Politologa

Pubblichiamo un estratto del saggio di Juliet Hooker “Black Lives Matter e i paradossi della politica Black statunitense: oltre il sacrificio democratico e verso i riots come forma di riparazione democratica”, pubblicato nel volume Per cosa lottare. Le frontiere del progressismo, a cura di Enrico Biale e Corrado Fumagalli.

Juliet Hooker è professoressa di Scienze politiche alla Brown University. Si occupa di giustizia razziale, multiculturalismo, pensiero Black e politiche indigene nel Sud America.


Una delle critiche più frequenti a Black Lives Matter rimprovera l’incapacità di essere un esempio politico come il movimento diritti civili degli anni Sessanta. Gli esponenti di Black Lives Matter sono stati criticati per non aver mantenuto quella (presunta) fede nella non violenza delle passate lotte anti-razziste, per non aver incarnato l’ideale del decoro nero, per non aver adottato una struttura gerarchica visibile, per non aver definito obiettivi politici chiari. Secondo questa lettura, il fallimento dei manifestanti nel rendere visibile la realtà di un sistema penale ingiusto avrebbe indotto l’opinione pubblica dei bianchi, nonostante il sacrificio volontario di corpi innocenti e senza resistenza alla violenza razziale, a non mobilitarsi uniformemente per la protesta contro la violenza della polizia. Queste critiche all’attivismo nero contemporaneo riflettono tre importanti assunzioni storiche e teoriche su come il cambiamento anti-razzista si sia prodotto negli Stati Uniti, assunzioni da cui dipende la nozione di politica nera come sacrificio democratico, assunzioni che, dopo un esame più approfondito, si rivelano ingannevoli:

(1) presentano un resoconto romanzato del movimento per i diritti civili degli anni Sessanta, che si traduce in una rappresentazione teleologica del progresso razziale e della perfettibilità della democrazia americana;

(2) propongono una tesi sull’accettazione del terrore razziale attraverso solidarietà politica e non violenza che si poggia su di una comprensione scorretta della psicologia morale bianca;

(3) danno lustro alla protesta non violenta in quanto sacrificio che non corrisponde alle idee di sfida o resistenza con cui gli esponenti del movimento descrivevano le proprie azioni.

L’idea, quindi, che, di fronte a una mancanza della democrazia, l’accondiscendenza pacifica sia la miglior categoria per comprendere i sacrifici richiesti ai cittadini neri non solo potrebbe attribuire ingiustamente l’onere della riparazione dei torti razziali a chi è più danneggiato dal razzismo, ma s’ispirerebbe anche a presupposti fallaci sui modi con cui arrivare alla giustizia razziale, i quali, a ben vedere, nel lungo periodo potrebbero frenare il disfacimento della supremazia bianca.

Al centro delle concezioni della politica nera orientate al sacrificio democratico si trova un’assunzione di carattere storico che riflette una particolare lettura liberale del razzismo e della democrazia americana. Secondo quella che potremmo chiamare un’interpretazione della democrazia come sistema perfettibile, le relazioni politiche tra cittadini avanzano nella direzione dell’uguaglianza e il graduale progresso verso la giustizia razziale è quindi inevitabile e naturale. Questa concezione teleologica delle relazioni razziali negli Stati Uniti è particolarmente evidente in ciò che Brandon Terry ha caratterizzato come la rappresentazione romanzata, predominante nella memoria pubblica, del movimento per i diritti civili degli anni Sessanta.

Tale rappresentazione romanzata del momento vittorioso della protesta nera rafforza una visione distorta sia del razzismo statunitense sia della politica nera.

Il romanzo come genere narrativo dà l’idea di un movimento verso un telos o di una conclusione, raccontare in questo modo il movimento per i diritti civili significa quindi ritrarlo come il culmine di un’inevitabile marcia verso uguaglianza e riconciliazione razziale, una lettura della storia degli Stati Uniti che rende il razzismo un epifenomeno della democrazia americana. La rappresentazione romanzata del movimento per i diritti civili tende a minimizzarne gli aspetti più radicali e a cancellare il fatto che, in quel momento, vi era un significativo disaccordo tra gli attivisti neri su come perseguire la giustizia razziale, sull’efficacia della non violenza, sulla precedenza dell’inclusione politica e legale rispetto alla redistribuzione economica, eccetera, eccetera. Questa concezione limitata del movimento per i diritti civili funziona, delegittimandole preventivamente, nel marginalizzare altre forme (forse più radicali) di politica nera. Ne deriva l’assunto per cui una protesta non violenta volta all’inclusione nell’ordine giuridico e politico esistente sia da considerarsi come la strategia più efficace che i cittadini neri possano e debbano intraprendere. La politica nera, che non segue il canovaccio della narrativa romanzesca del movimento per i diritti civili, con quell’aspettativa implicita nel sacrificio democratico, viene quindi considerata come illegittima e inefficace. La stessa narrativa, inoltre, sposta l’attenzione, dalle privazioni subite dai neri, all’ideale di una politica nera orientata all’obiettivo della riparazione democratica.

La seconda affermazione problematica alla base della nozione di politica nera come sacrificio democratico è una tesi fallace sulla psicologia morale dei bianchi secondo cui, quando delle minoranze compiono forme esemplari di attivismo, si dà luogo a trasformazioni nelle convinzioni etiche dei membri del gruppo razziale dominante. Per la sua presunta forza di persuasione sull’orientamento morale del gruppo razziale dominante, i cui membri, si dice, osservando crude espressioni di violenza, sarebbero indotti a rinunciare ai privilegi razziali, l’accondiscendenza pacifica al terrore razziale è vista come un atto esemplare di cittadinanza. Per esempio, i manifestanti della classe media, ben educati e rispettabili, secondo il resoconto romanzesco e dominante delle vittorie del movimento dei diritti civili degli anni Sessanta, sono stati in grado di persuadere gli osservatori bianchi alla solidarietà verso la sofferenza dei neri. Questo resoconto dimentica, tuttavia, che osservatori diversi potrebbero leggere lo stesso evento secondo prospettive radicalmente differenti. La razza ha storicamente impedito il riconoscimento come pari di chi è altro sul piano razziale. La solidarietà tra razze fa riferimento a “prospettive etico-storiche diametralmente opposte, sviluppate da gruppi dominanti (bianchi) e subordinati (non bianchi) in un sistema politico razziale”.

Il credo diffuso per cui il sacrificio dei neri susciterebbe un sentimento di vergogna nei cittadini bianchi, dal quale si attiverebbe un nuovo orientamento verso la giustizia razziale, si fonda quindi su di una rappresentazione della psicologia razziale bianca che non tiene conto degli effetti della convivenza tra razze sulle relazioni di solidarietà. Le risposte a Black Lives Matter lasciano intendere che rendere i bianchi solidali con la sofferenza nera è sempre più difficile, in un’epoca dove molti vedono gli Stati Uniti come una società post-razziale e in cui, al contempo, c’è risentimento dei bianchi verso le minoranze, in particolare neri e ispanici.

Per esempio, la pratica della ricerca di capi d’accusa attraverso l’intrusione nel passato di quei neri che sono stati vittime disarmate della violenza della polizia dimostra quanto la soglia per dimostrare la presenza del razzismo anti-nero sia alta. Quando la solidarietà dei bianchi richiede l’innocenza dei neri, l’accento allora si sposta sul carattere delle singole vittime nere, anziché sulle perdite nere[1]. In una realtà dove la vita è già segnata da violenza e privazioni, secondo quale economia della sofferenza si presuppone che i manifestanti o le vittime della violenza della polizia debbano soffrire di più per guadagnarsi l’attenzione e la cura dei loro concittadini?

E poi, il ritratto dell’attivismo nero come accondiscendenza pacifica alla perdita è messo altrettanto in dubbio dai modi con cui chi partecipa ai movimenti di protesta interpreta le proprie azioni. (…) Ciò che chi sposa un resoconto romanzesco del movimento perde di vista è quanto negli anni Sessanta i manifestanti afroamericani, anziché considerarsi vittime passive, si vedevano come impegnati in una resistenza ribelle. Nei momenti di conflitto razziale, per le teorie che intendono l’attivismo nero come sacrificio democratico, il problema sta nell’esistenza di una complicata politica di ricezione e azione: un gesto che appare come palesemente di sottomissione (e che sarebbe possibile leggere come pacata accondiscendenza) potrebbe in realtà essere concepito come una sfida all’ordine democratico, l’ordine per cui alcuni gruppi dovrebbero continuare a farsi carico sproporzionatamente delle privazioni.

Seppur scorrette, le ipotesi teoriche e storiche su cui si fonda la comprensione della protesta nera come sacrificio democratico hanno conseguenze politiche reali e concrete. I critici del movimento Black Lives Matter, che hanno applaudito la risposta smodata della polizia alle proteste, considerano l’affermazione del diritto alla protesta dei cittadini neri come un uso illegittimo della violenza, come una sfida ingiustificata alle norme di civiltà, che a detta loro già prevalgono nella comunità politica. In una tale trappola politica, creata dalla trasposizione del sacrificio nero in una forma di esemplarità democratica, i cittadini neri hanno poco spazio per esprimere la loro indignazione verso l’ingiustizia, o per sfidare quelle aspettative che vedono loro come pacifici perdenti della democrazia.


[1] Al contrario dell’empatia (identificarsi con la sofferenza altrui), la solidarietà connota la volontà di risolvere il danno. La giustizia razziale quindi non richiede solo empatia dei bianchi, bensì solidarietà dei bianchi.

 

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