Ragionare a cinquant’anni dall’approvazione dello “Statuto dei Lavoratori” del maggio 1970 non significa soltanto discutere di un capitolo importante della storia del lavoro dell’Italia Repubblicana, ma anche parlare e immergersi nel concreto divenire e nella profonda materialità dei processi sociali del nostro paese. Necessariamente, quindi, dobbiamo consapevolmente identificare questo tema come una tappa e non un punto di arrivo: solo così, probabilmente, si può aprire una discussione, impantanata nel dibattito politico-sindacale degli ultimi trent’anni sullo Statuto, polarizzatosi tra chi lo dipinge come una anticaglia di cui liberarsi, figlia di un’altra epoca e chi, invece, lo narra come un testo sacro inalterabile e inscalfibile, da scolpire nella roccia.
Parlarne nel 2020 non può avvenire senza inserire tutto questo nel divenire del Conflitto Capitale-Lavoro a livello globale e nella turbolenta vicenda storica e politica del nostro paese.
Frutto dello scontro di classe degli anni Sessanta (e non soltanto, come spesso si ritiene, dell’Autunno caldo del 1969), la legge numero 300 del 20 maggio 1970 ha segnato, nell’Italia pienamente fordista, una vittoria ottenuta col sangue e le lotte di migliaia di donne e uomini.
Con lo Statuto i lavoratori italiani strappano: maggiore democrazia e spazio per la partecipazione, la garanzia di maggiore libertà di opinione e l’introduzione della punibilità penale per la “condotta antisindacale”, ma anche, tra le altre cose, l’impossibilità per i padroni di licenziare senza “giusta causa” o di usare mezzi al di fuori delle relazioni industriali (vigilanza privata, telecamere, “sindacati di comodo” e controlli privati per accertamenti sanitari) per colpire/discriminare/reprimere la vita di fabbrica.
Ma non solo: l’esplosione della mobilitazione dello “operaio massa” (1966-1969), connessa al protagonismo giovanile delle università (1967-1968) sblocca definitivamente processi di modernizzazione di un paese ormai pienamente a capitalismo avanzato, che aveva lasciato sul piatto, dopo il riformismo del primo centro-sinistra, troppi nodi irrisolti e mezze soluzioni.
Come sottolineato da Guido Crainz non è un caso che sempre nel 1970 venne finalmente approvata la proposta di legge Fortuna sul divorzio (difeso dall’esito del successivo referendum del ’74), fu attivato l’istituto del Referendum o che l’onda lunga di quegli anni portò, nel 1972, alle prime norme sull’obiezione di coscienza; mentre la Corte Costituzionale intensificò maggiormente l’abrogazione di alcune norme fasciste ancora in vigore. Senza dimenticare, come puntualizza Silvio Lanaro, che sempre in quel momento va a concludersi la tormentata vicenda dell’applicazione del dettato costituzionale relativamente al decentramento (art.117) con l’effettiva nascita delle Regioni, rimaste vittima per più di vent’anni dell’ostruzionismo democristiano e di due anni di acceso confronto con le sinistre di governo e opposizione.
Non è un caso neanche che in quegli anni entrò in azione, in modo barbaro e omicida, il complesso dispositivo della Strategia della tensione, a cominciare dalla Strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, come applicazione di una tattica atlantica di contenimento e repressione di quei processi storici e della partecipazione sociale che era all’origine di quel cambio di marcia.
Una manovra reazionaria organizzata in tandem con le parti più conservatrici della politica e dell’economia italiana a cui, invece, fu impedito, dal basso, di trascinare questo paese nel buio.
Se parliamo dello “Statuto dei lavoratori”, parliamo insomma di tutto questo e non possiamo non tenere presente tutto questo, inserendo quindi la sua vicenda storica in una Italia Repubblicana pienamente fordista, seppur in ritardo rispetto ad altre nazioni; una lentezza già pronosticata e analizzata nelle sue premesse da Antonio Gramsci nel celebre Quaderno 22 del 1934, (pubblicato come “Americanismo e fordismo” nel 1949).
Tuttavia saranno altri “quaderni”, anche allora, a sottolineare il profondo essere databile e non conclusivo dello Statuto: il marxismo eretico italiano del primo operaismo infatti, nella materialità di quel tempo, coglieva come all’interno del rapporto tra Lavoro e Capitale, vi fosse una profonda e duplice dinamicità intrinseca (Renato Panzieri), e che la classe operaia avesse con le sue lotte anche un formidabile spinta reattiva per il sistema (Mario Tronti).
Fondamentale sarà l’apporto di questi scritti in perenne tensione tra teoria, prassi, inchiesta operaia e conricerca, comparsi su riviste di enorme spessore d’analisi come “Quaderni Rossi”, “Quaderni Piacentini” o “Classe Operaia”: quelle pagine ancora oggi costituiscono una bussola importante per comprendere la genesi, le premesse e gli avvenimenti dei conflitti degli anni Settanta in Italia e nei paesi a capitalismo avanzato.
Lo Statuto segna quindi una tappa importante delle lotte del lavoro dipendente in Italia, ma non solo non perimetrerà la conflittualità, ma, va detto, non riuscirà a essere uno scudo contro la profonda ristrutturazione capitalistica globale del ’73-’74.
A partire dalla Crisi petrolifera, ma in fondamentale reazione alla decennale conflittualità delle fabbriche, il Capitale destrutturerà progressivamente la produzione organizzandola in modo circolare, sfruttando il territorio e le possibilità della telematica, rompendo la composizione di classe e cominciando ad aumentare vertiginosamente lo spazio della finanziarizzazione. Da allora prendono sempre più prepotentemente spazio temi decisamente a noi familiari come: debito, austerity o moneta, intesa come strumento universale di dominio (a partire dalle drastiche scelte di Nixon sul rapporto dollaro-oro del 1971), ponendo le premesse per un riassetto generale.
Comincia quel processo di fabrichizzazione e cognitivizzazione informatica delle società, passato negli anni Ottanta per la draconiana visione politica thatcheriana-reaganiana di smantellamento/disinvestimento nel Welfare State, il pieno dispiegarsi della globalizzazione neoliberista dagli anni Novanta e l’attuale messa a valore complessiva del bios: la costruzione cioè di un dispositivo imperniato su una esistenza messa interamente al lavoro e, per questo, resa strutturalmente liquida, precaria e migrante.
In Italia questo processo fu più lento negli anni Settanta, anche per un forte opposizione sociale, ma più drastico e violento, con l’emersione di nuove dinamiche, annidate nel tessuto metropolitano e nel dispiegarsi della produzione reticolare in ampie zone, tra delocalizzazione della grande fabbrica e innovazione; generando una reazione nel centronord che si concretizzerà in quel tessuto diffuso e presente di piccola-media impresa padana nella sua variante cooperativo-emiliana o familistico lombardo-veneta.
Il tutto, va drammaticamente detto, sotto gli occhi spaesati e privi di nuovi paradigmi di analisi di parti importanti della sinistra italiana partitica e sindacale, sdraiate prima sulla logica perdente del compromesso storico e, poi, schierate nel difendere più che nell’avanzare, incapaci di comprendere l’emersione prepotente e conflittuale di nuove e tendenziali figure paradigmatiche come il “l’operaio sociale”, antesignano del precario contemporaneo.
E’ stato anche questo progressivamente a rendere “svuotato” e “datato” lo “Statuto dei lavoratori”, complessivamente non più in grado di essere un qualcosa che riguardi una notevole parte del mondo del lavoro italiano, ma divenuto, per tutti gli anni Duemila, simbolo di resistenza in aspri confronti sindacali (tra grandi organizzazioni del lavoro dipendente-Governi di destra e di centrosinistra-Confindustria) intorno unicamente a uno dei suoi articoli (il diciottesimo).
Uno scontro conclusosi però recentemente, anche su un terreno così poco contemporaneo, con una sconfitta definitiva del sindacalismo classico, con l’approvazione del Jobs Act, e una gestione politica segnata da anni di smantellamento della spesa pubblica e, oggi, da più di un decennio di gestione neoliberale della Crisi economica.
Parlare storicamente oggi dello Statuto significa forse maggiormente confrontarsi su quello che succede nella contemporaneità e nella materialità dello sfruttamento dell’oggi, più che pensare a ere fordiste passate, consapevoli però della necessaria urgenza di dare diritti e tutele alle nuove, molteplici e invisibili soggettività del lavoro precario postfordista, inevitabilmente partendo da un ampio e articolato dibattito su un nuovo e rapido ammodernamento del welfare.