“New Deal” è un’espressione che ha assunto una potente valenza simbolica nel
campo progressista. Viene infatti associata ad uno dei periodi di maggiore attivismo
della storia contemporanea in termini di correzione degli esiti di mercato e di
regolamentazione dei suoi meccanismi. In tempi recenti, il “Green New Deal” è
diventata una priorità nell’agenda delle forze politiche socialdemocratiche. Al
contempo, molti invocano un nuovo “New Deal” per far fronte alla probabile
recessione che seguirà alla crisi scaturita dalla pandemia di COVID-19.
Il New Deal, spogliato della sua realtà storica, è diventato simbolo di una possibile “palingenesi” della società, basata su un nuovo equilibrio tra competizione di mercato, intervento dello Stato nell’economia, e welfare sociale. Nel considerare il New Deal come “simbolo” si corre però il rischio di creare aspettative irraggiungibili.
Si arriva infatti a concepire il New Deal come se fosse Atena che esce dalla mente di Giove già armata e terribile, e viene spontaneo chiedersi: dove sono oggi i riformatori progressisti in grado di ispirare un nuovo New Deal? Dove sono le idee economiche, già pronte e confezionate, che possono creare un nuovo equilibrio tra società e mercato?
In questo senso, la risposta che si può trarre guardando alla storia del New Deal statunitense può essere, allo stesso tempo, confortante e deludente.
Vediamo perché.
Gli Stati Uniti prima e dopo la Grande Depressione
Il contesto economico in cui si colloca il New Deal è quello della Grande Depressione, un periodo che segnò un netto rallentamento della crescita economica degli Stati Uniti.
Al contempo, questo periodo storico è segnato da uno straordinario attivismo politico e da una profonda trasformazione istituzionale, in particolare riguardo al ruolo dello Stato e del governo federale rispetto all’intervento pubblico nell’economia.
Un dato può aiutarci a capire meglio la portata di questa trasformazione: tra il 1922 e il 1940, le spese pubbliche non militari crescono dal 12,6% al 20,5% del PIL americano. Per fare un paragone, nel periodo tra il 1902 e il 1922, le stesse spese crebbero tra il 6,9% e il 12,9%.
La trasformazione più impressionante però riguarda la gestione della spesa pubblica: nel 1932, il 50% della spesa pubblica era nelle mani di governi locali, mentre gli Stati e il governo federale spendevano i rimanenti 20% e 30%. Nel 1940, dopo otto anni di New Deal, il Governo federale controllava il 46% della spesa totale, mentre i governi locali ne controllavano il 30%.
Queste trasformazioni non riguardano solo i rapporti interistituzionali, ma anche i rapporti economici tra Stati federati: nel 1940, il PIL procapite del Sud era cresciuto dell’1% rispetto ai livelli registrati nel 1929, mentre lo stesso dato, nel resto degli Stati Uniti, rimaneva 10 punti percentuali sotto il valore registrato prima della Grande Depressione.
Secondo Frank Freidel, questa convergenza economica si deve in parte alle politiche redistributive promosse dal governo federale verso gli Stati del Sud. Questo ripensamento dei rapporti federali, in favore di maggiore perequazione tra Stati e di maggiore controllo del livello di governo federale, appare ancora più impressionante se si tiene in considerazione i presupposti che fin qui avevano guidato la filosofia istituzionale statunitense.
Ancora nel 1932, il giudice della Corte Suprema statunitense Louis D. Brandeis descriveva il sistema federale come “un laboratorio felice” dove nuovi esperimenti sociali ed economici possono essere intrapresi senza alcun pericolo per il resto del Paese.
In modo analogo, nel 1929, Franklin D. Roosevelt, all’epoca governatore dello Stato di New York e sostenitore dell’autonomia degli Stati, denunciava la “pericolosa tendenza”, da parte del governo nazionale, “di insidiare sempre più, con una scusa o l’altra, la supremazia degli Stati [federati]”.
La Grande Depressione, in questo senso, rappresentò una finestra di opportunità per ripensare i rapporti interistituzionali ed in particolare il ruolo del Governo federale e dell’attore pubblico nell’economia. Nel 1935, il Governatore del Connecticut Wilbur Cross dichiarava di essere disposto a “mettere da parte lo spettro intangibile della sovranità degli Stati”, se questo avesse permesso di ricevere aiuti per gli anziani, i malati, per l’istruzione e le infrastrutture.
L’opportunità di trasformazione politica ed economica aperta dalla Grande Depressione, però, restava in larga parte incerta: benché fosse chiaro a tutti il fallimento delle istituzioni e delle politiche esistenti nel rilanciare la crescita economica, non era affatto chiaro cosa avrebbe potuto fare il governo federale; perché vi fosse chiarezza sulle politiche del New Deal, sarà infatti necessario un decennio di elaborazione intellettuale unita a sperimentazione in termini di politiche pubbliche da parte dei diversi livelli di governo.
Partenza incerta: l’amministrazione Hoover
La crisi del 1929 colpì l’economia americana nel suo insieme, riducendo massicciamente i consumi privati sia per le produzioni industriali che quelle agricole. Nel breve periodo, questo comportò un crollo della produzione di massa, mentre la
disoccupazione cresceva vistosamente.
Gli effetti macroeconomici della crisi, per quanto riguardassero l’intera nazione,
colpirono in modo diverso i singoli Stati: il sistema federale, come richiamato, permetteva una vasta sperimentazione in termini di politiche sociali a livello federale. Maggiori livelli di spesa sociale, uniti ad un calo delle entrate fiscali dovute alla recessione economica, spingevano gli Stati più esposti ad indebitarsi sempre di più.
Secondo lo storico J. T. Patterson, “regnava la confusione”. A livello federale, la prima mossa dell’Amministrazione Hoover fu quella di nominare una commissione d’emergenza. Il suo presidente, A. Woods, descrisse il lavoro della commissione come uno strumento che oggi definiremmo di “soft governance”: “Pensavamo che il modo in cui avremmo potuto essere
maggiormente utili era quello di agire come una ‘camera di compensazione’, facendo sapere a ciascuno Stato cos’era stato fatto in altri Stati”.
Ma, a parte la circolazione dell’informazione, il governo federale non era in grado di dare aiuti materiali. Lo sperimentalismo, a livello degli Stati federati, portò a fornire risposte di politica pubblica dagli esiti spesso contrastanti a livello aggregato: se, da una parte, alcuni dei governatori creavano lavoro pubblico e promuovevano la spesa sociale per alleviare gli esiti materiali della crisi, dall’altra parte, specialmente negli Stati governati da conservatori, si implementavano tagli alla spesa pubblica per ridurre la pressione fiscale.
Solo nel 1932, il governo federale intervenne più attivamente nella sfera economica, autorizzando l’aumento delle tasse per coprire la spesa pubblica crescente. Nel contempo il governo promuoveva la cartellizzazione dell’economia.
Queste risposte di politica pubblica riflettevano quelli che erano i tenet economici dell’amministrazione Hoover. Da una parte, la dottrina dell’ortodossia fiscale prescriveva che si facesse poco ricorso all’indebitamento e che crescenti uscite, in
termini di spesa pubblica, venissero coperte da adeguate entrate fiscali, mantenendo equilibrio tra entrate ed uscite. Dall’altra parte, la teoria dei prezzi amministrati considerava come in un’economia matura fosse necessario consentire economie di scala. La creazione di cartelli economici, visti come negativi dall’economica classica, veniva vista da questo approccio come qualcosa di inevitabile.
Il ruolo dello Stato era quello di favorire la creazione di conglomerati industriali che fossero in grado di sfruttare economie di scala. Specialmente l’ortodossia fiscale si rivelò controproducente: nel 1932, il governo autorizzò un sostanziale aumento delle tasse per coprire la crescente spesa pubblica. Questa misura creò deflazione, allontanando ancora di più la ripresa economica.
Roosevelt e la prima fase del New Deal
Il New Deal venne presentato al pubblico americano per la prima volta nel 1932, dal candidato democratico Franklin D. Roosevelt. Secondo lo storico Alan Brinkley, in questa fase il New Deal era più “un sentimento” che un vero e proprio programma di ripresa economica.
Nel suo stato embrionale, il New Deal costituiva un accrocchio di idee economiche e politiche tra le più disparate. Tra le più rilevanti: l’anti-monopolismo, la programmazione economica centralizzata, l’anti-capitalismo, l’associazionismo economico. In questo “caos sperimentale”, due idee iniziarono a guadagnare sempre maggiore trazione: la teoria dei prezzi amministrati, già presente con Hoover, e la “critica sottoconsumistica”. Quest’ultima teoria vedeva la crisi come risultante dal limitato potere d’acquisto della maggior parte dei cittadini americani.
La prima implementazione di queste idee arriva con il National Industrial Recovery Act: da una parte, veniva creata la National Recovery Administration per promuovere la cartellizzazione dell’economia americana, con una componente di
autoregolamentazione data dai “codici di corretta competizione”, per praticare una politica dei prezzi favorevole per il consumatore.
Al contempo, l’amministrazione Roosevelt istituiva la Federal Emergency Relief Agency,
preposta a distribuire fondi federali per promuovere un programma di infrastrutturazione e nuovi lavori pubblici.
In teoria, queste due misure avrebbero consentito di diminuire la disoccupazione e abbassare i prezzi dei prodotti industriali, consentendo ai cittadini americani, nella duplice veste di consumatori e lavoratori, di ricominciare a spendere.
In pratica, le due politiche ebbero un effetto imprevisto. Il finanziamento federale di lavori pubblici ebbe come conseguenza di ridurre la spesa pubblica dei singoli Stati, spingendo un numero crescente di commentatori politici ad invocare “un piano federale fortemente centralizzato”.
Nel contempo, le imprese che avrebbero dovuto sostenere la cartellizzazione dell’economia americana iniziavano a denunciare la strategia come controproduttiva. La Camera Americana di Commercio (ACC) e il Business Advisory
Council, inizialmente sostenitori del National Industrial Recovery Act e della strategia di cartellizzazione, cambiarono la loro posizione intorno al 1934.
Secondo Mark Blyth, questo fu dovuto a due fattori: in primo luogo, iniziò ad emergere una frattura tra piccole e grandi imprese circa il ruolo dei monopoli nella risoluzione nella crisi: le piccole imprese iniziarono a considerare la strategia di cartellizzazione come parte del problema. In secondo luogo, il National Industrial Recovery Act rafforzava il
sindacato, dando effettivamente “il diritto di organizzare e contrattare collettivamente e il diritto di non entrare in un sindacato”; quest’ultimo aspetto in particolare venne percepito come un attacco ai sindacati aziendali, raffreddando l’entusiasmo delle imprese per il National Industrial Recovery Act.
Una nuova coalizione politica
Con il fallimento della strategia di cartellizzazione,
le idee sottoconsumistiche iniziavano a prendere il sopravvento sulla teoria dei prezzi amministrati.
Cresceva infatti la consapevolezza che le due idee, che nella prima fase del New Deal erano viste come complementari, fondavano su due diagnosi contraddittorie della crisi.
Secondo la teoria dei prezzi amministrati, la crisi era
un problema di sovra-produzione: un’espansione troppo celere della produzione industriale era alla base dell’instabilità economica che, in ultima analisi, aveva condotto alla Grande Depressione.
Secondo i sottoconsumisti, invece, la crisi era un caso di “miseria in un contesto di ricchezza”: l’economia industriale americana aveva creato un’incredibile abbondanza di beni, che però restavano fuori dalla portata della maggior parte degli americani.
Redditi inadeguati, disoccupazione, tenevano il lavoratore americano ai margini della società industriale, non in grado di beneficiare del benessere e dell’abbondanza che contribuiva a creare.
Se questa diagnosi era quella corretta, il problema non era quello di una produzione troppo
impetuosa, come adduceva la teoria dei prezzi amministrati, quanto piuttosto il fatto che non esistessero abbastanza consumatori in grado di beneficiare di simili livelli di produzione industriale.
Seguendo il ragionamento sottoconsumistico, occorreva riequilibrare la situazione dando maggiore potere contrattuale ai lavoratori: questo implicava il rafforzamento del sindacato
industriale degli Stati del Nord, che sarebbe entrato a far parte della coalizione a sostegno del New Deal. Il favore verso il sindacato non era però incondizionato.
Perché questa nuova strada politica potesse essere percorribile, serviva infatti anche il consenso degli Stati del Sud. In questo caso, la struttura sociale del Sud fondava su una classe dirigente formata principalmente da “notabili”: banchieri, mercanti, possidenti terrieri, avvocati, medici. Questa classe dirigente fu cooptata per garantire la stabilità dei prezzi agricoli. Perché questo compromesso potesse essere raggiunto, i braccianti e i lavoratori agricoli del Sud degli Stati Uniti dovevano fondamentalmente rimanere esclusi dalla coalizione a sostegno del New Deal.
Nel 1935, la nuova coalizione riuscì a fare approvare il Social Security Act, creando nuovi benefit di disoccupazione, un sistema pensionistico, e un fondo d’assistenza per gli anziani. Di questi, il sistema pensionistico (“Old Age Insurance”) era gestito direttamente dal governo federale, al fine di razionalizzare la sequela di schemi pensionistici che erano stati approvati dagli Stati negli anni precedenti, distribuendo così la pressione fiscale su tutto il territorio statunitense.
Basta considerare il dibattito odierno sulla sanità pubblica per capire il genere di opposizione ideologica che questo genere di misure può sollevare negli Stati Uniti.
Secondo il politologo Mark Blyth, l’amministrazione Roosevelt ebbe successo nel far approvare questo schema grazie al modo in cui venne presentato. Piuttosto che presentare il Social Security Act come uno schema per redistribuire la ricchezza, queste misure vennero presentate come il miglior modo per aumentare il potere d’acquisto dei gruppi sociali sprovvisti di qualsiasi fonte di reddito. Nel contempo, nell’ambito delle idee sottoconsumistiche, aumentare il potere d’acquisto era visto come strumentale per rilanciare l’economia. In questo modo, l’enfasi era posta sul benessere collettivo, piuttosto che sulla giustizia sociale: anche se, nella sostanza, si trattava di politiche redistributive a favore di gruppi sociali svantaggiati.
Il successo del Social Security Act creò le condizioni per stabilizzare le tesi del sottoconsumismo e renderlo l’ideologia dominante del New Deal, razionalizzandola attraverso l’adozione del paradigma economico Keynesiano. In particolare, la
recessione del 1937 cambiò l’atteggiamento dell’amministrazione Roosevelt verso la spesa pubblica.
Secondo Brinkley, mentre prima questa veniva vista come qualcosa di necessario solo per usi specifici, ora la leva della politica fiscale veniva vista come lo strumento per creare crescita economica generalizzata.
Con la Seconda Guerra Mondiale, in particolare, la spesa pubblica per armamenti aveva consentito una straordinaria crescita economica. L’obiettivo, per i governi del dopoguerra, era quello di perseguire lo stesso tipo di crescita attraverso la leva fiscale del governo federale.
Conclusioni
Per rispondere al quesito iniziale, il New Deal non fu fin da subito un chiaro programma di governo, quanto piuttosto un processo di adattamento ideologico durato più di un decennio.
Perché l’amministrazione Roosevelt “affinasse” le sue politiche pubbliche, rendendo il New Deal qualcosa più che un “sentimento”, dovette prima testare alcune teorie economiche alternative, guardando anche all’esperienza dei singoli Stati nel fronteggiare la crisi.
Il primo elemento di successo del New Deal fu quindi il pragmatismo di fondo che guidò le scelte del governo federale: piuttosto che “innamorarsi” di una singola ricetta di politica pubblica, ne presero in considerazione un vasto ventaglio, soffermandosi su quelle che sembravano garantire maggior successo rispetto all’obiettivo di ripresa economica.
Al pragmatismo economico si accompagnò pragmatismo politico: perché il New Deal avesse successo, si scelse di sacrificare alcuni gruppi sociali in modo da massimizzare il sostegno politico al New Deal. In questo senso, i lavoratori agricoli del Sud degli Stati Uniti furono tra i gruppi sociali che pagarono maggiormente l’esclusione dalle politiche sociali dell’amministrazione Roosevelt.
Il secondo modo in cui si esplicò il pragmatismo politico del New Deal consisteva negli argomenti ideativi a sostegno delle politiche redistributive, come il Social Security Act. Piuttosto che presentare queste politiche come “giustizia sociale” o mettere l’enfasi sulla redistribuzione, l’inquadramento nelle tesi sottoconsumiste permise alla coalizione politica di presentarle come il modo migliore per creare ripresa economica, abbracciando così non l’interesse di una singola classe sociale ma dell’intera popolazione.
Nel contesto odierno, l’esperienza del New Deal può insegnarci molto. In particolare, può essere utile concepire il New Deal non tanto come un “monolite” caduto dal cielo per separare l’era del capitalismo sfrenato degli anni ’20 dal periodo di crescita economica ed interventismo del governo nell’economia dei decenni sucessivi, quanto piuttosto come un lungo esperimento da cui sono state tratte lezioni importanti.
Non è tanto il punto d’arrivo o lo specifico programma politico quello che va appreso dal New Deal, quanto il processo: un continuo apprendimento, durato un decennio, attraverso la sperimentazione di ricette di politica pubblica progressiste tra
le più disparate è stato in grado di cambiare la storia economica del Novecento.
Non possiamo che augurarci che lo stesso spirito possa animare i riformatori progressisti di oggi.