Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

#Forzalavoro

Il percorso di Fondazione Feltrinelli nel palinsesto di #Fuorileidee dedicato ai cambiamenti strutturali che attraversano il mondo del lavoro

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Il 20 maggio 1970, al termine di una stagione di mobilitazioni sindacali e riforme politiche, viene approvata la legge n. 300 dal titolo “Norme sulla tutela e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”.

Lo Statuto dei Lavoratori porta “la Costituzione nelle fabbriche” in un momento storico in cui il testo costituzionale da solo non riusciva a proteggere efficacemente i diritti e le libertà fondamentali dei lavoratori, come illustrato dallo stesso Ministro del Lavoro Giacomo Brodolini nella relazione di accompagnamento alla legge. Lo Statuto approvato in Senato il 20 maggio di cinquant’anni fa, d’avanguardia assoluta tra i paesi sviluppati, rappresenta il risultato di un doppio avanzamento: l’iter parlamentare promosso dal Ministro socialista fa da scenario alla serrata negoziazione sul tavolo dei rinnovi contrattuali da parte dei sindacati e alle lotte sociali promosse dal movimento dei lavoratori, come quella degli elettromeccanici a Milano il giorno di Natale del 1960 in piazza Duomo e i fatti di Piazza Statuto del 1962.
Lo Statuto viene introdotto in un momento di grande difficoltà per quel che riguarda i diritti economici e sociali. Con una media di 7-8 infortuni mortali al giorno, nel 1970 lavorare costituisce ancora un rischio per molte persone. Alla fine degli anni ’80 il numero di invalidi per incidenti sul posto di lavoro si terrà su livelli maggiori di quelli determinati dalla seconda guerra mondiale. La violazione di diritti e tutele è la normalità, anche per via di una dura politica antisindacale. Soprattutto negli stabilimenti di maggiori dimensioni, i lavoratori attivi vengono schedati e licenziati senza indennizzi economici né alcuna possibilità di reintegro. Come una pentola a pressione, l’autunno caldo del 1969 vede l’esplosione delle tensioni accumulate in una poderosa ondata di scioperi: nel 1969 le ore perdute nell’industria manifatturiera superano i 200 milioni, contro i 113 milioni del 1962.

A livello istituzionale, lo Statuto approvato il 20 maggio 1970 è il culmine di un importante processo di riforme, che include provvedimenti come l’abolizione delle zone salariali, l’eliminazione del sistema del caporalato e l’approvazione della prima riforma organica in materia previdenziale. In netta discontinuità rispetto ai predecessori, il ministro Brodolini decide di schierarsi dalla parte dei lavoratori, superando l’idea di un esercizio del potere come neutrale e di mediazione tra le parti. A dimostrarlo è il contenuto progressista dello Statuto, che sancisce la libertà di opinione e di associazione (artt. 1, 8 e 14), il divieto di ricorrere a guardie giurate e impianti audiovisivi (artt. 2 e 4), nonché forti limitazioni sulle sanzioni disciplinari (art. 7). Gli artt. 9, 13, 15 e 16 normano poi la tutela della salute e dell’integrità fisica, la limitazione del potere di variare le mansioni, e il divieto di atti discriminatori. All’art. 18 si stabilisce invece la reintegrazione nel posto di lavoro per chi viene illegittimamente licenziato, un principio che verrà modificato solo quarantadue anni più tardi.

 

Rileggere lo Statuto ai nostri giorni e alla luce della crisi in corso serve a interrogarsi sui cambiamenti strutturali che attraversano il mondo del lavoro. La progressiva trasformazione dei tessuti produttivi, con lo spostamento del centro di gravità dalla fabbrica all’economia dei servizi e della conoscenza, ha prodotto un graduale scollamento tra le possibilità dello Statuto di difendere chi lavora e le realtà emergenti con cui questo si confronta nella società odierna. Allo stesso modo, il lavoratore di fabbrica si è trovato progressivamente più isolato e meno capace di riconoscersi come attore politico. Quello statuto che era una “carta dei diritti fondamentali” per un’epoca il cui punto di riferimento era l’operaio-massa deve fare oggi i conti con una classe lavoratrice atomizzata, fluida, frammentata dal punto di vista contrattuale, politico e produttivo, le cui modalità organizzative spesso escono fuori dai recinti tradizionali dell’orario e del posto di lavoro. L’allargamento degli orizzonti produttivi, con la globalizzazione dei mercati e la competizione dai paesi emergenti, hanno diminuito ulteriormente la spinta propulsiva della legge n. 300/1970, pensata per un’economia nazionale e in forte crescita.

Negli ultimi decenni, i processi di flessibilizzazione e deregolamentazione del mercato di lavoro hanno posto nuove sfide a chi organizza il movimento dei lavoratori. A fronte della stagnazione dei redditi da salario e delle crescenti disuguaglianze nella maggior parte dei paesi avanzati, la classe lavoratrice “in sé” è stata sempre più raramente in grado di riconoscersi in classe “per sé”, mancando l’obbiettivo di fare fronte comune nel promuovere i salari, diritti e tutele di chi lavora. Le difficoltà nel trovare un minimo comune denominatore tra i segmenti più deboli del mercato del lavoro, in primis la galassia dei lavori considerati atipici – contratti a termine, a chiamata, di agenzia, autonomi e di piattaforma – chiama in causa i sindacati, che si interrogano oggi sulle strategie per riconfigurare e dare vitalità ai processi di rappresentanza. Allo stesso modo, urge interrogarsi sui percorsi di partecipazione dei lavoratori alla governance delle imprese di tutte le dimensioni, in un momento storico che registra la (ri)scoperta di modelli virtuosi di coordinazione delle economie tra parti sociali e governi.

L’emergenza sanitaria ha riportato in superficie molte delle contraddizioni che caratterizzano la nostra struttura occupazionale. I lavoratori di settori essenziali come la logistica e la distribuzione, i servizi socio-assistenziali, la filiera agricola e alimentare sono esposti sia a una maggiore precarietà lavorativa, che si manifesta con l’insufficienza di redditi e protezioni sociali, sia a un maggiore rischio di contagio da Covid-19. Secondo l’evidenza empirica disponibile, i lavoratori dei servizi fondamentali risultano svantaggiati in termini di salari e di protezione dell’impiego rispetto a chi può lavorare da casa. Alcune categorie sono particolarmente vulnerabili: è il caso dei rider, che in molti casi non possono rispettare le precauzioni di distanziamento sociale e non ricevono protezioni sanitarie adeguate da parte delle piattaforme. Nelle scorse settimane i ciclo-fattorini di diverse città d’Italia hanno protestato per rivendicare migliori tutele sul lavoro e salari dignitosi.

Reinterpretare lo Statuto assume grande rilevanza in un contesto in cui i confini tra lavoro retribuito e non retribuito si fanno sempre più sfumati, e il contratto di lavoro cessa di essere sinonimo di benessere e partecipazione alla cittadinanza. Da un lato, in molti contesti il lavoro non è di per sé sufficiente per garantire un reddito adeguato: il lavoro povero (in-work poverty) ha raggiunto livelli allarmanti nel nostro paese, con più di un lavoratore su dieci a rischio povertà. Dall’altro lato, il lavoro informale e non retribuito continua ad assorbire una fetta consistente della popolazione. Tra i quattro milioni di lavoratori che operano nell’economia sommersa rientrano le centinaia di migliaia di persone, prevalentemente donne, concentrate nei settori “riproduttivi”, ovvero le attività che fanno sì che l’economia formale continui a funzionare: dalla pulizia alla cura di bambini e anziani, dal lavoro domestico all’alimentazione, dall’educazione alla formazione.

Partendo da queste riflessioni, il percorso promosso da Fondazione Feltrinelli, nei giorni che intercorrono tra l’1 e il 20 maggio, intende interrogarsi sul significato storico della legge n.300 del 1970 e sulla sua importanza per sondare i nuovi movimenti del mercato del lavoro e della società. Le tensioni tra diritto al lavoro e alla salute, lavoro retribuito e non retribuito, organizzazione e armonizzazione degli interessi, salari e redditi, vanno rilette alla luce degli obbiettivi dello Statuto, delle questioni strutturali e dei profondi cambiamenti che hanno trasformato, negli ultimi cinquant’anni, il mondo del lavoro.

Con questo spirito è interessante prendere in esame non solo gli aspetti produttivi, salariali e di tutela della salute intesa in senso strettamente fisico, ma anche l’attenzione che cinquanta anni fa era stata data all’istruzione, alla formazione, alla libera espressione – nelle diverse accezioni – dei lavoratori. Da un lato l’articolo 10, per esempio, riconosceva particolari diritti ai “lavoratori studenti” per i quali si segnalava l’esigenza di agevolare i percorsi di studio in rapporto alla frequenza e ai turni di lavoro. Dall’altro, l’articolo 11 menzionava le attività culturali, ricreative e assistenziali. Certo oggi viviamo un’epoca in cui sfumano i confini tra tempo ricreativo e tempo di lavoro, tra reti sociali e relazioni professionali, tra passioni individuali e produzione di valore, quegli articoli tuttavia ci aiutano a ricordare che la dignità del lavoratore non è confinata alla mera regolazione giuslavoristica e alla tutela della sua capacità prestazionale, ma che la “comunità” dei lavoratori e i luoghi di lavoro – anche quelli virtuali di oggi – sono parte di uno spazio sociale, culturale, ambientale più ampio. In quello spazio-tempo sempre meno nitidamente definito che è oggi il lavoro si gioca anche la possibilità della crescita personale e collettiva, della cura di sé e degli altri, di un’arte di governarsi da sé che è un tentativo di sottrarsi alla coercizione e allo sfruttamento.

A cinquant’anni dallo Statuto, nel bel mezzo di un capitalismo flessibile fatto di impieghi temporanei e traiettorie frammentate, la condivisione di storie, vissuti, insoddisfazioni e aspirazioni – anche nel quadro di dispositivi culturali, ricreativi, di scambio e dibattito che le rappresentanze sindacali e i movimenti dei lavoratori possono abilitare e rinnovare – può essere l’elemento generativo di senso di co-appartenenza e di pratiche di solidarietà volte alla ricerca di risposte comuni.

 

Il percorso che inauguriamo oggi si avvarrà di fonti storiche tratte dal patrimonio di Fondazione, di voci della comunità scientifica e della nuova rappresentanza, ma anche di testimonianze di lavoratori e lavoratrici che, tra pur tra difficoltà e un senso crescente di vulnerabilità, si fanno portatori di una tensione trasformativa, per un dialogo tra le parti che torni a fare del lavoro – in tutte le sue forme – uno strumento di emancipazione e di eguaglianza sociale.


Avviamo oggi questo tragitto con un testo di Richard Sennett, una riflessione sul valore politico delle storie e della capacità di narrarsi.

 

 

 

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