Sono passati diversi mesi dai primi casi di COVID-19 a Wuhan. In Italia siamo agli arresti domiciliari ormai da più di quaranta giorni, ma il nostro paese ha solo dato il buon esempio al resto dell’umanità. Nel giro di qualche settimana, il lockdown ha ri-nazionalizzato un pianeta globalizzato dalla finanza, dal turismo e dal virus.


Tante domande, poche risposte


 

Dopo qualche settimana di andirivieni tra la cucina e la camera da letto, con spericolate escursioni sul pianerottolo, ci stiamo dimenticando com’era la vita “normale”. A questo punto in compenso dovremmo sapere tutto, o quasi tutto, del nostro “nemico invisibile”, la minaccia che ci tiene in quarantena. Invece non ne sappiamo quasi niente.
Un primo ordine di domande ingenue riguarda il morbo e la sua diffusione.

Non sappiamo ancora esattamente come si diffonde il virus. Droplet o aerosol? Serve lo sputazzo o basta un respiro, un sospiro, una frase, una parola? Un metro? Un metro e ottanta? Cinque metri?

E poi, quanto resiste il coronavirus sulle superfici che tocchiamo? È un vero pericolo? Quando scade la pallina di grasso che custodisce il mortifero RNA su una maniglia, su una confezione di spaghetti, sul marciapiedi davanti a casa? Qualche minuto? Qualche ora? Giorni?

Un’altra serie di questioni riguarda le tattiche di sopravvivenza. Anche qui, nemmeno le domande basilari hanno una risposta chiara.

La mascherina serve o no? Basta una sciarpa? Magari “un po’ spessa”? Un foulard di seta?

E i tamponi? Quanti dobbiamo farne? A chi? Ai malati? A medici e infermieri? A tutti? Per cercare (e scoprire) cosa?

La strategia resta quella adottata ai tempi del Decameron.

Un’incertezza ancora maggiore riguardi le terapie. A parte pompare ossigeno in dosi massicce nei polmoni di chi sta soffocando, sperando che prima o poi gli passi l’affanno… Salvo ricorrere ai rimedi miracolosi (gargarismi con la candeggina o l’aceto, l’ennesimo farmaco scoperto su Youtube), o votarsi a entità superiori (preghiere e processioni)…

E i morti? Sappiamo che sono tanti, tantissimi, troppi. E’ una tragedia terribile. Ma quanti sono morti per il coronavirus? E quanti con il coronavirus? E quanti sono i morti per o con, ma senza tampone? E quanti i morti senza coronavirus che non hanno ricevuto tutte le cure necessarie a causa del coronavirus?

Ma noi vogliamo certezze. Allora le domande diventano risposte. Chi parla per primo, chi grida più forte, ci regala l’illusione della verità. I numeri ci dicono il futuro. Le certezze sbandierate dalle fake news (naturalmente virali) cancellano ogni dubbio.


Le retoriche del virus


fonte: Ilsole24ore.com


Accanto all’infezione che massacra i corpi, ne è esplosa un’altra. Penetra i nostri discorsi, sfuoca le  frasi, distorce le parole. Ci possiamo scherzare sopra. Se Jovanotti cantava “Io penso positivo perché non vivo, perché son vivo”, oggi chi è positivo nutre cupi pensieri. Fino a qualche settimana fa, sognavamo tutti che i nostri post diventassero virali, salvo scoprire che a diventare virali sui sociali erano solo le fake news. Il significato delle parole si ribalta, gli eufemismi nascondono una condanna, una maledizione.

Ma come si è infettato il linguaggio? Alle care vecchie solite perversioni del linguaggio, quelle a cui eravamo distrattamente abituati, se ne sono aggiunte altre. E il mix fa girare la testa.


Le certezze della scienza


Tedros Adhanom


Secondo i competenti, gli enigmi della pandemia avrebbero restituito valore alla competenza. Cancellata la retorica fintamente democratica dell’ “uno vale uno”, azzerata la “dittatura del dilettante” che caratterizzava la rete, abbiamo fame e sete della verità degli esperti. I media si contendono il virologo, il medico, il “comitato tecnico scientifico”, il “surgeon general”, il rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Perché gli scienziati hanno studiato, lanciano ipotesi e le verificano, fanno esperimenti, raccolgono numeri, mettono ordine nei fatti. Rilanciata dai media, la loro verità, la loro competenza non ammettono dubbio.

Con un piccolo problema. Non tutti gli scienziati sono d’accordo su tutto. Anzi, sono spesso in fiero disaccordo su moltissimi punti.

Abbiamo sentito tutti l’allarmista: “E’ la pandemia più grave dell’ultimo secolo”. Abbiamo incontrato anche il minimizzatore, o la minimizzatrice: “E’ poco più di un’influenza. Anzi, meno”.  Sulle modalità di contagio, l’allarmista paranoico può avvertire che “il virus resta nell’aria per diversi giorni”. Per il minimizzatore cinico, il COVID-19 si limita a dare un aiutino: spinge nella Terra Inesplorata da cui nessuno ritorna solo chi era già spacciato: quasi quasi dovremmo ringraziarlo.

Non sorprende che anche sulle misure adottate (e da adottare) gli esperti abbiano poche idee… ma  confuse. Da un lato c’è chi spinge per un lockdown durissimo e lunghissimo. Dall’altro ci si appella all’immunità di gregge, al senso di responsabilità dei cittadini, a un “andrà tutto bene” che esorcizza l’angoscia. Per il cinico darwiniano, va messa in conto una strage, che prima o poi arriverà, e allora tanto vale superare la crisi nel più breve tempo possibile. Come le mamme che ci mettevano nel letto dell’amichetto ammalato di morbillo per immunizzarci.

Le uniche certezze ci arrivano dalla scienza, ma sono meno certe di quel che sembra. La scienza è fatta di dubbi, di ipotesi da verificare sperimentalmente. Le sue previsioni hanno grandi margini d’errore, soprattutto nel caso di una catastrofe inedita e di dimensioni planetarie.

Ovviamente ogni scienziato è convinto di avare ragione: per lui parlano i fatti! E dunque sostiene la propria tesi con tutte le armi della retorica.


La retorica dei numeri


 

 

L’informazione e la politica si appellano a all’autorità superiore dell’esperto. E’ lui che ci dà i numeri. Le conferenze stampa, i lanci di agenzia, le mappe con lo sviluppo quotidiano dei contagi e delle vittime hanno ben presto strutturato una ritualità che dà il ritmo a una vita quotidiana resa informe dal confinamento domestico.

Dobbiamo fidarci dei numeri perché sono oggettivi. Scientifici. Se qualcosa andrà male, potremo sempre prendercela con lo scienziato, asservito al potere delle multinazionali farmaceutiche.

Dunque ci vengono somministrate quantità massicce di statistiche. Peccato che i numeri che ci spacciano come magici talismani, in grado di leggere il presente e prefigurare il futuro, siano inaffidabili.

I dati vengono raccolti con criteri poco omogenei e poco verificabili, in condizioni di emergenza e con un alto tasso di casualità, senza strutturare un campione statisticamente significativo (salvo indagini limitate, come in Italia a Vò Vicentino, oggetto di un serio studio epidemiologico). Troppi elementi sfuggono al controllo, soprattutto agli inizi. Infatti si sono moltiplicate le iniziative che cercano di “correggere” i dati ufficiali: per esempio, il confronto tra i decessi per COVID-19 dichiarati e i decessi reali tra febbraio e marzo 2020 rispetto alle annate precedenti.

Nel frattempo le autorità pubbliche scelgono quali dati diffondere, come e quando. Non è difficile sospettare che la selezione dipenda (anche) dall’agenda dell’amministrazione: da quello che desidera facciano i cittadini, ma anche da quello che non si vuole che i cittadini sappiano.

Ottenere dati affidabili sulla pandemia (i contagiati, i guariti, le vittime, gli immunizzati e quant’altro) richiederà un lavoro di mesi, una volta superata l’emergenza. Solo a quel punto potremo capire quello che ci è successo, e se ci sono state negligenze e responsabilità.

A quel punto potremo attrezzarci per l’arrivo di un nuovo “cigno nero”. Solo che a quel punto ci saremo dimenticati della grande paura, e preferiremo far finta di niente, per nascondere le nostre fragilità.


I politici


 

Boris Johnson
fonte: repubblica.it


I leader sono stati costretti a un compito difficile, al quale non erano più abituati. Devono prendere decisioni che hanno un enorme impatto su decine di milioni di persone. Devono decidere in fretta e non possono sbagliare. Impossibile correggersi. Fino a poche settimane fa, l’unica preoccupazione dei politici era occupare gli spazi di potere e prepararsi alle prossime elezioni. A comandare non era la politica, ma l’economia e la finanza: non sono loro a far girare il mondo?

Di fronte all’epidemia, le decisioni dei politici sono questione di vita e di morte. Un potere assoluto al quale i leader democratici avevano rinunciato da tempo.

Per la loro scelta, si sono cercati un alibi: “Ci atteniamo al parere degli esperti”. Gli scienziati, i “soggetti supposti sapere”, che dispongono di numeri e di modelli predittivi.

Alcuni leader hanno trovato (o scelto) gli ottimisti, altri si sono fidati dei pessimisti. Entambi hanno deciso di conseguenza. Quasi tutti i leader occidentali hanno imposto la chiusura, in genere dopo qualche comprensibile esitazione, in un crescendo di restrizioni. Ci hanno fatto perdere pian piano l’abitudine alla libertà, per non gettarci subito nel panico. Qualcuno ha cercato di tener aperto a oltranza, come la Svezia, contando sul senso di responsabilità dei suoi cittadini e sul distanziamento sociale “a prescindere”.

Qualcun altro ha cambiato idea. Boris Johnson si era presentato il 12 marzo come paladino della herd immunity, avvertendo: “Molte altre famiglie perderanno i loro cari prima del tempo”. Pochi giorni dopo si è ripresentato davanti alle telecamere per un clamoroso dietrofront. Il 5 aprile è finito in terapia intensiva. Per non parlare di Donald Trump e del suo “A Pasqua vi voglio tutti in chiesa”: era solo un auspicio, hanno spiegato.


Gli autocrati


Gli autocrati e gli aspiranti autocrati hanno rispolverato antiche tattiche.

A un estremo, brilla il negazionismo. In Corea del Nord l’epidemia non può arrivare. In Turkmenistan la parola “coronavirus” è vietata e chiunque indossi una mascherina rischia l’arresto. Il problema non esiste, non può esistere. Il leader turco Recep Tayyut Erdogan l’11 marzo trasudava fiducia: “”Ci auguriamo che la Turchia superi questo problema senza perdite. Abbiamo preso in tempo le misure necessarie affinché il coronavirus non si propaghi. Nessun virus è più forte delle nostre misure”. Inutile e pericoloso contraddirlo.

All’estremo opposto ci sono il coprifuoco e la condanna a morte senza processo. Li ha evocati con ironico paternalismo il Governatore della Campania Vincenzo De Luca il 21 marzo: “Se fate la festa di laurea, vi mandiamo i Carabinieri col lanciafiamme!” Non scherzava invece il Presidente delle Filippine Rodrigo Duterte, quando il 3 aprile ha ordinato di “sparare a morte” a chiunque causasse problemi durante la quarantena nella favelas di Manila. Problema risolto: così non si muore più per coronavirus.


Retoriche democratiche


La retorica dei regimi democratici è più complessa. Prima di imporre, bisogna persuadere.

Il punto di partenza è la drammatica incertezza sui provvedimenti necessari, viste le esigenze e gli interessi contrapposti. Basti pensare in Italia allo scontro frontale tra imprenditori e sindacati sulla chiusura delle fabbriche: “Noi operai non siamo carne da macello”. Soprattutto nella fase iniziale, ci sono state quasi ovunque esitazioni e cambi di rotta più o meno clamorosi.

L’obiettivo era imporre ai cittadini una limitazione delle libertà personali inimmaginabile solo pochi mesi fa: sono state in sostanza cancellate la libertà di movimento, la libertà economica, la libertà di riunione e quindi di espressione, ma anche la libertà di culto, resa ancor più dolorosa dal divieto di dare l’ultimo saluto ai familiari defunti.

Come far ingoiare divieti che nessuna dittatura potrebbe imporre? La leva più efficace è la paura, accompagnata da eventuali sanzioni: che però rischiano di essere inefficaci, se la paura non viene interiorizzata.

Un’arma potente va usata con cautela. Non può essere troppo blanda e non deve degenerare nel terrore, che provoca reazioni imprevedibili. Per il momento il meccanismo ha funzionato. La corsa agli acquisti nei primi giorni di quarantena ormai ci fa ridere: gli italiani hanno razziato tutti i tipi di pasta (ma non le penne lisce) e il lievito di birra, i tedeschi hanno accumulato la carta igienica, a Amsterdam facevano la fila per l’erba, negli Stati Uniti c’è stato un boom del commercio di armi che nemmeno l’elezione di Obama…

La comunicazione politica ha avuto un altro obiettivo prioritario: nascondere gli errori del passato, più o meno recenti, più o meno clamorosi. Per esempio, meglio evitare che si discuta della situazione dei sistemi sanitari, troppo spesso inadeguati (e magari sottoposti a durissimi tagli negli ultimi anni), esaltando l’abnegazione e la generosità del personale sanitario. Meglio evitare che ci si interroghi sulla carenza di mascherine, camici e tamponi, ovvero i presidi che salvaguardano la salute dei cittadini, in primo luogo proprio i medici e gli infermieri “eroi”.

Il paradosso è il diktat del Presidente della Regione Lombardia. Dopo settimane in cui era andato ripetendo che le “mascherine non sono necessarie”, il 5 aprile Attilio Fontana ha decretato che tutti i lombardi devono indossarle. Con un piccolo problema: le mascherine sono pochissime e i farmacisti le vendono a peso d’oro. Fino a quel momento la “quantità sufficiente” era un valore relativo: basta spiegare che mascherine e tamponi “non sono necessari” e nemmeno “indispensabili”. Una volta stabilita l’obbligatorietà della mascherina, la responsabilità viene scaricata sul cittadino: se non ha saputo procurarsela e mette a repentaglio la vita dei concittadini, è un pericoloso irresponsabile.  Mentre il politico, indossata la maschera del buon padre di famiglia, può vantarsi di aver adottato il necessario provvedimento per il bene comune.


Milano, deserta per l’ emergenza coronavirus


Un discorso analogo vale per le strutture ospedaliere e per i reparti di terapia intensiva. L’emergenza ci impedisce di chiederci perché si sia creata l’emergenza, e perché mai dobbiamo affrontare un’urgenza alla quale è impossibile rispondere con urgenza.

Non merita nemmeno un cenno la retorica dei politici che sfruttano la catastrofe sanitaria per la loro personale campagna elettorale, moltiplicando le apparizioni televisive, i proclami e le polemiche…


È una guerra!


A unificare le diverse retoriche politiche è una iper-retorica profondamente inscritta nel nostro bagaglio retorico. La metafora della guerra impazza, come ha cercato di far notare Annie Ernaux a Emanuel Macron: “Oggi, benché lei lo proclami, noi non siamo in guerra, qui il nemico non è umano, non è un nostro simile, non ha pensiero né volontà di nuocere, ignora le frontiere e le differenze sociali, si riproduce alla cieca saltando da un individuo a un altro” (France Inter, 31 marzo 2020).

Chi non si allinea, chi non combatte, chi va troppo a spasso con il cane o si spinge a fare jogging un po’ troppo in là, è un disertore. L’appello bellico ristabilisce l’ordine e le gerarchie, non ammette dubbi o discussioni. Se c’è un arbitrio, diventa necessario. Il generale si traveste da eroe.

Se c’è una guerra, deve esserci anche un nemico. Ma il virus è troppo piccolo e invadente per diventare un bersaglio. Meglio cercare bersagli più evidenti. Basta avere pazienza. Quando serviranno, li scoveremo.

Nel frattempo, si sono chiuse tutte le frontiere, come se fosse possibile chiedere il passaporto al virus. Il riflesso condizionato è potentissimo. Uno dei primi paesi a chiudere tutte le frontiere è stato l’Italia, alla mezzanotte del 26 marzo, quando ormai il virus impazzava: a logica, le frontiere avrebbero dovuto chiuderle i paesi vicini…

Contro le tendenze alla regionalizzazione, mentre COVID-19 miete decine di migliaia di vittime, risorgono gli Stati nazione e il centralismo statalista, fiaccati da decenni di globalizzazione.


La forza dell’allarmismo


Anche l’informazione sprofonda nelle sue retoriche. Il riflesso condizionato per aumentare le tirature è il sensazionalismo, enfatizzato dai meccanismi comunicativi della rete e dal clickbaiting. L’allarmismo è il miglior alleato della politica della paura.

Non sono molti i giornalisti che hanno competenze scientifiche all’altezza dei temi messi in gioco dalla pandemia, per interpretare (e per mettere in discussione) il bombardamento di statistiche e grafici. Bastava ascoltare le domande alla fine delle rituali conferenze stampa per capire come la curiosità delle autorità e dei giornalisti venisse canalizzata verso dati in apparenza oggettivi, clamorosi ma spesso irrilevanti, imprecisi o discutibili.

Una corretta divulgazione scientifica, in questo vortice di sollecitazioni, diventa impresa impossibile. Oltretutto due scienziati che litigano fanno notizia e audience, e quello che hanno da dire rischia di diventare irrilevante. Il nuovo ospedale con la sua batteria di unità di rianimazione attrezzate in poche ore fa dimenticare che quelle unità erano troppo poche e che magari ne erano state smantellate molte di più e che magari non c’è il personale necessario per farle funzionare.

Naturalmente alcune catastrofi è meglio non raccontarle, come le stragi nelle case di riposo o i contagi del personale sanitario, meglio parlare astrattamente di “generazione perduta” e di “medici e infermieri eroi”.

Accanto all’enfasi catastrofista, sui media imperversano altre retoriche, forse ancora più fastidiose. La prima è l’elogio del quotidiano, in tutte le sue sfaccettature. In primo luogo, si tratta di convincerci che sta andando tutto come prima: anche nella catastrofe possiamo conservare brandelli di normalità e di umanità, persino di generosità. Per raggiungere questo obiettivo, un’alluvione di consigli e di tutorial, dalle ricette della nonna ai suggerimenti dello psicanalista, dalle palestre in webinar agli aperitivi online. Testimonianze, confessioni, confidenze, tutte uguali e tutte stucchevoli. Mille consigli…. I bei libri. La buona musica. I musei virtuali. I capolavori del cinema e del teatro. Le imperdibili serie televisive che ci eravamo persi. Se non ora, quando?

Lo smart working è un privilegio di pochi: i più colti, i più ricchi, quelli con le case grandi o le seconde case al mare o in campagna, i computer e le connessioni performanti…

La seconda retorica, il suo rovescio, è l’elogio della creatività diffusa, emblema di resilienza, simbolo della capacità di usare la crisi come opportunità: cantare sui balconi e suonare in terrazza (ma ci siamo stufati subito), travestirsi per impersonare i capolavori dei grandi musei, disputare le Olimpiadi di Tokyo tra tinello e vasca da bagno, fare i 42 chilometri della maratona perimetrando il balcone,  scalare l’Everest rifacendo 300 volte le scale del palazzo… Sempre lanciando il selfie o la diretta Instagram, sperando che diventi virale…


La retorica economica


Il lockdown ci salva la vita, ma a caro prezzo. Il blocco quasi totale delle attività economiche abbatte l’idolo neoliberista degli ultimi decenni: il PIL tracolla. Si impenna il tasso di disoccupazione, nemico mortale delle sinistre. Crolla l’offerta, perché la produzione si arresta. Crolla la domanda, perché non circolano più soldi.

La principale eccezione al momento è la Cina, che ha bloccato una regione che accoglie il 5% circa della sua popolazione, ma per il resto ha continuato a produrre e consumare, anche se a ritmo ridotto. Ora – dopo aver spento il focolaio – può “aiutare” il resto del mondo. Le conseguenze sulla geopolitica mondiale sono evidenti.

 

Economisti e imprenditori calcolano il costo del blocco. Migliaia di miliardi, cifre inimmaginabili per chi si arrangia con pochi euro al mese, ovvero la maggior parte dell’umanità. Ma ce lo hanno spiegato il 24 marzo sul “New York Times” Eduardo Porter e Jim Tankersley: è inconcepibile dare un prezzo alla vita umana, tuttavia “per le società sono importanti anche altre cose, il lavoro, il cibo e i soldi per pagare le bollette”.

Anche se in teoria la vita umana non ha prezzo, nella pratica lo possiamo ugualmente calcolare. Un ricovero in terapia intensiva costa alcune decine di migliaia di euro (al sistema sanitario pubblico in Europa), o decine di migliaia di dollari (negli USA, per chi ha un’adeguata  assicurazione sanitaria).

Per gli economisti, l’importante non sono tanto le miserie individuali, ma l’intero sistema economico nazionale, e anche  mondiale. Il team guidato da Sergio Rebelo della Northwestern University di Chicago ha calcolato i costi della pandemia nell’arco di un anno, il tempo necessario a sviluppare, testare e commercializzare un vaccino. Un lockdown di un anno abbatterebbe il PIL degli USA del 22%, con una perdita di 4,2 trilioni di dollari. Senza lockdown, il PIL scenderebbe sono del 7%, ma con 500.000 morti: il costo complessivo salirebbe a circa 6,1 trilioni di dollari.

Forse questi calcoli non sono affidabili, ci sono troppe variabili di cui tener conto. Molti spingeono per un rapido allargamento delle maglie che hanno ingabbiato l’economia e il lavoro. Del resto per capire che per il capitalismo (sia nella variante liberale sia in quella totalitaria) la vita umana non ha (quasi) valore, non c’è bisogno della pandemia: basta ricordarsi le morti sui posti di lavoro, i disastri ambientali, l’inquinamento del pianeta.

Esplode la retorica del ritorno alla normalità. Al più presto, a qualunque costo. Il lockdown non avrebbe dovuto nemmeno iniziare e dunque deve finire.

I politici si trovano a dover mediare tra due tipologie di esperti. I virologi e gli epidemiologi vogliono chiudere. Gli economisti e i sociologi vogliono aprire, visto che temono le conseguenze  sociali della povertà di massa. La priorità è salvare le imprese, affinché l’economia riprenda la sua marcia trionfale, che non si resti indietro nella sfida del commercio internazionale. Il consumismo deve tornare a essere il culto che globalizza il pianeta.


Gli intellettuali


Imprenditori ed economisti vogliono ritrovare il tempo perduto. Gli intellettuali si impongono di guardare il futuro.

Il pensatore autorevole, di solito opinionista televisivo e/o professore universitario, gode in genere di una vita assai tranquilla e dunque si può permettere ogni sorta di trasgressione sessuale e culturale. Oltretutto è mondano e giramondo. Per lui il lockdown è uno shock, uno sconvolgimento profondo. Ha capito che nulla sarà più come prima. Dunque il COVID-19 è un agente rivoluzionario. Ma sta dalla parte di Lenin, Mao, Castro? O da quella di Mussolini e Hitler? E’ cambiato tutto, ma in quale direzione stiamo andando?
Per le anime belle, questa crisi sta facendo esplodere le contraddizioni di un modello di sviluppo insostenibile. Segna il tramonto del capitalismo selvaggio, l’avvento di una nuova coscienza ambientale. Il virus è l’enzima che rilancia la solidarietà sociale, dopo decenni di individualismo thatcheriano. Il consumismo sfrenato verràsoppiantato da una consapevole frugalità. Le nuove tecnologie, unico balsamo della nostra reclusione, consentono (o impongono) all’umanità connessa l’ennesimo salto qualitativo. La fine del lockdown libererà una palingenesi spirituale, che vedrà il fiorire impetuoso di inedite energie creative.

Capofila di questo fronte è Slavoj Žižek, che vede emergere “un nuovo senso di comunità (…) Una sorta di nuovo pensiero comunista, diverso però dal comunismo storico. Stiamo scoprendo che per battere il virus servono coordinamento e cooperazione globale” (Anna Lombardi, “Vedo un nuovo comunismo germogliare dal virus”, “la Repubblica”, 7 aprile 2020).

Altri vedono stringersi la morsa. Lo stato d’eccezione imposto e accettato passivamente dalla quasi totalità della popolazione. La fine delle libertà democratiche, con il rinvio delle elezioni, la chiusura dei tribunali e la sospensione dell’attività parlamentare. Il tramonto della democrazia rappresentativa, con i suoi pesi e contrappesi, le oscillazioni dell’opinione pubblica, la “sondaggite”, la lentezza dei processi deliberativi… Regimi pressoché dittatoriali che ne approfittano. L’adozione di sistemi di tracciamento (il “modello coreano”) che controllano i comportamenti individuali e cancellano la privacy (gradite alla maggioranza dei cittadini, sottolineano i sondaggi). Il ritorno dei nazionalismi e il trionfo dei sovranismi. La necessità, prima o poi, di reprimere con la violenza la rabbia e le rivolte determinate da una crisi economica senza precedenti. La paura del contagio, l’ansia di controllo e le tecnologie del social rating porteranno al trionfo il Capitalismo della Sorveglianza.

Leader del fronte pressimista è Byung-chul Han: “La Cina venderà anche il proprio stato di polizia digitale come modello di successo nella lotta all’epidemia. La Cina dimostrerà con rinnovato orgoglio la superiorità del proprio sistema. Dopo l’epidemia, il capitalismo proseguirà con foga ancora maggiore”. Polemizza con Žižek: “Il virus non sconfiggerà il capitalismo. La rivoluzione virale non avrà luogo. Nessun virus può fare una rivoluzione. Il virus ci isola. Non produce nemmeno un forte senso di comunità. Ora ognuno è preoccupato della propria sopravvivenza. La solidarietà di prendere le distanze gli uni dagli altri non è solidarietà” (Byung-chul Han, La cura al virus è lo Stato di polizia?, “Avvenire”, 7 aprile 2020).


La retorica dei corpi


La malattia, la minaccia di una morte sempre in agguato, riporta al centro della scena la realtà materiale del corpo.

Quali sono le persone che stanno ora rischiando la vita?

A rischiare di più, a soffrire di più sono le persone più deboli.

Gli anziani, naturalmente. I lavoratori di un servizio sanitario che non era preparato ad affrontare un’epidemia, anche molto meno perniciosa di questa. Chi si occupa dei corpi sacri dei morti.

Chi non ha casa e dorme per la strada, o in una favela o in un campo nomadi. I profughi nei campi. I carcerati e i secondini, che convivono in ambenti sovraffollati. I lavoratori della logistica, che ci assicurano i rifornimenti. Chi ha il sistema immunitario compromesso o indebolito. Gli operai che si sono rifiutati di lavorare in ambienti poco sicuri: “Non siamo carne da macello” (quando la Confindustria non voleva sospendere la produzione). Le cassiere dei supermercati. Chi ci fa le consegne a domicilio. Gli studenti che abitano in case senza computer e connessione.

Quelli che abitano in sei in un monolocale. Le donne costrette a convivere con un uomo violento. Chi vive un disagio psichico o fisico e non riceve più assistenza adeguata. I lavoratori precari.

Insomma, i poveri. Che non vuol dire niente e vuol dire tutto.

Per tutti loro non conteranno le parole, ma i fatti. Gli altri continueranno a parlare, magari per dire loro come si devono comportare. A pesare la verità delle loro parole, prima dei poliziotti delle fake news, saranno le cicatrici sui corpi, l’elenco delle patologie, l’aspettativa di vita.

 

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