sta vivendo, specialmente ora che la fase acuta dell’emergenza sanitaria sembra finita, ma si addensano all’orizzonte nubi che non lasciano presagire nulla di buono sul piano economico e sociale, almeno in assenza di interventi correttivi da parte delle autorità di politica economica.
1 https://www.istat.it/it/files//2020/06/NotaTrimestrale-Occupazione-I-2020.pdf.
2 Per uno sguardo complessivo si rimanda a M. Alberti, Senza lavoro. La disoccupazione in Italia dall’Unità a oggi, Laterza, Roma-Bari 2016.
3 G. La Malfa, S. Vinci, Il saggio di partecipazione della forza lavoro in Italia, in «L’industria», 4, 1970, pp. 443-469.
4 L. Meldolesi, Disoccupazione ed esercito industriale di riserva in Italia, Laterza, Roma-Bari 1972.
5 M. Alberti, Tra Stato e mercato: l’economia italiana nei turbolenti anni Settanta, in L’Italia degli anni Settanta. Narrazioni e interpretazioni a confronto, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019, pp. 29-51.
6 Istat-Cnel, Bes 2013. Il benessere equo e sostenibile in Italia, Roma 2013, pp. 63-64.