Introduzione
di Spartaco Puttini e Niccolò Donati
Con il secondo appuntamento di Cose di Sinistra, riscopriamo assieme ad Agostino Megale, presidente del Centro Studi IRSF LAB Fisac-CIGL, una delle pagine più interessanti nella storia sindacale italiana: il Piano del lavoro di Giuseppe Di Vittorio.
Siamo nell’immediato secondo dopoguerra. Lo sforzo industriale per la ricostruzione avrebbe gettato le basi per il boom economico tra il 1958 e il 1963. Nel contempo, tuttavia, l’Italia si trova in una fase di profondo contenimento delle dinamiche salariali.
Quelli che sono “costi del lavoro contenuti” per l’industria italiana sono stipendi magri e sottoccupazione per i lavoratori
italiani. In questo contesto, Di Vittorio lancia un Piano del lavoro che guarda oltre alle rivendicazioni salariali e cerca di individuare l’interesse comune tra lavoratori ed imprenditori attraverso misure che possano sostenere il potere d’acquisto dei primi e lo sforzo produttivo dei secondi. Si tratta, in buona parte, di misure che troveranno applicazione solo nei decenni successivi, e specialmente negli anni ‘60.
A Di Vittorio e agli studiosi di cui si era circondato il merito di aver guardato molto oltre alla contingenza presente e aver tracciato un percorso ambizioso, ma realistico, per trarre l’Italia fuori dalle macerie, materiali e morali, della seconda guerra mondiale.
Cosa possiamo imparare, nella crisi di oggi, dal piano del lavoro di allora?
Riflessioni sul Piano del lavoro di Giuseppe Di Vittorio: attualità del pensiero guardando alla crisi del paese oltre l’emergenza – di Agostino Megale
Guardando alla storia d’Italia del secondo dopoguerra, un ruolo di primo piano spetta di diritto a Giuseppe Di Vittorio, protagonista della rinascita e della ricostruzione del paese.
Di Vittorio, ancora oggi, va ricordato non solo come il leader Cgil più popolare e più amato dai lavoratori e dalle lavoratrici, ma anche come il sindacalista, il politico, l’uomo che, partendo dal Piano del Lavoro al Congresso Cgil del 1949 a Genova, seppe parlare a tutto il Paese.
Il Piano, pur con i limiti della riflessione politica di allora, ebbe una forza d’impatto irresistibile nel mondo del lavoro, nella sinistra come nella politica nel suo complesso, e anche nel mondo dell’impresa industriale e agricola che si trovava di fronte ad un progetto di assoluto interesse generale per tutto il Paese.
Nell’assumere come obiettivo principale la piena occupazione, Di Vittorio traduceva il Piano in una concreta proposta sindacale, in un obiettivo rivendicativo collocato in un progetto tangibile di politica economica, agricola, industriale, energetica da realizzare con il concorso delle migliori risorse umane del paese.
Come ricorda lo stesso Di Vittorio, nella relazione che apriva la Conferenza tenutasi a Roma nel febbraio del 1950, costruire l’unità tra occupati e disoccupati, dare un lavoro dignitoso a 1’700.000 disoccupati — oltre due milioni considerando il lavoro sommerso –, non era semplice propaganda ma un complesso di proposte tese ad intervenire e a modificare l’indirizzo generale dell’economia italiana.
Nel Piano del Lavoro non vi era nessun proposito di rottura del sistema: non era tanto un progetto per il socialismo del futuro, quanto piuttosto una proposta intesa a risolvere i problemi reali affrontati quotidianamente da milioni di persone, gli “ultimi della terra” che si spaccavano la schiena nei campi e che dopo la guerra erano senza lavoro, dei giovani costretti ad emigrare lasciando il paese natale e la famiglia.
Nella relazione di presentazione del Piano del lavoro, Di Vittorio sottolinea la profonda ingiustizia di un Paese nel quale il costo della vita pro-capite era il doppio del salario medio. Di Vittorio mette in campo la disponibilità dei lavoratori a fare ulteriori sacrifici pur di raggiungere la piena occupazione, il lavoro per tutti.
L’idea era di predisporre un programma nazionale che integrasse opere pubbliche, un piano di edilizia popolare, una riforma agraria e le relative bonifiche, il rilancio dell’industria manifatturiera; il tutto accompagnato dalla nazionalizzazione delle industrie elettriche, al fine di potenziare la produzione energetica.
Si era di fronte ad un Piano di ampio respiro. È qui che ritroviamo tutta la forza del leader della Cgil di allora, che affermava in questo modo il significato della confederalità e le sue radici popolari. Parola chiave, la confederalità, per la quale gli interessi generali del paese, della solidarietà nel lavoro, della democrazia e della pace vengono sempre prima di
qualsiasi interesse particolare.
Non è un caso che nel 1976, di fronte ad un’inflazione attorno al 18% ed una disoccupazione a due cifre, il sindacato confederale Cgil Cisl e Uil lanciasse in Italia il progetto dell’EUR, che affondava le sue radici nel Piano del lavoro di Di Vittorio, con in mente l’obiettivo della piena occupazione e del rilancio degli investimenti, indicando nella moderazione salariale la scelta di responsabilità del sindacato per combattere l’inflazione e risanare il paese.
La necessità di rilanciare il Piano del Lavoro, attualizzandolo, per la Cgil si è poi presentata anche al Congresso Nazionale del 2010, per affronatre la crisi della cattiva finanza del 2008, che ha comportato una perdita di 9 punti di Pil fino al 2011, portando lo spread a 540 punti base.
In quel periodo (in cui ero in segreteria nazionale della Cgil come responsabile della politica economica), ritornammo alle radici, provando a stimare quanta occupazione gli investimenti green potessero creare nei diversi comparti produttivi.
In base a queste riflessioni, lanciammo al Congresso il piano per 800 mila occupati da accompagnare con il piano straordinario per il lavoro ai giovani. Linea che negli anni successivi venne confermata e rilanciata con il nuovo Piano del lavoro della Cgil del 2013.
La domanda da porre oggi è: “quanto è attuale il Piano del lavoro della Cgil di Di Vittorio nella situazione odierna?”
Il rischio recessione per il Paese era presente già prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia del COVID-19.
Oggi il dramma derivante dalla caduta del PIL di 8 punti percentuali (in valore assoluto, meno 140 miliardi nel 2020), il crollo della produzione industriale, la caduta verticale del settore del turismo insieme ai tanti piccoli artigiani e commercianti che non riusciranno a ripartire, rende evidente il problema dei problemi che si chiama perdita del lavoro: circa 800 mila posti in meno in un contesto in cui i giovani senza futuro ed i meno giovani addirittura senza presente e senza lavoro.
Siamo maglia nera in Europa per tasso di disoccupazione giovanile, precarietà nel lavoro, oltre a una potente evasione fiscale con oltre 3,5 milioni (dati ISTAT) di lavoratori in nero.
Non siamo solo di fronte ad una emergenza sanitaria, ma ad una emergenza economica e sociale del lavoro, che insieme all’emergenza climatica impone un cambiamento alla politica ed alle forze sociali.
Nel Piano del Lavoro di Di Vittorio troviamo l’ispirazione per ripartire. Da qui la necessità di un Piano Per la Ricostruzione del Paese e per la Piena e Buona Occupazione. Le risorse in campo sul piano Europeo, al contrario di quanto propagandato dai sovranisti nostrani, impongono un grande Piano d’Investimenti Pubblici e privati in una Europa più forte e più coesa. La quantità di risorse Europee per dimensioni, non solo chiude il capitolo dell’Europa dell’austerità e del rigore ma apre la concreta possibilità di costruire un paese migliore in un’Europa migliore.
Per questo servirà un grande patto Sociale nel quale far vivere l’anima del Piano del lavoro. Un patto come quello costruito con Ciampi nel 1993, allora per entrare in Europa oggi per ricostruire l’Italia assumendo il lavoro, la creazione di buona occupazione, il futuro per i nostri giovani e non solo, da realizzare tramite piani d’investimento rilevanti pubblici e privati che accompagnino la necessaria riconversione climatica ambientale.
Un piano oggi con queste caratteristiche dovrebbe:
- contare su risorse finanziarie europee pari a circa 200 miliardi per il nostro Paese,
una parte come prestito e l’altra a fondo perduto. Questo, ovviamente, a condizione
che vada in porto l’operazione “Recovery fund” di 1.000,00 miliardi, che insieme
agli 80 miliardi circa degli ultimi due decreti dovrebbe portare a tradurre
l’emergenza in grandi opportunità di cambiamento in direzione d’investimenti
finalizzati a completare le infrastrutture ed il piano digitale in tutto il paese; - prevedere un ruolo dello Stato in economia con interventi di capitale, non solo per
effettuare salvataggi come avvenuto in parte fin qui ma come una nuova e
qualificata presenza dello Stato in tutti i settori ritenuti strategici e rilevanti sia per il
Paese che per l’occupazione; - finanziare una grande operazione di riconversione climatica e green, partendo dalle
produzioni industrialmente inquinanti, fino alla formazione di nuovo personale per la
riconversione; - sostenere un Piano per l’occupazione, fatto di nuovi posti di lavoro prevedendo
riduzioni di orario a parità di salario ed immaginando un vero e proprio piano di
opere nazionali per lavori pubblici e territoriali per la sistemazione di tutto il territorio
nazionale. - Contrastare con forza, non più a parole ma nei fatti, l’enorme evasione fiscale e il
lavoro nero e sommerso, regolarizzando i lavoratori e rispettando i contratti nazionali.
Questo obiettivo è realizzabile se si riduce la moneta contante e si favorisce una
campagna di educazione finanziaria rivolta a tutti, a partire dagli operai e pensionati,
per l’uso della moneta eletronica e digitale.
Da questa crisi si può uscire in diverse direzioni. Con più diseguaglianze e maggiore povertà oppure con meno diseguaglianze, più occupazione e maggiore giustizia sociale accompagnati un nuovo statuto dei diritti e delle tutele per tutti i lavoratori e le lavoratrici dipendenti e partite iva.
La strada maestra, di sicuro non l’unica ma la più giusta, può ripartire dal Piano del lavoro di ieri per realizzare il Piano per la ricostruzione e la buona occupazione oggi.
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L’uomo, il dirigente, Giuseppe Di Vittorio
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