Sociologo urbano

Proponiamo qui un estratto del saggio di Nick Dines Napoli: città informale pubblicato nel volume Atlante delle città. Nove (ri)tratti urbani per un viaggio planetario a cura di Paola Piscitelli.


Nel contesto specifico della città, il termine “informalità” include l’ampio ventaglio di pratiche non autorizzate e di strategie non standardizzate che caratterizzano la vita e la sopravvivenza quotidiana in molte parti del mondo. Fino a poco tempo fa, queste pratiche e strategie sono state sovente interpretate come la prova di altrettante carenze in una città: regolamenti statali, adeguate normative urbanistiche, un’economia di mercato pienamente sviluppata, e così via. Oggi, sempre più spesso, si parla di informalità, non solo come sinonimo di emarginazione e sottomissione sociale, ma per definire quella miriade di modalità creative con cui le persone riorganizzano la città per soddisfare i propri bisogni, per resistere (o sfruttare) le disuguaglianze e per sfidare (o radicare) le distribuzioni disuguali del potere.

In particolare, nel caso del Sud globale, la nozione di “informalità urbana” è diventata una dimensione fondamentale per osservare le città nelle loro condizioni, piuttosto che secondo i modelli di sviluppo urbano che sono stati elaborati nel contesto occidentale. L’informalità urbana non è semplicemente circoscritta a un insieme di elementi distintivi, come gli insediamenti abusivi o i venditori ambulanti non autorizzati, ma denota una “logica urbana organizzativa… che governa proprio il processo di trasformazione urbana”.
Nonostante la crescita dell’attenzione critica, l’informalità rimane un concetto notoriamente impreciso e contraddittorio. Come dimostra la sociologa urbana australiana Fran Tonkiss, l’informalità può provenire dal “basso” per necessità o desiderio, ma è spesso prodotta anche dall’“alto”, ad esempio quando le élite aggirano la burocrazia o approfittano delle ristrutturazioni economiche.

In relazione agli insediamenti abitativi, l’informalità è una risposta alla mancanza di alloggi, ma anche alla capacità di soddisfare le aspirazioni.
In termini economici, può essere sia un ostacolo che un sostegno per lo sviluppo del settore formale; un segnale positivo di auto-organizzazione, ma anche il corollario dell’abbandono e dell’esclusione sociale.
Nell’accentuazione incline agli studi sulle città, informalità e formalità non devono dunque essere considerate come opposizioni binarie, ma come nozioni interdipendenti e mescolate all’interno dei meccanismi della vita urbana. “Se la formalità opera attraverso la fissazione del valore, compresa la mappatura del valore spaziale, allora l’informalità opera attraverso la costante negoziabilità del valore e la rimozione della mappatura dello spazio”.
Gran parte del dibattito è accomunato da un filo conduttore che lega l’informalità urbana alle esperienze delle città non occidentali, anche se ammette che negli ultimi decenni questa dimensione si è insinuata nel Nord del mondo, spesso sotto forma di attività economiche informali sviluppatesi sulla scia della deindustrializzazione e della deregolamentazione dei mercati del lavoro.

Saskia Sassen, ad esempio, ha affermato che “nonostante si ritenga che le realtà informali compaiano soltanto nelle città del Sud globale, stiamo assistendo a una rapida crescita del lavoro informale in quasi tutte le principali città dei paesi più sviluppati, da New York a Los Angeles, da Parigi ad Amsterdam”. Anche se è possibile riconoscere quasi ovunque un qualche grado di informalità urbana, in Occidente essa è prevalentemente vista come una presenza estranea, per esempio come un qualcosa connesso alla forza lavoro migrante.
Occasionalmente, quando l’informalità è ricondotta a una dinamica interna – come nel caso della disapplicazione della legge finalizzata a una governance strategica del Red Light District di Amsterdam – questa viene promossa come una politica innovativa piuttosto che denunciata come clientelismo o corruzione. Inoltre, l’informalità all’occidentale non si registra nella stessa scala né trasmette il senso estetico che evoca l’urbanità improvvisata e precaria che abbonda in luoghi come Mumbai, Casablanca o San Paolo.

In breve, l’informalità nel Nord globale potrebbe sembrare un sintomo di crisi, l’esito della deregolamentazione o del cedimento di una modernità che ci si era assicurati, ma in definitiva “le teorizzazioni dell’informalità nelle città “non-occidentali” raramente insidiano la formulazione di una teoria urbana più ampia che emerge dalle “città dell’occidente”.(…) Negli ultimi anni, la locuzione “informalità urbana” è stata adottata da alcuni ricercatori italiani, principalmente come cornice importata per reinterpretare le occupazioni abitative nelle città italiane o come categoria proficua per analizzare gli spazi di manovra non ufficiali all’interno dei processi formali di pianificazione. Prima di questi sviluppi, il termine“informalità” aveva avuto in Italia una connotazione prevalentemente economica ed era stato utilizzato da economisti e sociologi, a partire dagli anni ’70, in relazione al proliferare della cosiddetta economia sommersa.
Napoli offre uno scenario per riflettere sulle conseguenze dell’ampliamento dell’idea di informalità urbana al di là di un approccio settoriale. Sia gli osservatori locali sia gli stranieri hanno a lungo associato Napoli a una serie di pratiche edilizie non autorizzate, ad attività economiche informali e ad usi irregolari degli spazi pubblici.Allo stesso tempo, l’osservazione stessa di tali fenomeni è stata una continua fonte di controversie. Le varie manifestazioni di urbanità informali della città sono state in egual misura celebrate e denunciate, esagerate e minimizzate.
Da un lato,richiamare l’attenzione sull’informalità ha alimentato le narrative sull’invettiva innata della città, dall’altro ha tramandato l’idea di Napoli come città apparentemente “meno moderna”, “meno italiana” e “meno europea” delle sue controparti.

Il mio proposito, quindi, non è quello di confermare o smentire l’esistenza o la portata di aspetti che potrebbero rientrare nella categoria dell’informalità, ma di considerare le cornici attraverso le quali tali dimensioni vengono discusse pubblicamente a Napoli, in particolare durante le varie fasi della “rigenerazione urbana” che si sono succedute negli ultimi tre decenni. Credo che questo non solo collochi Napoli all’interno del dialogo globale sull’informalità urbana, ma ponga le basi per una comprensione pluralista del concetto, dal punto di vista geografico e storico, al di là del divario tra il Nord e il Sud globali che ha segnato gran parte del dibattito fino a oggi.(…)

Nell’ultimo decennio è fiorito un dibattito internazionale sull’informalità urbana. Napoli– come altre città dell’Europa meridionale – ha contribuito molto poco a questa discussione, nonostante il suo rapporto con l’informalità sia di lunga data e multidimensionale.
Le ragioni sono molteplici. Il dibattito è incentrato principalmente sul Sud globale e la geografia di cui si occupa è falsata dal predominio della ricerca anglofona. Napoli viene considerata – a la Mike Davis – nel suo rapporto primordiale con l’informalità e quindi ha poco da dire sul presente. La complicata presenza della criminalità organizzata e l’eccesso di stereotipi ha spesso ostacolato un’attenzione rigorosa. A questo si aggiunge un senso di irritazione quando le idee sull’informalità vengono usate per celebrare o denigrare fenomeni urbani, distorcendo o offuscando questioni più tediose come la distribuzione ineguale del potere e della ricchezza.
Quest’ultima questione è di particolare rilievo in un quadro, come quello odierno, in cui elementi di informalità urbana vengono venduti come segni di autenticità, così come è esemplificato dalla mercificazione della cultura dei vicoli che si è verificata con l’attuale boom turistico nel centro storico di Napoli. Al di là di cosa sia l’informalità, sono proprio questo genere di questioni a interrogarci su cosa producono a Napoli i discorsi sull’informalità. In altre parole, ci invitano a pensare su dove si posizioni Napoli nell’arena globale delle idee, nonché a riflettere criticamente sui luoghi e sui tempi dell’informalità negli studi urbani globali.

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