La chiusura delle scuole per l’emergenza Covid-19 ha prodotto in tutto il mondo una notevole accelerazione della digitalizzazione delle pratiche educative. Nella ‘interruzione’ dei processi di riproduzione quotidiana della scuola, le ‘infrastrutture digitali’ sono apparse, infatti, la unica soluzione possibile per garantirne la continuazione.
Nel nostro paese è emersa una soluzione organizzativa d’emergenza, denominata con l’acronimo DaD (Didattica a Distanza), che ha agito, da un lato, come un dispositivo immunitario nei confronti del contagio e, dall’altro, come una possibilità ‘inedita’ di mantenere aperto uno spazio, un dialogo a distanza tra gli attori della scuola, una possibilità di insegnamento-apprendimento in una condizione di crisi. La DaD, nel quadro del distanziamento sociale, ha prodotto un notevole ‘shock’ culturale in un sistema scolastico come il nostro, che può vantare alcune limitate, anche se interessanti, esperienze di scuola digitale e che presenta storiche carenze nel campo della edilizia scolastica.
Seguendo le dinamiche dei drammatici processi in corso dall’inizio del lock-down, nell’ambito delle attività del laboratorio di ricerca su educazione e digitalizzazione L@b-ED (una iniziativa del Dipartimento di Scienze Sociali della Federico II e del CNR), abbiamo provato a costruire una mappa dei discorsi e delle teorie dell’azione mobilitate dagli attori in campo, avviando un interessante esercizio di sociologia pubblica attraverso la realizzazione di esperimenti di scrittura – sul blog ‘Letteratura e Noi’ – che offrivano chiavi di lettura sulle trasformazioni in corso (Grimaldi, Landri, & Taglietti, 2020)
La nostra mappa, in via di ulteriore definizione, ci restituisce ancora oggi l’immagine di un sistema scolastico in tensione, nel quale si muovono: a) gli stiliti che pensano alla DaD (ed al digitale più in generale) come ad un simulacro della vera scuola, delineando una passata età dell’oro composta di libri, discipline e corpi in presenza; b) gli allineati, che vedono nella DaD una finestra di opportunità per estendere in modo massiccio le tecnologie digitali ed un mix di politiche per la riforma dei sistemi educativi che fa proprie le ricette del New Public Management (la leadership, l’accountability e la competizione come principi regolatori); c) gli attivisti dal basso: un vero e proprio movimento di insegnanti, dirigenti, scuole e università che si muovono in modo pragmatico, scoprendo soluzioni a portata di mano, facendo degli errori ed adattandosi alle opportunità tecniche che sono disponibili.
Naturalmente, un lavoro più attento permetterebbe di comprendere le sfumature di tali posizioni e le relazioni che si stanno sviluppando tra le diverse posizioni. In ogni caso, l’emergenza ha problematizzato il ‘costituito’ ed ha aperto uno spazio di possibilità. Non è dato sapere in anticipo quale sarà il futuro della scuola: se cioè la normalità di prima sarà restaurata, attraverso l’ennesima riproduzione della scuola disciplinare; oppure se si sta delineando una scuola delle piattaforme digitali; o, ancora, se assisteremo ad una scuola pubblica rinnovata, che avrà saputo individuare un equilibrio analogico-digitale.
La DaD ha messo in evidenza l’importanza della scuola come istituzione, ma anche la sua dipendenza da partnership pubblico-private sbilanciate verso le imprese del mercato Ed-Tech. L’efficienza e l’affidabilità delle soluzioni tecnologiche, infatti, ha un effetto di mascheramento degli orientamenti educativi che informano i dispositivi digitali: si pensi, ad esempio, a come le piattaforme, i software, etc. siano veicoli di ‘cognitive’ e/o di ‘socio-emotional skills’ secondo i repertori di competenze più alla moda, influenzando i modelli curricolari e lo spazio delle scelte pedagogiche dei docenti. In questo quadro, diventa cruciale delineare un orientamento di policy che favorisca lo sviluppo di forme scolastiche umano-digitali meno asimmetriche. Si potrebbe definire questo passaggio come un movimento dal ‘digitale per forza’ della fase d’emergenza (la DaD) al ‘digitale per scelta’: una prospettiva, cioè, nella quale gli oggetti tecnici diventino ‘partner’ degli umani (e non ‘schiavi’ oppure ‘oggetti estetici’, come direbbe Simondon) nei processi di soggettivazione che hanno luogo nel processo educativo.
Un tale orientamento implica un ‘upgrade’ del Piano Nazionale per la Scuola Digitale. Pur armato di buone intenzioni, il PNSD è, in effetti, caratterizzato da vocabolari e retoriche ‘mainstream’ che la maggioranza delle scuole (con le dovute eccezioni) ha triturato nelle coordinate della legacy burocratica del nostro sistema scolastico, dando luogo, talvolta, a forme deludenti di taylorismo o di estrattivismo digitale. Muovere verso il digitale per scelta vuol dire, invece, prendersi una pausa dal ‘Global Education Reform Movement’ (Sahlberg, Hasak, & Rodriguez, 2017; Thomson, Gunter, Helen, & Blackmore, 2014) e dai suoi tecno-entusiasmi, ridisegnando le politiche educative in una prospettiva ecologica, più attenta alle concatenazioni sociali, tecnologiche e materiali che fanno la singolarità di ciascuna esperienza educativa. Questo ‘sguardo’ si concretizza, a mio avviso, nel: a) ridisegnare la relazione tra tecnologia ed educazione; b) assumere una prospettiva critica del digitale; c) sperimentare forme di cooperativismo digitale.
Una nuova relazione tra tecnologia ed educazione
Nella chiusura delle scuole, l’infrastruttura digitale ha permesso e formattato il sociale. Si tratta ora di rovesciare l’asimmetria tra tecnologia e pedagogia, in modo che non sia la prima a dominare la seconda. Ciò non tanto per riproporre una ‘mal posta’ superiorità prometeica dell’umano, quanto per problematizzare le piattaforme che sono state disponibili nella DaD e che saranno destinate a costituire le dorsali della scuola post-Covid19. In questo periodo di chiusura delle scuole, è sembrato che Google Suite, Edmodo, Moodle, Microsoft Teams, Cisco Webex e Weschool, per citare solo alcune tra le piattaforme disponibili, fossero un tutto indistinto. Al tempo stesso, si sono confusi l’e-learning, il web-learning, l’open education e la DaD, senza che si potessero comprendere quali scelte pedagogiche fosse necessario assumere e quali strumenti fossero più appropriati, quali ‘affordance’ del design delle piattaforme favorissero determinati stili di insegnamento/apprendimento, in che modo orientassero verso forme asincrone oppure sincrone, in che modo potessero essere utili per organizzare i materiali, gli spazi ed i tempi di apprendimento online e per quali tipi di apprendimento (problem-solving, costruttivismo, cognitivismo, comportamentismo, etc.). Sarebbe opportuno avviare, a questo punto, una riflessione sulle esperienze che si sono sviluppate in questo periodo, allo scopo di capire in che modo si sono realizzate e con quali effetti, facendosi guidare da un approccio pluralistico alle tecnologie educative, in grado di orientare alla professionalizzazione e non alla produzione di soluzioni ready-made. Su questo versante, è bene ricordarlo, si sono scontrate e si scontreranno diverse visioni della docenza e del suo futuro. Secondo alcuni sarebbe opportuno trasformarla secondo i canoni tecno-scientifici dell’evidence-based policy-making; mentre secondo altri dovrebbe essere preservata come un’area di sviluppo di sapere situato ed artigiano che non è completamente riproducibile. La politica è chiamata ad una scelta su questo versante. Le stesse imprese Ed-tech dovrebbero avere a cuore il mantenimento della produzione del mercato di riferimento. La ri-professionalizzazione degli insegnanti dovrebbe poter favorire l’elaborazione di una offerta di dispositivi più sofisticati.
Un approccio critico al digitale
Una prospettiva critica del digitale (Selwyn, Nemorin, Bulfin, & Johnson, 2016; Williamson, 2017) implica il superamento del ‘soluzionismo tecnologico’ (Morozov, 2019). Le soluzioni offerte dal mondo digitale non sono neutre: vi sono inscritte pedagogie che vengono date per scontate e che orientano in una certa direzione i processi di insegnamento-apprendimento. Non si tratta semplicemente di apprendere come funzionano, secondo modalità di addestramento alla tecnologia, ma di comprendere quali sono le pedagogie che veicolano. La chiusura delle scuole ha avuto l’effetto di una digitalizzazione forzata che presenta elevati rischi di rigetto. ‘Non si può cambiare la società per decreto’, scriveva Crozier. Non si può, a maggior ragione, immaginare che la trasformazione delle configurazioni scolastiche possa procedere a ‘suon di tecnologie’. Tutti le rilevazioni concordano sul fatto che i notevoli investimenti nel digitale non si sono tradotti in un diffuso cambiamento nei modelli di insegnamento-apprendimento (Giancola & Piromalli, 2020). Né è ragionevole pensare che, a fronte dell’ulteriore incremento delle dotazioni che si sono prodotte in questa fase d’emergenza, si possano produrre i miglioramenti attesi. Per non parlare, naturalmente, dei processi di esclusione sociale, che il digitale rischia di moltiplicare, tra chi ha accesso alle infrastrutture ed ai dispositivi e chi invece ha notevoli problemi di connessione. Il digitale può essere una notevole risorsa quando si lavora, ad esempio, con le diverse abilità, ma in concatenazione con un’ecologia fatta di corpi, tempi e spazi di diverse modalità di presenza. Può rivelarsi solo un’approssimazione, invece, quando viene usato come una presenza decontestualizzata. La critica del digitale, in questo caso, va inquadrata in una dimensione emancipativa: favorire un pensiero critico del digitale, per gli allievi, ma anche per tutti gli attori della scuola, è cruciale per garantire la riproduzione degli spazi democratici e per contrastare l’allargamento delle disuguaglianze sociali. In questo senso, più che disciplinare le competenze digitali in repertori che riflettono in definitiva le aspettative di attori esterni alla scuola, si tratta di capire in che modo il digitale stia ricodificando la società, in che misura si vada configurando un nuovo spazio di literacy e quale sia la sua grammatica. Comprendere la logica attraverso cui il digitale inscrive il mondo vuol dire comprendere come le culture del digitale stanno ridisegnando la nostra contemporaneità. Non diversamente dall’apprendimento di un linguaggio, comprendere la grammatica del digitale vuol dire imparare le regole per riprodurlo, ma anche capire come posizionarsi riguardo ai suoi codici ed ai suoi dispositivi (come designer, come utilizzatore, etc.). Più che di educazione all’informatica, è di media literacy che si ha bisogno.
Il cooperativismo digitale
Muoversi verso il digitale per scelta, infine, vuol dire favorire lo sviluppo del cooperativismo digitale. Ciò di cui sembra esserci il bisogno è, infatti, un pensiero e una pratica cooperativa della tecnologia e della scuola. Si tratta di riconfigurare l’una e l’altra in modo partecipativo, riducendo le asimmetrie dell’una verso l’altra e viceversa. In questo quadro si possono sviluppare delle interessanti piste di lavoro per pensare insieme la trasformazione delle competenze degli attori scolastici (insegnanti, dirigenti, ma anche allievi) e delle infrastrutture digitali. Il movimento dal basso degli insegnanti, dei dirigenti scolastici, dei genitori che si è attivato nel corso della chiusura delle scuole si è mosso in modo pragmatico ed in emergenza. Non ha potuto maturare una vera e propria sperimentazione dei dispositivi e delle infrastrutture digitali ed ha optato, per mancanza di alternativa, verso le piattaforme delle Big Five. Non diversamente da ciò che accade nel mercato dei libri di testo, le scuole si sono mosse nello spazio già determinato dell’offerta digitale, senza aver possibilità effettiva di scelta. Si tratta di creare, invece, un’area ‘adisciplinare o indisciplinata, di sapere e di scuola: una zona franca’ (Maragliano, 2019) nella quale sia possibile problematizzare l’asimmetria epistemologica che caratterizza molte piattaforme e software digitali (Landri & Vatrella, 2019). Una logica estrattiva di energia e di dati, secondo la metafora della miniera, caratterizza la relazione tra designer/policy-maker e insegnanti/dirigenti/scuola. Raramente assistiamo a progetti collaborativi, nei quali si sviluppa una effettiva co-costruzione dei dispositivi. Le modalità di governance che sono seguite all’implementazione dell’autonomia scolastica hanno paradossalmente impedito quelle forme di sperimentazione che erano possibili prima dell’autonomia.
Accanto ai rischi, non sfugge il potenziale costituente di una simile policy. In una ‘zona franca’ si favorisce una riappropriazione dei dispositivi ed una moltiplicazione dei processi di soggettivazione. La creazione di ‘zone franche’ potrebbe essere una modalità per fare tesoro del movimento degli attivisti dal basso. In questa prospettiva anche le infrastrutture e le piattaforme digitali potrebbero essere gestite in modo collaborativo (si pensi all’esperienza degli istituti CNR che hanno messo a disposizione i propri server per videoconferenze, oppure all’uso della rete GARR per garantire la banda larga a tutte le scuole).
Conclusioni. Verso una nuova sociologia della scuola pubblica
Rovesciare l’asimmetria tra tecnologia e pedagogia, favorire il pensiero critico del digitale, sviluppare il cooperativismo digitale sono possibili percorsi per affermare la prospettiva del ‘digitale per scelta’. Non garantiscono, in modo automatico, un approdo equilibrato al digitale. Puntare sulla scelta professionale implicherebbe la possibilità di non scegliere il digitale, oppure riproporre la scuola disciplinare ‘sotto mentite spoglie’. L’esperienza delle politiche di contrasto al fenomeno dell’abbandono scolastico suggeriscono, inoltre, che i movimenti dal basso necessitano di condizioni abilitanti e investimenti di lungo periodo (Grimaldi & Landri, 2019). Purtroppo, il nostro Paese, storicamente, non dà molta importanza alla scuola nell’agenda politica. Le priorità istituzionali si orientano verso l’economia, la ‘movida’, il calcio: le nostre scuole sono secondarie, le nuove generazioni sono ‘pericolose’ e, di fatto, gli istituti scolastici sono ancora in uno stretto regime immunitario. Ciò che avremmo dovuto imparare è che fare scuola, dopo il Covid-19, vuol dire accrescere e non diminuire la complessità socio-materiale dello spazio educativo. Richiede una nuova sociologia della scuola pubblica, ovvero un delicato assemblaggio di policy (scolastiche, digitali, edilizia scolastica, mobilità, etc.) in un campo istituzionale frammentato (Stato, Regione, Comuni). Questo assemblaggio necessiterebbe non di un nuovo Piano Nazionale della Scuola Digitale ma, forse, di un nuovo approdo in un Piano Nazionale per la Scuola Pubblica, in mancanza del quale sarebbe difficile porre un argine all’affermazione della scuola delle piattaforme.
Riferimenti
Giancola, O., & Piromalli, L. (2020). Apprendimenti a distanza a più velocità, Scuola Democratica. https://doi.org/10.12828/97097
Grimaldi, E., & Landri, P. (2019). Tackling early school leaving and the governing of educational transitions in Italy. Comparative Education, 55(3), 386–403. https://doi.org/10.1080/03050068.2019.1619332
Grimaldi, E., Landri, P., & Taglietti, D. (2020). Una sociologia pubblica del digitale a scuola.Scuola Democratica https://doi.org/10.12828/97096
Landri, P., & Vatrella, S. (2019). Assembling Digital Platforms in Education Policy. Scuola Democratica https://doi.org/10.12828/95947
Maragliano, Roberto (2019), Zona franca: Per una scuola inclusiva del digitale. Roma: Armando Editore
Morozov, E. (2019). Digital Socialism? New Left Review, 33–68.
Sahlberg, P., Hasak, J., & Rodriguez, V. (2017). Hard Questions on Global Education Change. New York: Teacher College Press.
Selwyn, N., Nemorin, S., Bulfin, S., & Johnson, N. (2016). Toward a digital sociology of school. In J. Daniels, K. Gregory, & T. McMillan Cottom (Eds.), Digital sociologies (pp. 143–158). Bristol: Policy Press.
Thomson, P., Gunter, Helen, M., & Blackmore, J. (2014). Series Foreword. In Educational Leadership and Hanna Arendt. London: Routledge.
Williamson, B. (2017). Big Data in Education: The Digital Future of Learning, Policy and Practice. London: Sage.