Come tutte le grandi crisi interne e internazionali, anche quella attuale della pandemia del Covid 19 è stata immersa sin dall’inizio in una retorica marziale (con il consueto grand guignol di prime linee, trincee, martiri ed eroi).  La stessa retorica sembra destinata ad accompagnare anche la gestione della cosiddetta “uscita dall’emergenza”. La pandemia, si dice, avrà lo stesso impatto di una grande guerra, e gli Stati dovranno dimostrare (tanto tra di loro quanto al loro interno) la stessa armonia e la stessa coesione di tutti le fasi di ricostruzione.

Sfortunatamente, questa analogia è doppiamente falsa.

Innanzitutto, perché non è affatto vero che la guerra abbia sempre l’effetto di “stringere insieme” le forze politiche e le classi sociali. Anzi, è vero molto spesso il contrario. Per la stessa ragione per la quale le guerre, così come le grandi crisi, hanno l’effetto di esporre drammaticamente le fratture e le diseguaglianze preesistenti, i dopoguerra sono spessissimo teatro di disordini e conflitti sociali. E basterebbe a dimostrarlo, d’altra parte, la scontata correlazione tra guerre esterne e guerre civili e tra queste e le fratture rivoluzionarie.

Soprattutto, il dopo-pandemia avrà – non sulla politica interna dei diversi Stati, ma sulla politica internazionale nel suo complesso – un effetto esattamente opposto a quello che hanno i veri dopoguerra.

Nel bene e nel male, infatti, le guerre costituiscono dei momenti di semplificazione.  Intanto, perché spetta alla guerra determinare chi avrà il potere e si prenderà il diritto di guidare quella che enfaticamente (e ipocritamente) ci siamo abituati a chiamare la “comunità” internazionale.

Per la stessa ragione, il risultato della guerra determina quale sarà il contenuto politico, economico e ideologico dell’ordine successivo, che cosa figurerà come “normale” e che cosa come “anormale” e quale lingua franca esprimerà meglio il nuovo vangelo della normalità. Senza dimenticare, poi, che la guerra procura paradossalmente anche una ovvia e rassicurante interpretazione di se stessa e della storia successiva: concentrando tutte le colpe sullo sconfitto, essa contribuisce a fondare (e a rifondare continuamente) l’innocenza del potere del vincitore.

Basti ripensare, senza andare troppo lontano, all’ultimo grande dopoguerra della storia recente, quello degli anni Novanta del secolo scorso.

È vero che, per nostra fortuna, la guerra fredda non fu decisa da nessuna catastrofe del tipo di quelle che avevano segnato le due guerre mondiali precedenti. Ma questo non toglie, appunto, che anche la guerra fredda fu decisa, almeno nel senso che si chiuse con una coppia inequivocabile di vincitori e sconfitti. E che, grazie a ciò, nell’immediato dopoguerra gli Stati Uniti e i loro alleati poterono assumersi la guida della comunità internazionale, inducendo la maggior parte degli altri Paesi ad attaccarsi al loro carro e condannando anche tutti gli altri all’acquiescenza (Russia e Cina compresi, almeno nel primo decennio del dopoguerra fredda).

Nell’esercizio di questa guida, gli Stati Uniti dettarono per così dire anche la nuova “costituzione” della comunità internazionale: quella sintesi di democrazia liberale, apertura al mercato, multilateralismo e religione dei diritti umani che poté essere riassunta e celebrata nello slogan del Nuovo Ordine Internazionale. Mentre, a margine di questa impresa costituente, i vincitori non rinunciarono neanche questa volta a rinchiudere tutta la storia precedente in un mausoleo della coerenza, edificato sulla fortunata (politicamente, giornalisticamente e accademicamente) contrapposizione tra democrazia e totalitarismo.

Il dopo-Covid non avrà nessuno di questi effetti.

Anzi, quello che normalmente viene “pacificato” una volta per tutte dalla guerra, questa volta diventerà fino in fondo terreno di scontro proprio una volta che tutto sarà (o sarà dichiarato) finito.

L’interpretazione della pandemia, innanzitutto: o meglio, sul terreno polemico-politico, la distribuzione delle colpe e la scelta delle “lezioni”. Un primo assaggio lo abbiamo già avuto in queste settimane, con gli Stati Uniti impegnati ad additare la Cina quale prima responsabile della pandemia (il “Chinese virus” di Donald Trump) e la Cina interessata, invece, a spostare l’attenzione ostentando il proprio primato tanto nella gestione interna dell’emergenza quanto nella proiezione esterna degli aiuti.

Ma, sotto questo strato più superficiale, è facile prevedere che altre questioni più importanti ci accompagneranno nei prossimi mesi: sulla capacità e la legittimità dei rispettivi regimi politici, per esempio; sulla credibilità di tutte le istituzioni internazionali; su che cosa, soprattutto, la pandemia ci avrà insegnato riguardo alla globalizzazione – se, come affermano scontatamente i suoi sostenitori, essa sia la riprova della necessità e dell’urgenza di costruire forme più avanzate di governance o, come replicano altrettanto scontatamente i suoi critici, la pandemia dimostri una volta per tutte che la globalizzazione non è governabile.

Ma dove il dopo-Covid mostrerà tutta la sua distanza da un vero dopoguerra sarà sul terreno, politicamente cruciale, della gerarchia del potere e del prestigio.

Alla fine di ogni grande guerra, questa gerarchia appare almeno per un certo periodo inequivocabile proprio perché la guerra ha appena chiuso la partita. La pandemia del Covid 19, invece, non chiuderà alcuna partita, anzi darà solo nuovo impulso a quella che era già in corso e, presumibilmente, ci accompagnerà anche nei prossimi decenni: la grande partita per la redistribuzione del potere e del prestigio dalla quale dipenderanno anche i contenuti politici, economici e ideologici dell’ordine internazionale del XXI secolo – un ordine almeno in parte post-liberale e, ancora più probabilmente, post-occidentale.

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