Università di Palermo

Pubblichiamo qui un estratto del testo di Alessandra Sciurba “Mediterranea: città negata” pubblicato nel volume Atlante delle città. Nove (ri)tratti urbani per un viaggio planetario, a cura di Paola Piscitelli


Lampedusa, Tripoli, Atene, Tunisi, Damasco, Lesbo, Algeciras, Malta, Patrasso, Gaza, Smirne… Chiunque sia nato in ognuna di queste città dal nome antico potrebbe ritrovarsi in una qualunque delle altre e sentirsi d’improvviso a casa, riconoscendo un odore, la prospettiva di una strada, la tonalità di una luce. Sono tutte accomunate, infatti, da una storia millenaria di scambi e stratificazioni culturali, sincretismi e attraversamenti. Una storia, certamente, fatta anche di invasioni e assoggettamenti, colonialismi e violenza, ma che rimane comunque prodotto complessissimo di una commistione incessante e inevitabile, perché consustanziale alla natura di uno spazio nato per restare “in mezzo”: il Mediterraneo.

Questo “mare di mezzo”, a guardarlo su una mappa geografica, è un bacino dalle forme curve e dalle dimensioni perfette per unire senza sovrapporre, per congiungere senza rendere omogeneo, per distinguere senza separare. Se un confine – inteso anche semplicemente nel senso  intransitivo e relazionale del verbo confinare, ovvero come demarcazione in comune tra due entità contigue – è comunque e sempre un dato congiunturale, umano, quindi storico e convenzionale, nessuno spazio si presta meno del Mediterraneo a diventare tale. Eppure, i nomi delle città che abbiamo elencato richiamano oggi alla mente, prima di ogni altra cosa, una mappa di sofferenze, guerre, esodi e passaggi tragici, tutti consumati in nome dei confini.

Una mappa frammentata da frontiere che nessuna cartografia riporta come tali, ma che si proiettano nello spazio mediterraneo come lame taglienti e invisibili che procurano ferite a oggi insanabili e senza rimedio. Il Mediterraneo – che Danilo Zolo ha descritto come “la riserva morale dell’Occidente, il bacino ecologico del suo umanesimo” e soprattutto come l’alternativa possibile, “l’alternativa mediterranea”, appunto, “alla dimensione monista, cosmopolitica e ‘umanitaria’ delle potenze oceaniche”1 – è oggi il palcoscenico in cui le divisioni e le brutalità del mondo vanno in scena tutte, senza alcuna edulcorazione. Più che l’immagine della vita che si rinnova dalle sue sponde fertili, si staglia adesso quella delle guerre e delle violenze che coinvolgono a differenti livelli le terre che su di esse si adagiano, mentre risuona ovunque la morte che rimane impigliata nei suoi fondali. Mediterraneo cimitero è ormai quasi un luogo comune. Una definizione terribile e potentissima, che pure non ha quasi più conseguenze emotive su chi la ascolta, tanto ci siamo assuefatti a essa. Come tutte le espressioni utilizzate troppe volte, il suo significato è svuotato, e svanisce la realtà che descrive. Cimitero davvero, però, è diventato questo mare. Una città sommersa di corpi aggrovigliati. Migliaia e migliaia. Non c’è neanche il tempo che l’acqua li digerisca, che subito ne arrivano altri, a cercare spazio, poggiandosi lievi. Ci sono madri abbracciate ancora ai loro bambini neonati. Ci sono bambini non abbracciati a nessuno. Ci sono giovani uomini che sapevano bene di poter perdere tutto, ma non potevano fare altro che rischiare; giovani donne che per liberarsi dalla sopraffazione delle mutilazioni e degli stupri hanno solo potuto andare incontro ad altre bestialità. C’è una città dei morti, in fondo al Mediterraneo, che se i suoi abitanti parlassero ancora racconterebbe tutti gli orrori del misconoscimento della condizione umana, tutti i suoi mali: ogni ingiustizia giace lì, irredimibile.

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