Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

A tre mesi e mezzo dal fatidico Dpcm che “chiuse l’Italia”, è scoppiato un nuovo focolaio del Coronavirus presso la sede dell’azienda di logistica BRT (ex Bartolini) a Bologna. Sono già 54 i lavoratori coinvolti, a cui si aggiungono sei nuovi casi da altri magazzini – Palletways, DHL e TNT – e più di 17 tra familiari e conoscenti. Alla richiesta dei sindacati di avviare la procedura di quarantena dopo i primi contagi, una decina di giorni fa, la BRT non avrebbe dato alcuna risposta. Secondo le prime ricostruzioni, la compagnia non ha rispettato le regole sulle mascherine e sulle distanze minime. Nel corso della crisi pandemica, nessuna di queste aziende ha chiuso: appartenendo al settore della logistica, i più di mille dipendenti della filiera di Bologna rientrano tra i tanto decantati “eroi” a lavoro, mentre il resto del paese andava in isolamento fisico fino a data da destinarsi.

La logistica rientra infatti tra i settori definiti “essenziali” e quindi rimasti aperti nel corso del lockdown. Si tratta degli operatori nella sanità e dei servizi di cura, cassiere e dipendenti dei supermercati, braccianti agricoli, addetti nei settori della logistica, dei trasporti, della pulizia: 15 milioni di persone in servizio mentre tutto era fermo. Il filosofo francese Denis Maillard usa l’espressione di “back office” per definire l’infrastruttura umana, sociale e organizzativa che sorregge la nostra società: sono i lavori del “retrobottega”, tanto invisibili quanto essenziali per tenere in piedi un Paese. Rappresentano i settori necessari per nutrirsi, curarsi, proteggersi e istruirsi. Il “back office” trova il suo opposto nel “front office” – lavori a stretto contatto con clienti, utenti o pazienti, spesso caratterizzati da un alto livello di riconoscimento sociale, simbolico e finanziario.



Secondo Maillard, la pandemia ha operato un rovesciamento straordinario: dal 9 marzo, il “back office” è tornato alla luce, ed è percepito ai nostri occhi come tutto quello che ci permette di vivere concretamente nella società. Al contrario, gli occupati del “front office” (manager, imprenditori, professioni medico-scientifiche) si sono “ritirati nei loro appartamenti”, avendo l’opportunità di lavorare a distanza. Questo capovolgimento della piramide ricalca in buona parte fratture di classe: in Francia, il 70% dei “quadri” può effettuare il tele-lavoro, ma solo l’8% degli operai e il 23% degli impiegati può farlo. In Regno Unito, appena un quinto della classe lavoratrice ha la possibilità di lavorare da casa. Anche in Italia, le opportunità di lavoro da casa si concentrano nella parte medio-alta della distribuzione dei redditi, come abbiamo evidenziato in un recente contributo: può tele-lavorare il 60% di chi sta al vertice della struttura occupazionale, contro lo 0-5% di settori come l’assistenza, la vendita e l’artigianato.

Come evidenzia uno studio del Joint Research Centre, in Italia una quota consistente dei lavoratori essenziali (il 27%) sono giudicati “scarsamente retribuiti”. Nei settori “principalmente essenziali” in cui è impossibile svolgere effettuare il tele-lavoro (come la logistica e il commercio al dettaglio) la quota dei lavoratori a basso reddito sale fino a superare la metà (60%). Tuttavia, sarebbe un errore interpretare la distinzione tra “back-” e “front-office” come una mera frattura di classe. La categoria del lavoro essenziale include impieghi diversi nelle caratteristiche e la composizione socio-demografica: dall’infrastruttura logistica, a maggioranza maschile (trasportatori, magazzinieri, braccianti agricoli, fattorini, etc.), a quella commerciale, con una maggiore incidenza femminile (cassiere, tele-operatrici, agenti di sicurezza), così come quella sanitaria e domestica, eterogenea nei redditi e nelle caratteristiche demografiche – tenendo insieme baby-sitter, badanti informali, infermieri e medici. Tra gli immigrati che lavorano nelle attività essenziali si osserva una maggiore partecipazione delle donne, soprattutto nell’economia informale e in settori come servizi sanitari e l’assistenza domestica.

Sin dall’inizio della pandemia, è emerso con chiarezza come definizione dei settori fondamentali fosse tutt’altro che scontata, rivelandosi il risultato dello scontro tra attori ed interessi contrapposti. In Irlanda, i sindacati hanno proposto una distinzione tra le imprese delle costruzioni ritenute non essenziali e quelle essenziali, chiedendo a quest’ultime di adottare dispositivi di protezione adeguati. In Italia, le rimostranze di CGIL, CISL e UIL hanno portato il governo a rivedere la lista delle 80 attività ritenute fondamentali dal Governo e da Confindustria. Con la valutazione dei codici Ateco a livello sub-settoriale, si è giunti all’elaborazione di una lista sostanzialmente più ridotta. La crisi pandemica ha rappresentato uno stress-test per i sistemi di relazioni industriali: con il progressivo indebolimento delle organizzazioni dei lavoratori nei paesi a capitalismo avanzato, i paesi con una tradizione di dialogo sociale più consolidata – come Germania, Austria, Danimarca e Finlandia – sono stati più in grado di disporre misure efficaci a tutela della salute e dei redditi dei lavoratori attivi.

La parola “essenziale” richiama proprio il ruolo indispensabile di chi non ha conosciuto periodi di isolamento o smart-working negli ultimi mesi, essendo quindi maggiormente esposti al rischio di contrarre il Covid-19. Negli Stati Uniti, gli impianti per la lavorazione della carne sono diventati focolai del virus: in uno stabilimento del Texas, 700 nuovi contagi sono stati riportati in un solo giorno, lo scorso 16 maggio. Allo stesso modo, 120 impiegati dell’azienda della metropolitana di New York sono morti per il virus, e altri 4000 sono risultati positivi. A Londra, 28 autisti di autobus hanno perso la vita per effetto del Covid-19. Negli ultimi tre mesi, l’INAIL ha registrato 49mila contagi e 236 decessi sul lavoro in Italia; se i settori di sanità e assistenza sociale rappresentano tre quarti dei casi (72,2%), il 9,1% delle denunce viene dall’amministrazione pubblica e il 4,3% dai servizi di vigilanza, di pulizia e call center. Più di un decimo dei decessi (l’11,7%) interessa l’industria manifatturiera, che comprende alcune tra le maggiori attività rimaste aperte durante il lockdown (alimentari, farmaceutiche, chimiche, di stampa).

Come evidenzia David Harvey, la “nuova classe operaia” della pandemia è tanto più esposta al virus quanto al rischio di licenziamento. Al rischio di contagio si aggiunge infatti l’insufficienza di salari, tutele e protezioni sociali per molti occupati nei servizi essenziali. Dalla logistica alle pulizie, dagli operatori sanitari alle guardie di sicurezza, i lavoratori fondamentali rientrano tra i segmenti più precari e sotto-tutelati del mercato del lavoro. La crisi pandemica non ha fatto che aggravare le precedenti vulnerabilità, imponendo ritmi insostenibili a parità di salario e peggiorando le condizioni lavorative per molte persone. Secondo la Filcams Cgil, nel corso della crisi sanitaria gli addetti alle pulizie degli ospedali sono stati soggetti a turni senza riposo per 7 euro l’ora. In molti casi le consegne dei fattorini sono aumentate – a volte passando da 100 pacchi al giorno a 150 – senza alcun riconoscimento per lo sforzo aggiuntivo. Dopo le dure settimane del lockdown, molti dipendenti dei supermercati sono finiti in cassa integrazione.

Che senso hanno allora le celebrazioni degli “eroi per un giorno”, di cui tutti sembrano essersi dimenticati adesso? In occasione della festa dei lavoratori, i riders bolognesi hanno organizzato un presidio in piazza, al grido dello slogan: “Non siamo eroi, siamo lavoratori”. L’ha ripetuto Tiziana Piscitelli, portavoce del Movimento Nazionale Infermieri, in piazza a Napoli a metà giugno: “Non siamo eroi e non abbiamo superpoteri. Semplicemente ci impegniamo ogni giorno, ma ora siamo stanchi”. Diverse misure potrebbero essere implementate nell’ottica di migliorare le condizioni salariali, contrattuali e di vita dei lavoratori essenziali: dall’introduzione di un salario minimo orario per legge (l’Italia è tra i sei paesi UE a non averlo) fino a un’inversione di rotta sulla deregolamentazione dei contratti di lavoro e una riforma per estendere i principali istituti di protezione sociale (pensioni, disoccupazione, famiglia e conciliazione) a tutti i lavoratori – compresi gli autonomi, i co.co.co., i gig workers, gli stagisti e gli stagionali. È finito il tempo delle vuote riconoscenze: torniamo a parlare di diritti.

Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 83497\