Staffetta con la storia è una rubrica che guarda ai classici presenti negli archivi della nostra Fondazione come fonti di ispirazione per guardare al futuro. Scelte che risuonano nelle urgenze del presente: una selezione di spunti e argomentazioni riproposte perché possano sollecitare una ricerca, un pensiero, un’azione politica.

#11 | Come finanziare l’equità
Luigi Einaudi


Tamara Gasparri
Consigliere di Lef ed esperta di fiscalità internazionale

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Introduzione


Nel 1946 Luigi Einaudi pubblica un breve saggio sull’imposta patrimoniale. Governatore in carica della Banca d’Italia, in procinto di essere eletto Presidente della Repubblica, Einaudi, liberale e liberista, si esprime a favore di un’imposta tradizionalmente considerata fra le più progressiste. La guerra è finita lasciando in eredità un debito pubblico immane e un sistema impositivo esoso, intricato e iniquo. Il livello della pressione fiscale incoraggia l’evasione che erode il gettito imponendo nuove tasse in un circolo vizioso. Einaudi disegna un quadro che ferisce per l’attualità con cui risuona oggi, a distanza di 74 anni, in una nuova epoca di pressione fiscale crescente, di austerità contrattiva, di crisi debitoria incombente, e ora anche di guerra, come spesso si dice per giustificare interventi che soltanto nella guerra trovano un precedente… In un simile quadro, Einaudi afferma che “l’imposta straordinaria sul patrimonio può essere sul serio un efficace strumento della ricostruzione economica del paese”. La patrimoniale è concepita da Einaudi come una tantum, per abbattere il debito e innescare un circolo virtuoso caratterizzato da tasse più semplici e leggere e dunque minor evasione e dunque maggior gettito. La riduzione del debito pregresso deve servire per dare fiducia alla popolazione e sollievo alle classi più povere, ma anche per restituire speranza agli investimenti, respiro al commercio e slancio allo spirito imprenditoriale. L’obiettivo è promuovere assieme la libertà d’intrapresa e la giustizia sociale.
Il testo qui proposto è tratto dalle pagine iniziali, nelle quali Einaudi prende di petto la questione cruciale: “L’imposta patrimoniale è la sola democratica?” E, forse per togliere alla proposta ogni sapore progressista, non esita a rispondere di no. Gli argomenti addotti sembrano provenire improvvisamente da una voce lontanissima. Reddito e patrimonio sono la stessa cosa, dice. Chi ha un patrimonio ne ricava un reddito e chi ha un reddito lo può capitalizzare. La conversione dell’uno nell’altro è regolata dal tasso d’interesse. Non fa differenza tassare l’uno o l’altro. Si può ottenere il medesimo effetto. Entrambe le imposte possono essere democratiche, purché progressive.
Ora, dire che patrimonio e reddito sono la stessa cosa è come dire che sono la stessa cosa capitale e lavoro. Se fosse vero, non ci sarebbe bisogno del fisco per promuovere la giustizia sociale. Basterebbe la finanza. In effetti, la “democratizzazione della finanza” avvenuta a partire dagli anni ’80 sotto gli auspici del neoliberismo, ha perseguito il sogno di trasformare ogni reddito in capitale, consentendo ai più umili lavoratori di acquistare le dimore più sontuose grazie alle alchimie della cartolarizzazione. Un sogno che si è infranto con la crisi finanziaria globale del 2007. Oggi, con i tassi d’interesse sotto zero, pare proprio che questo Einaudi parli di un mondo che non esiste più. Ma la sua idea di imposta patrimoniale merita ancora di essere ascoltata.

Luca Fantacci


L’IMPOSTA PATRIMONIALE È LA SOLA DEMOCRATICA?

Poiché l’imposta straordinaria sul patrimonio può essere sul serio un efficace strumento della ricostruzione economica del paese giova farne un esame critico allo scopo di depurare il suo contenuto da taluni ingombranti miti i quali fanno gran danno al raggiungimento dello scopo sostanziale che l’imposta si propone.

Si trascuri, perché puramente verbale, il mito della “fatalità”, ed “inevitabilità”, di un’imposta patrimoniale. È questa una argomentazione comodissima in bocca di coloro i quali, non sapendo addurre nessun argomento sostanziale pro o contro, reputando sconfiggere l’avversario chiedendo: «E perché lotti contro un evento il quale, tu il voglia o non, è destinato a compiersi?». Al che si risponde: «Può darsi che gli avvenimenti si compiano sol perché si dice che sono nell’aria e son fatali e nessuna forza umana vi si potrà opporre; ma giova ad ogni modo indagare il perché della dichiarata fatalità». Colla quale risposta è dimostrato che la parola “fatalità” è soltanto la veste di qualche diversa, più sostanziosa, argomentazione.

Poco più sostanziosa è quell’altra tesi la quale dice: «l’imposta straordinaria patrimoniale è preferibile alle altre imposte perché più ‘democratica’”. La tesi pone il quesito: «quando una imposta è democratica?» Ove ci si rimetta alle opinioni dominanti nel mondo contemporaneo, alla domanda possiamo dare unicamente la seguente risposta: «è democratica quella imposta la quale chiede al contribuente provveduto di un dato reddito o di un dato patrimonio una imposta proporzionatamente più gravosa di quella fatta pagare a chi ha reddito o patrimonio minore o meno gravosa di quella fatta pagare a chi ha reddito o patrimonio maggiore. Se a chi ha 100 si chiede il 10%, a chi ha 99 si chiederà ad esempio, solo il 9,99% e a chi ha 101 si chiederà il 10,1%. Le cifre sono qui messe solo per via di esempio; ché spetta al legislatore decidersi per la scala crescente o progressiva 9,99, 10 e 10,01 ovvero 9, 10 od 11 ovvero 8, 10 e 12 ovvero qualche altra ancora della infinita varietà di scale che la mente umana può escogitare.

È evidente che alla esigenza democratica, può soddisfare ugualmente bene l’imposta sul reddito o quella sul patrimonio. Il legislatore può dichiarare le tre aliquote 9, 10 ed 11 tanto per il reddito che per il capitale; ed egli può rendere le due dichiarazioni perfettamente identiche nei loro effetti. Se al reddito 100 è applicata l’aliquota d’imposta del 10%, il contribuente paga 10 lire. Se si vogliono far pagare le stesse 10 lire a titolo di imposta patrimoniale bisogna prima conoscere ed accertare a quale patrimonio o capitale corrisponda il reddito di 100 lire. Se noi supponiamo che i redditi siano capitalizzati al saggio di interesse del 5%, constatiamo che ad un reddito perpetuo di 100 lire all’anno corrisponde un capitale di 2000 lire; e che, applicando alle 2000 lire un’aliquota del 0,50%, il contribuente paga altresì 10 lire. Al contribuente è dunque indifferente pagare ed allo stato è indifferente riscuotere il 10% sul reddito ovvero il 0,50 per cento sul capitale o patrimonio.

Ma, dirà il fautore della imposta patrimoniale, noi vogliamo far pagare al patrimonio non il 0,50, sibbene il 10% del suo ammontare. Su di ciò non si discute, ché le aliquote sono deliberate a suo libito dal legislatore; ma ciò non vieta che, stabilendo un’aliquota del 10% sul patrimonio, si stabilisca nello stesso tempo senz’altro una certa altra aliquota sul reddito. Invero il patrimonio di 2000 lire è tale perché abbiamo capitalizzato, al saggio di interesse del 5%, il reddito annuo di 100 lire. Dunque se noi facciamo pagare il 10% sul capitale o patrimonio di 2000 lire, ossia 200 lire, noi facciamo la stessa cosa come se dicessimo: «i redditi di 100 lire debbono pagare un’imposta del 200%».

Può essere più opportuno usare l’una nomenclatura invece dell’altra. Di solito si preferisce parlare del reddito, quando le imposte sono inferiori all’ammontare del reddito. Nell’esempio ora fatto, se si dice: «l’imposta è del 10% del reddito» si afferma che lo stato piglia per sé dieci ogni cento lire e lascia le altre novanta al contribuente. La dichiarazione non urta nessun sentimento diffuso, e perciò la si preferisce. Se, invece, si dicesse: «l’imposta è del 20% del reddito», subito molti chiederebbero: «e coma [sic] fa quel disgraziato a pagare allo stato il doppio del reddito che riceve?»; epperciò si preferisce dire: «L’imposta è del 10% sul capitale o patrimonio». Si dà l’impressione di lasciare al contribuente ancora il 90% del suo patrimonio; ma frattanto gli porta via il doppio del reddito.

Il che, se le due imposte fossero perfettamente uguali sotto tutti gli altri rispetti, sarebbe manifestamente assurdo. Non occorre spingersi sino al 10% sul patrimonio per vedere l’assurdità della cosa. Basta l’aliquota del 5%. Molti conoscono od hanno visto nelle vetrine dei cambisti quei pezzi di carta che si chiamano titoli di debito pubblico perpetuo dello stato: sono fogli distinti in tre parti: l’una centrale, contenente le notizie relative al titolo, al suo valore nominale, al reddito, agli obblighi dello stato debitore ecc. ecc., e questa parte centrale noi possiamo chiamare “del capitale”; e le altre due laterali composte di striscioline o cedolette che danno diritto a riscuotere ogni sei mesi, in perpetuo, un interesse di lire 2,50, ossia 5 lire all’anno e queste parti laterali si usano identificare col “reddito”. Supponiamo ora che sul titolo venga a cadere una imposta patrimoniale “annua” del solo 5%, aliquota che dà all’orecchio un suono numerico piccolo e dà l’impressione che al contribuente rimanga il 95% del patrimonio o capitale. Subito si vede che l’impressione è falsa. Pagare ogni anno 5% sul capitale equivale invero a pagare tutto il reddito di 5 lire, ossia a non avere più reddito. Che cosa vale un capitale senza reddito? Che cosa vale un titolo di debito pubblico perpetuo da cui siano tagliate via le due parti laterali, quelle delle cedolette? Zero via zero. Insieme col reddito è perduto senz’altro il capitale. Se ad un proprietario di case o di terreni noi diciamo: «tu hai salvo il capitale; ma qualcuno ti porterà via il reddito»; il proprietario, ove non abbia qualche speranza di restituzione totale o parziale in avvenire, ricorrerà subito, ove lo possa, all’abbandono delle case e dei terreni, per non soggiacer ad oneri e disgusti connessi con la sua situazione di falso proprietario.

In verità: capitale e reddito non sono due entità distinte, sibbene la stessa entità vista sotto differenti sembianze. La entità prima è il reddito; è quella somma che periodicamente entra nella economia del contribuente: salari, stipendi, fitti, interessi e simili. Se i redditi esistono, essi possono essere dal mercato capitalizzati, scontando i redditi futuri a valori attuali, secondo un certo saggio di interesse. Se esiste il reddito 100 e lo si prevede perpetuo ossia rinnovantesi periodicamente ogni anno all’infinito, quel reddito, al saggio di interesse del 5%, vale 2000 lire in capitale. Se il saggio fosse del 4%, il capitale sarebbe valutato 2500 lire; se del 10%, il capitale varrebbe solo 1000 lire. Son conti che tutti, anche senza sapere di saggi di interesse e di coefficienti di capitalizzazione fanno ogni giorno istintivamente, e dimostrano che non si dà capitale senza reddito, né reddito senza capitale e che non esiste una distinzione “sostanziale” fra imposta sul reddito ed imposta sul capitale o patrimonio. L’una si converte automaticamente nell’altra e viceversa.

Tuttavia esiste una qualche distinzione formale; ed accade in questa materia tributaria che la forma, le apparenze, i miti abbiano una importanza grande.



#10 | La scuola per chi?
Ada Gobetti


Lettura di Vanessa Niri
Coordinatrice gruppo ARCI infanzia adolescenza e politiche educative

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Introduzione

Il 14 marzo del 1968 muore Ada Marchesini Gobetti, dal 1959 direttrice di una rivista ormai del tutto dimenticata «Il giornale dei genitori». «Edito coi soldi che la Gobetti aveva guadagnato dalla pubblicazione di un suo libro di consigli ai genitori, Non lasciamoli soli, vivacchiava stentatamente con appena duemila abbonamenti e con difficoltà raggiungeva lettori fuori del Piemonte» fino a quando, nel 1964, la casa editrice fiorentina di Ernesto Codignola si era assunta la distribuzione della rivista e la redazione era passata a Milano, dove se ne sarebbe occupata Lidia De Grada Treccani. «Esiste una forma di modestia che consiste nell’accettare e nel darsi anche compiti limitati, obiettivi parziali. Questo è ciò che facciamo con il nostro giornale». Nel 1968 Gianni Rodari, che prende il posto di Ada Gobetti, scrive a Lidia De Grada: «il ‘Giornale dei genitori’ è immediatamente e quotidianamente utile». Scrive ancora Rodari: «Uno studio sui rapporti fra la scuola e la famiglia nell’Italia del dopoguerra manca: chi decidesse di farlo dovrebbe dedicare un capitolo alle discussioni, ai progetti e alle iniziative di comitati di vario genere, sorti ovunque durante gli anni Sessanta. Sarebbe, nei fatti, la storia, lenta e tortuosa, del passaggio del cittadino-genitore da una condizione di suddito della scuola a un’altra, per ora soltanto intravista, di cittadino di pieno diritto. Farebbero da sfondo altri avvenimenti, a diverso livello, dai bivacchi notturni di padri e madri per iscrivere i figlioli a una scuola per l’infanzia, alle occupazioni di edifici scolastici, alle manifestazioni pubbliche per la mancanza di aule». Quello che Gobetti chiama il ‘corpo della scuola’. Tenere insieme questo e quello, attenzione al come e al cosa si fa a scuola è una lezione di cui Ada Gobetti ha gettato le basi non soltanto politiche ma anche culturali ponendo sempre fortemente il tema dell’attenzione agli aspetti concreti e non solo ideali (ideologici?) della scuola. Un punto di vista quanto mai necessario oggi in giorni nei quali discutere di scuola e tecnologia è sempre una questione di “spirito” ma raramente di “corpo”.
Tornare a Ada Gobetti è inoltre necessario per la piena consapevolezza che ha del fatto che la scuola è di tutti: quella che oggi è vista da taluni insegnanti e opinionisti come una delle disgrazie della contemporaneità, la partecipazione dei genitori alla vita scolastica, è il frutto di battaglie il cui senso rischia di perdersi per sempre di fronte alla caustica ironia di insegnanti e letterati. «Il mestiere di genitore di cui parlava Makarenko, e di cui parla con tanta passione tra noi Ada Marchesini Gobetti, si impara e si pratica a braccio, a orecchio. La idea che per allevar bene i bambini occorrano, oltre agli assegni familiari, e ai maestri, conoscenze complesse, che ci si debba mettere addirittura a studiare, per commettere il minor numero possibile di errori, è molto meno diffusa dei vecchi precetti e pregiudizi dell’educazione familiare». Sono le pratiche democratiche e condivise che possono scardinare l’istituzione immobile attraverso un’alleanza fra famiglie e insegnanti, questo Ada Gobetti non smette mai di scriverlo in tutta la sua lunga e fruttuosa vita.


Vanessa Roghi


Ada Gobetti, Il corpo della scuola, scritti da “Il Giornale dei genitori” (1959-1968)


Assistendo in questi giorni al caotico inizio del nuovo anno scolastico non ho potuto fare a meno di ripensare con insistenza alle parole di Elvira Pajetta. «Si parla tanto oggi di spirito della scuola! E se, una volta tanto, ci preoccupassimo anche del suo corpo?», disse nel corso d’un convegno in cui s’era ampiamente e variamente discettato circa i nuovi metodi attivi, senza preoccuparsi però dei locali delle attrezzature, degli strumenti attraverso cui questi nuovi metodi avrebbero potuto esser applicati E lo disse con quel tono fra serio e arguto che faceva parte del suo fascino e con cui sapeva velare la violenza polemica, dicendo le cose più dure senza offendere nessuno.
Da allora i convegni sulla scuola si sono susseguiti e moltiplicati. S’è disputato a lungo sulla spontaneità e la libertà del fanciullo; s’è fatto utilmente il punto sul miglior metodo per insegnare le diverse materie; s’è ideata, voluta, imposta e ottenuta la riforma che rende la scuola obbligatoria e gratuita, uguale per tutti fino a quattordici anni. Ma non cd si è preoccupati abbastanza del “corpo” di questa scuola; e oggi ci troviamo, soprattutto per quel che riguarda la cosiddetta media unificata, di fronte a un organismo sanamente e saggiamente concepito, che però rimane sospeso a mezz’aria per mancanza d’un terreno su cui posarsi e mettere radici.
Si dirà che il problema delle aule, delle attrezzature, della nomina degli .inse¬gnanti – dell’organizzazione pratica della scuola insomma – non è di pertinenza dei docenti e degli studiosi (e neanche dei profani) e che se ne debbono occu¬pare gli organi amministrativi e ministeriali. E senza dubbio è vero, anche se dietro questo atteggiamento vediamo far capolino ancora una volta quella peri¬colosa frattura tra teoria e pratica, tra morale e costume, che così profondamen¬te affligge la nostra vita nazionale.
Chi ama la scuola, chi crede nella scuola deve cercare di sanare, non d’ap¬profondire questa frattura; e pur continuando a discuterne i metodi e l’impo¬stazione ideale, non trascurar d’occuparsi anche degli aspetti pratici, del suo
Tocca ai Comuni provvedere i locali e il materiale didattico per tutte le scuole, elementari e secondarie; e troppi Comuni, assillati da una quantità di problemi, tendono a relegare tra i meno urgenti quelli riguardanti la scuola; senza contare l’ostacolo che rappresenta per ogni iniziativa comunale la necessaria approvazione dell’autorità tutoria (o Giunta Provinciale Amministrativa) che spesso sembra accanirsi con gusto particolare contro quelle amministrazioni che più si sforzano di adeguare i servizi alle esigenze moderne, ai bisogni di tutti gli strati della popolazione. Eppure ci sembra significativo il fatto che, tra i Comuni importanti, l’unico, o quasi, che in questo momento di generale sconquasso non si trovi a dover affrontare problemi drammaticamente insolubili, sia quello di Bologna. H merito ne va senza dubbio all’Amministrazione e in particolare all’Assessorato per ITstruzione, che ha saputo prevedere, pianificare e realizzare con ritmo instancabile e costante. Ma un certo peso deve averlo avuto anche l’opinione pubblica: una popolazione abituata ormai da molti anni all’esercizio di un’intensa vita democratica, stimolata periodicamente nel corso del “febbraio pedagogico” a discutere e riflettere sui problemi scolastici, ha acquistato coscienza dei propri diritti e, imponendone la soluzione al Comune, dà a questi la forza necessaria per vincere gli ostacoli rappresentati anche dalla più sorda burocrazia.
Al punto in cui siamo, se non vogliamo che la nuova scuola comune – elemento fondamentale e indispensabile d’una società moderna e democratica – si defor¬mi, sgretolandosi, e dando così ragione a quanti vorrebbero conservare le strutture tradizionali, penso che dobbiamo impegnarci con tutte le nostre forze. Tutti: amministratori e parlamentari, studiosi, scrittori e politici, genitori e inse¬gnanti. Non credo che bastino – pur essendo certo utilissime – le interrogazioni al Senato e alla Camera; e neanche le denunzie più documentate e precise della stampa. Occorre una presa di coscienza di tutto il Paese che chieda, esiga e alla fine imponga i provvedimenti necessari perché la scuola funzioni.
È logico che in questa battaglia si muovano, in prima fila, gli insegnanti. Li abbiamo visti in questi ultimi anni far valere finalmente, con gli scioperi, le loro più che legittime esigenze economiche. Perché non dovrebbero ora rivendicare allo stesso modo il diritto altrettanto legittimo di poter svolgere il loro lavoro in condizioni possibili? Come può assolvere con dignità e soddisfazione al proprio compito un maestro che abbia una classe (magari una prima) con cinquanta (o anche solo quaranta) bambini, o un professore di scuola media costretto a far lezione sempre e soltanto nelle ore pomeridiane? Ma perché l’azione degli insegnanti sia valida, dev’essere sostenuta dall’azione concorde dei principali interessati, e cioè dei genitori, delle famiglie.
Da anni si sostiene su queste colonne la necessità che i genitori acquistino piena coscienza della propria responsabilità nei riguardi dell’educazione dei figli. Questa responsabilità non s’arresta alle soglie della scuola; la famiglia non può veramente approfittare dell’insegnamento e dell’educazione che riceve quando non esista tra genitori e maestri una sincera intesa e collaborazione.
Dobbiamo riconoscere che questa collaborazione è ben lungi dall’essere diffusamente attuata. Ma già s’incominda a sentirne più vivamente il bisogno, a intenderne l’importanza. È di questi giorni la notizia che nel quartiere “Bolognina” di Bologna è sorto un consiglio di genitori e insegnanti che si riunisce periodicamente per affrontare i reali concreti problemi della zona nel campo scolastico ed educativo, in particolare nel settore della scuola materna e dell’educatorio. Ci auguriamo che questa sia soltanto.la prima d’una serie d’iniziative analoghe in tutti i quartieri della città.
Ma se iniziative simili possono bastare in una situazione già fondamen¬talmente positiva come quella di Bologna, sono invece insufficienti là dove non si tratta semplicemente di migliorare, ma di costruire spesso quasi dal nulla, per por rimedio a situazioni incredibili. È qui che la volontà deve farsi sentire, costringendo gli organi responsabili a prendere i provvedimenti necessari. Non ci si deve accontentare che le leggi vengano votate e promulgate: si esìga che vengano applicate. Non d s’acquieti alla notizia che nel bilando della Pubblica Istruzione è stato stanziato un certo numero di miliardi, che a tutta prima possono sembrare molti, ma in realtà sono sempre troppo pochi, anche quando non si sperdono lungo vie sbagliate o in rivoletti insignificanti. Non d si lasd incantare da programmi a lunga o a breve scadenza. Ma si esiga in ogni luogo, in ogni situazione, immediatamente, la soluzione pratica dei problemi urgenti.
Su questa linea dovrebbero trovarsi d’accordo tutti i genitori, a qualsiasi ideologia o tendenza politica appartengano: tutti quelli almeno – e credo siano la maggioranza – che vogliono difendere e salvare la scuola pubblica da una decadenza che tornerebbe a tutto vantaggio della scuola privata, confessionale 0 speculativa. Si continua a dire che le giovani generazioni sono il nostro patrimonio più prezioso, l’unica garanzia per l’avvenire; ma anziché dare ai nostri bambini e ai nostri ragazzi il meglio di ogni cosa, offriamo loro, proprio in quella scuola che dovrebbe educarli, spettacoli di disordine e soluzioni di compromesso, con una mancanza di previdenza, d’attenzione, di cura, che non può non mortificarli e umiliarli. Se vogliamo fame degli uomini e delle donne migliori di noi, dobbiamo sforzarci in ogni modo di sanare subito la situazione, dando loro la scuola completa, stabile, ricca e serena a cui hanno diritto.
Ho incominciato questo articolo citando Elvira Pajetta. Intendevo ricordare la sua eccezionale figura d’educatrice, nella scuola e nella vita, su questo giornale a cui ella ha collaborato, che, con appassionato e intelligente interesse, ha seguito e amato sin dall’inizio, per cui si è battuta sino alla fine. Poi l’argomento mi ha preso la mano. Ma sono convinta che nessuna commemorazione avrebbe potuto essere a lei più gradita di questo invito a una battaglia senza quartiere per la soluzione concreta e immediata d’un problema che le stava così profondamente a cuore: una scuola con un “corpo” sano, solido e robusto […]


#9 | Il desiderio di vivere insieme
Ernest Renan


Lettura di Ariam Tekle
Documentarista e co-fondatrice del podcast Blackcoffee

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Introduzione

In questo breve saggio Ernest Renan propone un’accorata difesa dell’idea di nazione. Nonostante sia stato pubblicato a fine Ottocento, il tema è tornato di attualità in virtù della recente riscoperta, in vari paesi europei, delle rispettive identità nazionali.
Questa rinascita culturale e politica dell’idea di nazione è per certi versi sorprendente. Dopo la tragedia delle grandi guerre del ventesimo secolo, l’identità nazionale ha smesso di giocare un ruolo di primo piano nel dibattito politico dei paesi europei. In molti hanno dunque pensato che la nazione fosse un residuo ideologico del passato di cui le moderne democrazie non avevano più un grande bisogno. Inaspettatamente tuttavia, le sopite identità nazionali sono state risvegliate dai partiti sovranisti, per diffondersi poi anche in molti partiti tradizionali. È importante dunque rileggere le riflessioni di Renan, per capire come possano illuminare una questione cruciale della politica contemporanea.
Renan intravede nella nazione il “principio spirituale, o l’anima” di un popolo, e la fa dipendere da due fattori. Il primo è ancorato al passato. Si tratta della memoria condivisa della propria storia: l’idea che i nostri antenati hanno affrontato dolorosi sacrifici per realizzare i loro successi. Il secondo elemento che dà forma all’idea di nazione si ritrova invece nel presente, ed è rivolto al futuro. Esso è dato dalla continua volontà di vivere assieme: la disposizione a proseguire la propria storia passata sopportando i costi della vita comune per goderne i benefici. La nazione costituisce dunque una sorta di “coscienza morale”, che è più forte più gli individui sono disposti a sacrificarsi per il vantaggio della comunità.
L’idea di nazione è spesso guardata con sospetto dalla cultura contemporanea per dure ragioni. Da un lato è vista come potenzialmente aggressiva, in quanto spesso la diversità della propria cultura si traduce in percepita superiorità. È noto ad esempio che l’inno nazionale tedesco, nel testo originale composto da Hoffman e rimasto in vigore fino al 1952, iniziasse con le parole “Germania, Germania al di sopra di tutto nel mondo”.
Renan tuttavia sostiene che l’idea di nazione non comporti l’aggressività espansiva solitamente attribuita ai nazionalismi storici. Le nazioni – per Renan – non solo non hanno alcun diritto di annettere un territorio, ma non hanno soprattutto alcun reale interesse a farlo.
La seconda ragione di diffidenza verso l’idea di nazione nasce dal sospetto che sia inospitale per le differenze individuali. La nazione, se basata su un’identità culturale comune, contrasta con l’idea liberale che ogni individuo è diverso da ogni altro e come tale deve essere rispettato. Inoltre, il liberalismo contemporaneo è tendenzialmente multiculturalista, estende cioè il rispetto dovuto a opinioni e preferenze individuali anche alle identità culturali.
Renan anticipa questa critica, ma insiste che l’idea di nazione non è esclusiva. Infatti, essa non si fonda unicamente su una storia comune, da cui identità nuove sarebbero escluse, ma anche e soprattutto sulla condivisione di un progetto futuro, a cui è affidato il compito di delineare i confini e le caratteristiche di una comunità inclusiva di etnie, lingue e costumi differenti.
L’esistenza della nazione è per Renan un elemento positivo – se non addirittura necessario. Essa è però anche un “quotidiano referendum”, poiché può sempre, anche improvvisamente, venire a mancare. È lecito dunque preoccuparsi della capacità dei paesi contemporanei di manifestare una reale unità nazionale. La ragione non è da ricercare però, come pensano alcuni, nella crescente diversità culturale, bensì nella sempre più diffusa insofferenza individuale ad accettare anche i più piccoli sacrifici richiesti dalla vita comune.

Carlo Burelli


Ernest Renan, Che cos’è una nazione?, Lezione tenuta l’11 marzo 1882 alla Sorbonne


Una nazione è un’anima, un principio spirituale. Due cose, che in realtà sono una cosa sola, costituiscono quest’anima e questo principio spirituale; una è nel passato, l’altra nel presente. Una -è il comune possesso di una ricca eredità di ricordi; l’altra è il consenso attuale, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a far valere l’eredità ricevuta indivisa. L’uomo, signori, non s’improvvisa. La nazione, come l’individuo, è il punto d’arrivo di un lungo passato di sforzi, di sacrifici e di dedizione. Il culto degli antenati è fra tutti il più legittimo; gli antenati ci hanno fatti ciò che siamo. Un passato eroico, grandi uomini, gloria (mi riferisco a quella vera), ecco il capitale sociale su cui poggia un’idea nazionale. Avere glorie comuni nel passato, una volontà comune nel presente; aver compiuto grandi cose insieme, volerne fare altre ancora, ecco le condizioni essen­ziali per essere un popolo. Si ama in proporzione ai sacrifici fatti, ai mali sofferti insieme. Si ama la casa che si è costruita e che si lascia in eredità. Il canto spartano: «noi siamo quel che voi foste; saremo quel che voi siete» nella sua semplicità è l’inno abbreviato di ogni patria.
Nel passato, un’eredità di gloria e di rimpianti da condividere, per l’avvenire uno stesso programma da realizzare; aver sofferto, gioito, sperato insieme, ecco ciò che vale più delle dogane in comune e più delle frontiere conformi ai principi strategici; ecco ciò che si comprende malgrado le diversità di razza e di lingua. Dicevo poco fa: «aver sofferto insieme»; sì, la sofferenza comune unisce più della gioia. In fatto di ricordi nazionali, i lutti valgono più dei trionfi, poiché impongono doveri e uno sforzo comune.
La nazione è dunque una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è an­ cora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni, come l’esistenza dell’individuo è una affermazione perpetua di vita. Oh! lo so, ciò è meno metafisico del diritto divino, meno brutale del preteso diritto pubblico. Nell’ordine di idee che vi espongo, una nazione non ha il diritto, più di quanto non lo abbia un re, di dire a una provincia: «Tu mi appartieni; ti prendo». Per noi, una provincia sono i suoi abitanti; se c’è qualcuno in questa faccenda che ha il diritto di essere consultato, è chi ci abita. Una nazione non ha mai un vero interesse ad annettersi un paese contro la sua volontà. Il voto delle nazioni è, in definitiva, il solo criterio legittimo, quello al quale bisogna sempre tornare.
Abbiamo scacciato dalla politica le astrazioni metafisiche e teologiche. Cosa resta, dopo? Resta l’uomo, i suoi desideri, i suoi bisogni. La secessione, mi direte, e, alla lunga, la frammentazione delle nazioni sono la conseguenza di un sistema che mette questi vecchi organismi alla mercé di volontà spesso poco illuminate. È chiaro che in una materia come questa nessun principio deve essere spinto all’eccesso. Le verità di questo genere sono applicabili solo nel loro insieme e in modo. assai generale. Le volontà umane cambia­ no; ma cosa non cambia quaggiù? Le nazioni non sono qualcosa di eterno. Esse-hanno avuto un inizio, avranno una fine. La confederazione europea, probabilmente, prenderà il loro posto. Ma non è questa la legge del secolo in cui vivia1no. Oggi l’esistenza delle nazioni è un bene, persino una necessità. La loro esistenza è garanzia della libertà, che sarebbe perduta se il mondo avesse una sola legge e un solo padrone.


#8 | Dalla ritirata al progresso per tutti
Franklin Delano Roosevelt


Lettura di Gabriele Rabaiotti
Assessore alle politiche sociali e abitative del Comune di Milano

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Introduzione

Quello di Franklin Delano Roosevelt del 1933 fu l’ultimo discorso d’insediamento che un Presidente tenne a inizio marzo. Dopo di allora, il XX emendamento lo anticipò al 20 gennaio, riducendo così di un mese e mezzo il periodo di transizione tra un’amministrazione e l’altra. Troppi, quattro mesi d’interregno, di fronte alla necessità di dare risposta all’emergenza assoluta di una recessione economica senza precedenti e in un contesto di scarsa collaborazione tra l’amministrazione uscente di Hoover e quella entrante di Roosevelt. Con la disoccupazione al 25%, il PIL che nel 1932 era sceso di 13 punti percentuali, un numero crescente di banche insolventi e gli inevitabili riverberi globali della crisi, in primo luogo su un commercio mondiale che vide una contrazione dei due terzi dei suoi scambi, Roosevelt si trovò a parlare a un paese spaventato e smarrito. Lo fece offrendo una risposta centrata su leadership e ottimismo. Dichiarando, nel passaggio forse più celebre del discorso, che l’unica cosa di cui aver paura fosse la paura stessa. Sottolineando la forza e le possibilità della politica: di un’arte di governo capace d’intervenire, assumendo poteri e funzioni nuovi da mettere al servizio di una rottura radicale con le ortodossie del passato. Denunciando la corruzione di un sistema economico privo di norme e costrizioni, di una finanza avida e speculativa, di istituzioni pubbliche che avevano abdicato al loro ruolo di controllori e regolamentatori. E offrendo un discorso risolutamente anti-internazionalista, nel quale l’interesse statunitense era anteposto alle responsabilità globali di un soggetto egemone, gli Usa, ora indisponibile ad adempiere a questa funzione.
Visione e leadership: questo cercò di promettere Roosevelt in un discorso inaugurale pregno di alta, altissima retorica e scarno, come è inevitabile che fosse, di precise indicazioni politiche. Roosevelt sapeva che una epoca si stava aprendo; che un nuovo patto sociale, al cui centro sarebbero stati posti i lavoratori statunitensi (primariamente, e talora esclusivamente, bianchi e maschi), era prossimo a essere costruito; che queste politiche avrebbero dato vita a una contraddittoria coalizione politica ed elettorale, fatta di élites della East Coast, sindacati e operai, afroamericani dei grandi agglomerati urbani, bianchi segregazionisti del Sud. Sapeva che il Pubblico avrebbe avuto un ruolo centrale come agente di sviluppo e crescita, investitore, gestore di servizi essenziali nei trasporti e nelle comunicazioni, potente soggetto regolamentatore nelle dispute tra capitale e lavoro. Non sapeva però come ciò sarebbe avvenuto. Dentro questa cornice ampia e malleabile, destinata a diventare nota come “New Deal”, Roosevelt avrebbe inserito nelle settimane e nei mesi a venire iniziative governative spesso slegate le une dalle altre, testando empiricamente varie ricette, rinculando o accelerando a seconda dei risultati di questa azione e delle resistenze a essa. Ricette non di rado adattate da modelli già applicati fuori dai confini statunitensi, in uno dei tanti paradossi del New Deal e della stessa filosofia di Roosevelt: Presidente diffidente verso l’Europa, finanche “eurofobico” in alcuni suoi pregiudizi, ma pronto a fare proprie esperienze già testate altrove, dall’altra parte dell’Atlantico o anche in America Latina, in una circolazione transnazionale di expertise, idee e politiche che finiva per essere incorporata dentro un piano di riforme presentate come funzionali a un disegno di rinascita distinto e peculiarmente “americano”.

Mario Del Pero


Estratto dal discorso inaugurale di Franklin Delano Roosevelt
Washington, 4 marzo 1933


Questo è per me giorno di consacrazione alla Nazione, e sono certo che i miei concittadini americani si attendono che, sul punto di insediarmi alla Presidenza, io mi rivolga a loro col candore e con la decisione che la situazione presente del nostro popolo rendono necessari.

Ritengo che questo sia soprattutto il tempo di dire la verità, tutta la verità, con sincerità e coraggio. Non si può rifuggire, oggi, dall’affrontare onestamente le attuali condizioni del nostro paese.
Questa grande nazione saprà sopportare ancora, come ha già saputo sopportare, e saprà anche risorgere alla prosperità. Lasciate dunque che io esprima tutto la mia ferma convinzione che quanto dobbiamo soprattutto temere è di lasciarci vincere dalla paura, da quella paura senza nome, irragionevole e ingiustificata, che paralizza i movimenti necessari per trasformare una ritirata in
un’avanzata.

In tutte le ore oscure della nostra vita nazionale una guida basata sulla franchezza e sull’energia ha incontrato quella comprensione e quell’appoggio del popolo intero, che sono essenziali per giungere alla vittoria; sono convinto che, ancora una volta, voi non mancherete di sostenere coloro che debbono guidarvi in questi critici giorni.

Tali le condizioni di spirito nelle quali io e voi ci apprestiamo ad affrontare le comuni difficoltà.
Grazie al Ciclo, esse si riferiscono esclusivamente a beni materiali. I valori sono discesi a livelli fantasticamente bassi; le imposte sono cresciute; la nostra capacità di pagamento è diminuita; ogni categoria di amministrazione deve tener conto di una notevole diminuzione delle sue entrate; nelle correnti commerciali si è prodotto un vero congelamento delle possibilità di scambio; per ogni dove
si posano le foglie secche dell’iniziativa industriale; gli agricoltori non trovano mercati di sbocco per i prodotti della terra, e migliaia di famiglie hanno perduto i risparmi pazientemente accumulati in lunghi anni.

Ancora più grave è la circostanza che una folla di disoccupati si trova di fronte al tetro problema della propria esistenza, mentre un numero non minore di cittadini continua a lavorare con scarso profitto. Solamente uno sciocco ottimista potrebbe negare l’oscura realtà del momento.

Eppure le nostre sciagure non derivano da alcun fallimento sostanziale. Ne siamo colpiti da alcun flagello di locuste. Dovremmo anzi aver seri motivi di riconoscenza, ponendo mente ai pericoli vinti
dai nostri avi grazie- alla loro fede e alla loro audacia. La natura ci offre ancora le sue incalcolabili ricchezze, e gli sforzi dell’uomo sono giunti a moltiplicarle. L’abbondanza è alle soglie delle nostre
case, ma la possibilità di valercene viene meno benche questi tesori ci siano a portata di mano.

Questo accade perché quanti dominano nel campo dello scambio dei beni materiali, venuti meno
dapprima al loro compito per ostinazione ed incompetenza, ammettono poi il loro fallimento ed
abdicano alle loro responsabilità. Davanti al tribunale dell’opinione pubblica, condannati dal cuore e dalla mente degli uomini, stanno i sistemi di speculatori poco scrupolosi.

A loro difesa si potrebbe ammettere che essi hanno pur tentato di agire; ma d’altra parte si deve
dire che hanno agito seguendo schemi di tradizioni ormai superate. Di fronte al fallimento del credito, essi hanno saputo soltanto proporre di ricorrere a nuove concessioni di credito. Quando è stato loro impossibile di continuare a prospettare il miraggio del profitto per indurre il nostro popolo a seguire le loro false teorie di governo, essi hanno creduto di poter correre ai ripari con pietose esortazioni invitanti a concedere ancora la perduta fiducia. Essi non conoscono altre norme, che quelle di una generazione di difensori dei propri interessi. Non hanno alcuna larghezza di visione, e quando manca tale elemento i popoli decadono.

Questi barattatori del denaro altrui sono fuggiti dai loro alti seggi nel tempio della nostra civiltà.
Sarà ora possibile restituire questo tempio al culto delle verità antiche. E la misura più o meno vasta
di questa restaurazione dipenderà dalla proporzione nella quale verranno applicati valori sociali più
nobili di quelli del puro e semplice profitto monetario.

La felicità non consiste esclusivamente nel possesso del denaro; essa si concreta nella gioia del
raggiungimento d’uno scopo, nell’emozione data da ogni sforzo di creazione. Nella folle rincorsa dietro profitti evanescenti non si deve più dimenticare la gioia e lo stimolo morale prodotti dal lavoro. Questi giorni difficili saranno valsi il prezzo di qualsiasi sacrificio sofferto, se ci avranno insegnato che il nostro vero destino non è di sottostare rassegnatamente a tante difficoltà, ma di reagire ad esse per noi stessi e per i nostri simili.

Il riconoscere la falsità della ricchezza puramente materialistica come indice di successo procede di pari passo con l’abbandonare la falsa convinzione che i posti di alta responsabilità pubblica e politica si identificano con i fini dell’ambizione e del profitto personale. Bisogna porre fine a quella linea di condotta bancaria e commercialistica, che troppo spesso ha permesso di confondere la concessione di sacri diritti con la possibilità di perpetuare impunemente il male secondo criteri spietatamente egoistici. C’è poco da meravigliarsi di fronte alla diminuita fiducia, perché la confidenza prospera solo se alimentata dall’onestà, dal senso dell’onore, dal mantenimento delle obbligazioni assunte, da un costante spirito di protezione e da una linea di condotta invariabilmente altruistica. In mancanza di tali elementi la fiducia è destinata a morire.

Ma la ricostruzione non esige solo modificazioni di indole morale. La nostra nazione domanda di poter agire, e immediatamente. Il nostro primo grande compito è di dare lavoro al popolo. Non è
un problema insolubile, se affrontato con saggezza e coraggio. Può essere parzialmente risolto per
mezzo di ingaggi diretti da parte del governo, affrontando la questione come si affronterebbe in caso di bisogno la mobilitazione per una guerra; ma nello stesso tempo non dimenticando che tale impiego di uomini va diretto al compimento di opere di grande utilità pubblica, realizzando progetti
adatti a provocare e riorganizzare l’uso delle nostre grandi risorse nazionali.

Al tempo stesso, però, bisogna ammettere francamente che nei nostri centri industriali esiste un
eccesso di popolazione, ed in conseguenza, impegnandoci in una ridistribuzione di uomini in tutta
la nazione occorrerà tentar di provocare un migliore sfruttamento delle possibilità agricole del suolo americano, a beneficio di chi è più adatto alla coltivazione della terra. Affermo che questo compito può essere facilitato da sforzi ben precisati per giungere ad un rialzo del valore dei prodotti agricoli e quindi ad una aumentata capacità d’acquisto della produzione dei centri urbani. Può essere facilitato impedendo con mezzi pratici l’aumento delle perdite, che deriva alle nostre piccole aziende agricole da affrettate e premature sospensioni della loro attività. Può essere facilitato insistendo sull’opportunità da parte del Governo Federale, di quelli dei vari Stati e delle amministrazioni locali di fare il possibile per ridurre i gravami delle imposte. Può essere facilitato unificando attività che oggi sono inadeguate, antieconomiche e mal distribuite. Può essere facilitato per mezzo di un progetto nazionale per l’organizzazione e la sorveglianza sui trasporti, le comunicazioni e altri servizi, che hanno un carattere spiccatamente pubblico. Insomma, molti sono i mezzi per risolvere il
problema, che non verrà tuttavia mai risolto soltanto col continuare a parlarne. Occorre agire: e
dobbiamo agire rapidamente.

Infine, nel nostro progresso verso una ripresa del lavoro occorre tenere presenti due salvaguardie contro i mali del vecchio ordine di cose: bisogna esercitare una stretta sorveglianza su tutto il sistema bancario, creditizio e di investimento del denaro; bisogna finirla con le speculazioni basate
sul denaro altrui; ed è necessario prendere disposizioni per raggiungere una correntezza adeguata,
ma solida.

Tale è il programma d’azione attraverso il quale ci proponiamo di ridare l’ordine alla nostra nazione e di riportare al pareggio il suo bilancio. Le nostre relazioni commerciali con l’estero, benchè
di somma importanza, dal punto di vista dell’urgenza e quindi del tempo vengono necessariamente
in seconda linea, e non possono essere affrontate che dopo la riorganizzazione di una salda economia nazionale. Io considero sana politica l’affrontare in precedenza, quello che è per noi di primaria importanza. Farò di tutto per favorire il commercio attraverso un riassestamento dell’economia internazionale, ma le immediate necessità interne della nazione non possono attendere che questo si compia in precedenza.

L’idea fondamentale, che coordina i mezzi specifici per giungere al risanamento nazionale, non
è strettamente nazionalistica. In primo luogo essa consiste nel tener conto dell’innegabile interdipendenza di tutti i vari elementi che formano gli Stati Uniti d’America; è una specie di riconoscimento dell’antico e perennemente essenziale spirito del pioniere americano. In essa è la via della salvezza. Anzi, essa è l’immediata salvezza. Ed è la certezza che la rinascita sarà duratura.

Nel campo della politica estera vorrei indirizzare la nazione sulla via del buon vicinato, seguendo i principii di chi rispetta risolutamente sé stesso e, proprio per questo, rispetta anche i diritti degli altri. Bisogna essere come l’uomo che riconosce la santità delle proprie obbligazioni in mezzo al
mondo di tutti i suoi vicini.

Spero di interpretare fedelmente il pensiero del nostro popolo dicendo che mai prima di ora abbiamo così chiaramente realizzato la nostra interdipendenza, l’uno con l’altro; abbiamo imparato che non è lecito prendere soltanto, ma che bisogna anche saper dare; che, se vogliamo progredire, occorre marciare come un esercito fedele e ben addestrato, pronto a sacrificarsi per il trionfo della comune disciplina, perché senza tale disciplina non può esistere progresso, ne alcuna guida può dare buoni risultati. So bene che siamo pronti e disposti a sottoporre la nostra vita e le nostre ricchezze a tale disciplina perché essa consente il consolidarsi d’una linea di governo che tende a un più diffuso benessere. Questo io mi propongo d’offrire, promettendo che i più vasti obiettivi da raggiungere peseranno su noi, su tutti noi, come una sacra obbligazione, con un’unità di doveri, che sino ad oggi è stata invocata solo in tempi di guerra. Fatta questa promessa, assumo senza esitazioni il comando di quel grande esercito che è il nostro popolo, per muovere un disciplinato attacco contro i comuni problemi.

Sotto la forma di governo ereditata dai nostri avi è possibile agire in questa forma e per tale fine. La nostra Costituzione è così semplice e pratica che è sempre possibile affrontare esigenze straordinarie con adattamenti insignificanti delle sue disposizioni e senza derogare dai suoi principii essenziali. Ecco perché il nostro sistema costituzionale si è costantemente dimostrato il meccanismo più superbamente duraturo che esista nel mondo moderno. Ha resistito a ogni frangente di espansione territoriale, di guerra intestina, di relazioni col resto del mondo.

È quindi lecito sperare che il normale equilibrio tra il potere esecutivo e legislativo si dimostri in
tutto adeguato a fronteggiare l’eccezionale compito che ci attende. Ma può anche darsi che situazioni mai presentatesi in precedenza e richiedenti azione immediata possano costringere a momentanee deroghe dal normale equilibrio della pubblica procedura.

Osservando i miei doveri verso la costituzione, sono pronto a richiedere l’adozione di quelle eccezionali misure che una nazione gravemente colpita potrebbe esigere in questo mondo gravemente colpito. Tali misure, o quelle che il Congresso dovesse ricavare dalla sua esperienza e dalla sua saggezza, io cercherò, entro i limiti della mia autorità costituzionale, di portare alla più sollecita adozione.

Ma se il Congresso non volesse adottare una di queste due alternative, e se la situazione della nazione fosse ancora critica, io non mi sottrarrò alla chiara responsabilità che eventualmente mi si presentasse. Domanderei al Congresso l’ultimo mezzo che resterebbe per fronteggiare la crisi: ampi poteri esecutivi per combattere contro i pericoli del momento, poteri altrettanto ampi come quelli che mi si potrebbero dare se il nostro territorio fosse invaso da un nemico.

In cambio della fiducia avuta in me saprò dare il coraggio e la devozione che convengono al momento presente. È il meno che io possa fare.

Noi affrontiamo i difficili giorni che ci attendono, col vivo coraggio derivante dalla nostra unità
nazionale, con la chiara coscienza di voler perseguire e ritrovare gli antichi e preziosi valori morali,
con la netta soddisfazione proveniente dal compimento del proprio dovere da parte dei giovani e
dei vecchi. Nostro scopo è il raggiungimento di una vita nazionale stabilmente riordinata.

Non guardiamo con sfiducia verso l’avvenire della vera democrazia. Il popolo degli Stati Uniti non
ha tradito sé stesso. Nel momento del bisogno ha sottoscritto la richiesta di volere che si agisca sollecitamente e decisamente. Ha chiesto la disciplina e ha voluto essere guidato con sicurezza. Ha fatto di me l’attuale strumento del suo volere. Secondo lo spirito col quale il dono m’è stato fatto, io lo accetto.

In questo giorno di consacrazione alla nazione domandiamo umilmente la benedizione di Dio. Che
Egli protegga ciascuno e tutti noi. Che Egli mi guidi nei giorni venturi.



#7 | Libertà e verità: il diritto di essere eretici
Gaetano Salvemini


Lettura di Luca Rinaldi
giornalista, direttore di IrpiMedia

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Introduzione

Fra il 21 e il 25 giugno 1935 al Palais de la Mutualité di Parigi, nel Quartiere Latino, un gruppo composito di scrittori antifascisti di varie tendenze politiche, intellettuali tedeschi in esilio e uomini di cultura provenienti dall’Unione Sovietica, animò il Congrès international des écrivains pour la défense de la culture [Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura]. I loro nomi sono noti: da Gide a Brecht, da Malraux a Aldous Huxley, da Pasternak a Breton, da Babel e Eluard, insieme ai fratelli Mann, Paul Nizan, Julien Benda, Anna Seghers e molti altri. L’iniziativa incrocerà la svolta che, fra il luglio e l’agosto dello stesso anno, il Comintern, l’Internazionale comunista, avrebbe approvato durante il VII Congresso, ovvero il passaggio dalla linea cosiddetta del “socialfascismo” al progetto di fronte unico antifascista.

Obiettivo dell’incontro parigino – come si legge nell’appello che lo aveva lanciato – era quello di individuare i mezzi idonei per difendere la cultura minacciata in alcuni paesi e, a tal fine, di creare una associazione internazionale di scrittori che potesse vigilare e intervenire attivamente nelle situazioni in cui più forti si manifestavano i condizionamenti politici: programma certo ambizioso, che sfortunatamente entrerà in crisi di lì a breve per le divisioni interne alle varie anime del gruppo di fronte a nuovi avvenimenti, innanzitutto la guerra di Spagna e la formazione dei Fronti popolari.

Fra gli intervenuti al congresso vi era anche Gaetano Salvemini, storico e intellettuale in esilio negli Stati Uniti, che pronunciò un appassionato discorso che verrà pubblicato qualche giorno dopo sul giornale “Giustizia e Libertà” con il titolo Per la difesa della cultura.
Secondo Salvemini era necessario operare una distinzione fra le società borghesi – al centro di molte critiche durante le sessioni della stessa giornata – poiché non tutte erano uguali, e accomunandole si sarebbe incorsi in un grave errore politico. Difatti, precisava l’oratore, la società che costringe Heinrich Mann a fuggire (la Germania nazista) è diversa da quella che, pur rilevate “le insufficienze della libertà inglese”, consente allo scrittore E.M. Forster di continuare lì a vivere e a lavorare. Per tale ragione occorreva primariamente scagliare le potenti armi della critica contro quelle “società borghesi in cui ogni buco è ostruito e solo una cultura può svilupparsi, la cultura della menzogna”: come quando non si apprezzano l’aria e la luce finché si hanno, bisogna perdere la libertà per poterne apprezzarne il valore.

Successivamente, l’intellettuale italiano prese ad attaccare André Gide, che aveva aperto il congresso con la sua allocuzione. Salvemini denunciava la cecità di molti dei presenti e dei promotori dell’incontro nel non voler vedere che anche la patria del socialismo reale non consentiva una vera libertà, dal momento che considerava le idee difformi dal verbo di regime come pericolose e sobillatrici, e che per questo occorreva cancellare annientando l’uomo, il soggetto che le aveva pronunciate. Esplicitamente, fece riferimento al caso Victor Serge, allora detenuto negli Urali, per concludere che “in Germania ci sono i campi di concentramento, in Italia ci sono le isole penitenziarie, in Russia Sovietica c’è la Siberia. Vi sono dei proscritti tedeschi e italiani e vi sono dei proscritti russi”.

Quella di Salvemini – insieme a pochissime altre – rimase una voce di denuncia isolata in quell’assise del 1935, e provocò polemiche e reazioni assai vivaci all’interno del mondo politico e culturale. Ma da quel discorso possiamo trarre una definizione pregnante dell’impegno dell’intellettuale valida in ogni tempo e, anzi, soprattutto oggi, di estrema attualità: “L’intellettuale deve battersi contro ogni ingiustizia sociale e a fianco delle classi sfruttate che lottano per la conquista dell’uguaglianza economica, ma non deve riconoscere a nessuna dottrina il monopolio legale della verità”.

Valera Galimi


Estratto dal discorso durante il Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, Parigi, 1935


“Non mi sentirei il diritto di protestare contro la Gestapo contro l’Ovra fascista se mi sforzassi di dimenticare che esiste una polizia politica sovietica. In Germania ci sono i campi di concentramento, in Italia ci sono isole-penitenziario e nella Russia sovietica c’è la Siberia. Ci sono proscritti tedeschi e italiani e ci sono proscritti russi.

Siamo tutti d’accordo che libertà significa il diritto di essere eretici, non conformisti di fronte alla cultura ufficiale e che la cultura, in quanto creatività, sconvolge la tradizione ufficiale. Il marxismo che, nelle società borghesi, è creatività anti-ufficiale, è divenuto tradizione ufficiale nella società sovietica. La libertà di creazione nelle società borghesi di tipo non fascista è compressa. Nelle società borghesi di tipo fascista è totalmente repressa.

Altrettanto repressa è nella Russia sovietica. La Storia della rivoluzione russa di Trockij in Russia non si può leggere. È in Russia che Victor Serge è tenuto prigioniero.

Il fascismo è nemico non solo in quanto capitalistico ma in quanto totalitario. Dopo secoli di zarismo si può comprendere la necessità dello stato totalitario russo di oggi purché se ne auspichi l’evoluzione verso forme più libere, ma bisogna dirlo e non glorificarlo come l’ideale della libertà umana. L’intellettuale deve battersi contro qualunque ingiustizia sociale a fianco delle classi sfruttate che lottano per la conquista dell’eguaglianza economica, ma non deve riconoscere a nessuna dottrina il monopolio legale della verità.”

[Gaetano Salvemini, La difesa della libertà, in “Giustizia e Libertà”, II, n.26, 28 giugno 1935, poi in Gaetano Salvemini, Opere. Vol. VIII, Scritti vari (1900-1957), a cura di Giorgio Agosti e Alessandro Galante Garrone, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 668-670].


#6 | Etica della cooperazione internazionale
Johan Huizinga


Lettura di Lorenzo Kihlgren Grandi
École Polytechnique

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Introduzione

Johan Huizinga, professore presso l’università di Leiden (Olanda) dal 1915 al 1942, potrebbe essere considerato come lo storico delle transizioni, dell’emergere di nuovi modi di vivere e di pensare l’esistente. In L’Autunno del medioevo (1919) traccia la fisionomia del passaggio dal Medioevo al Rinascimento attraverso una raffinata analisi della società quattrocentesca delle Fiandre e della Borgogna. In Nell’ombra del domani (1935), tradotto in italiano come La crisi della civiltà (1937), Huizinga affronta invece quella crisi della moderna civiltà di massa innescata dalla Prima guerra mondiale. In questa prospettiva affronta la «dottrina dell’autonomia morale dello Stato». Da Machiavelli a Hegel, numerosi teorici della politica hanno sostenuto che solamente il successo, non l’etica, è il metro adeguato a giudicare uno Stato, una tesi ulteriormente rafforzata dall’affermazione di un aggressivo nazionalismo nell’Europa tra i due conflitti mondiali.

Si tratta, obietta Huizinga, di una teoria pericolosa poiché da questa «ne consegue inevitabilmente la reciproca distruzione», la fine di una qualsiasi unità che ha sempre bisogno di fiducia reciproca, cooperazione, mutuo appoggio – tutte qualità che le piante hanno e dalle quali forse si potrebbe prendere talvolta ispirazione, come suggerisce Stefano Mancuso in La nazione delle piante (2019).

 

Cooperazione, fiducia, mutuo appoggio sono parole d’ordine che emergono anche nel dibattito pubblico odierno, segnato indelebilmente dal Covid-19, un esempio di fatto sociale totale (Marcel Mauss) che sta condizionando le nostre vite a tutti i livelli. Per rispondere allo stato di emergenza al fianco di significativi episodi di solidarietà si sono verificati fenomeni allarmanti. Nei mass-media italiani e tedeschi si sono ripresentati stereotipi rispettivamente antitedeschi e antitaliani di altri tempi. La stampa italiana, inoltre, ha iniziato a raccontare la pandemia nei termini di una guerra, con un linguaggio che ho trovato a tratti francamente fin troppo militarista che sembra rimandare alla retorica del primo conflitto mondiale.

Questi discorsi non possono nascondere né che il Covid-19 rappresenti una sfida sia al mondo uscito dalla crisi finanziaria del 2008, sia alle politiche neoliberiste che hanno sistematicamente tagliato sanità e welfare negli ultimi decenni, né che le sue conseguenze pongono all’ordine del giorno una ridefinizione del rapporto tra società, tecnologia e istituzioni. All’orizzonte, infatti, si profila un complicato rapporto tra libertà individuali e salute pubblica. La gestione dell’emergenza ha restituito senza dubbio centralità all’azione governativa, ma ha messo anche in evidenza in modo quanto mai evidente il ruolo dei gruppi di pressione economica.

Storicamente le epidemie hanno stimolato l’intervento pubblico. Il colera, per esempio, portò a importanti interventi nell’igiene, nella salute pubblica e nella pianificazione urbana. Cosa provocherà il Covid-19 è ancora tutto da discutere. Molti analisti adottano senza timore il linguaggio del «nulla sarà come prima», eppure non si sono (ancora) dati significativi cambiamenti negli equilibri politici né le istituzioni hanno (ancora) saputo delineare soluzioni innovative, muovendosi al contrario in gran parte nel solco del già visto.

Infine, non è nemmeno scontato quale sarà il posto riservato nella memoria collettiva al Covid-19. Dopo aver studiato per alcuni anni la Repubblica di Weimar, solo in questi giorni di reclusione mi sono reso conto che, mentre gli spartachisti e Freikorps si sparavano addosso nel 1919, probabilmente qualcuno di loro aveva la spagnola. Dopo aver tanto riflettuto su Piazza Fontana, solo ora mi rendo conto che in quei mesi imperversava l’influenza “spaziale”.

Nel cuore degli anni Trenta, in Regna regnis lupi? Huizinga sembra avvertire di non illudersi di poter fare a meno della reciprocità. Questo vale per gli Stati, questo vale per le persone in un momento in cui è la possibilità stessa delle relazioni sociali a venir meno. In questa situazione è facile cedere alla paura, al narcisismo, all’egoismo e al cinismo, tanto individualmente, quanto collettivamente. I sentieri che si aprono sono innumerevoli – a ciascuno la scelta se procedere per una volta insieme o se essere ancora homo homini lupus.

David Bernardini


Estratto da La crisi della civiltà


Inaugurandosi solennemente una cattedra di diritto germanico, il commissario del Reich per la giustizia, ammesso che i giornali abbiano riportato correttamente le sue parole, ha fatto la seguente affermazione: «Sarebbe falso immaginare che si possa fare politica in base a una certa giustizia di stampo idealistico. Era tempo di farla finita con la puerile fantasia che stima altri fattori, all’infuori della dura necessità della sicurezza e potenza dello stato, debbano stabilire che cosa sia giustizia! La terra appartiene allo spirito eroico, mai allo spirito decadente!» Vade retro, oh decadenti, che da Platone in poi avete colmato la terra col vostro vile chiacchiericcio!

L’esistenza di un dovere morale verso uno Stato estero è dunque impossibile. «Lo Stato è lupo allo Stato», non va proferito con il sospiro del pessimista, seguendo l’antico adagio «homo homini lupus», bensì come precetto e ideale politico! Malauguratamente per questa teoria, in realtà ogni convivenza, anche quella tra bestie, si basa sulla reciproca fiducia di creature che potrebbero distruggersi l’una con l’altra. È impossibile la coesistenza di uomini o di Stati senza fiducia reciproca. Uno Stato che scriva sulla propria bandiera «non fidarti di me» – come di fatto accade alla teoria dello Stato amorale, e se al mondo accadesse realmente di scegliere questa strada – durerebbe solo qualora si rivelasse realmente il suo strapotere su tutti gli altri insieme. Così l’esito ultimo dell’assoluta autonomia nazionale è l’utopia dell’universalismo politico!

La dottrina dell’autonomia morale dello Stato, tra quelli che minacciano la civiltà europea, è indubbiamente il maggior pericolo, poiché da esso ne consegue inevitabilmente la reciproca distruzione o il reciproco esaurimento o il turbamento spirituale delle unità su cui la civiltà si fonda: ovvero gli Stati nazionali. Minaccia inoltre la vita di queste stesse unità per cause interne, in seguito all’inevitabilità del suddetto processo, secondo il quale ogni gruppo che valuti di essere abbastanza forte da acquisire terreno con la forza, può arrogare a sé il carattere di Stato che in sé contiene la dispensa da ogni dovere nei confronti degli altri.

Sull’orizzonte della potenza morale dello Stato ecco così incombere ancora una volta i due fantasmi dell’anarchia e della rivoluzione. La presunzione che lo Stato sia in grado, al suo interno, di vincolare in assoluto i propri membri alla fedeltà e all’obbedienza, ha i suoi limiti da una parte nella coscienza e, dall’altra, con non meno evidenza, nell’egoismo dell’umana natura.

La decisione assoluta su quale sia l’interesse dello Stato, e come tale interesse deve venir perseguito con l’obbligatorietà, sarà sempre presa da coloro che vengono chiamati «capi». I giuramenti di fedeltà che gli affiliati prestano loro, possiedono un valore solo in termini di fiducia, che viene riposta nella loro saggezza. Qualora nei gruppi direttivi emerga una differenza di opinione, se tale differenza si spinge oltre, fino al che i due gruppi si sentono chiamati e far prevalere la propria concezione sull’altro, il più forte o il più risoluto è costretto a vincere o liberarsi dell’avversario. Anche in questa forma, la pratica dei colpi di stato e delle rivoluzioni di palazzo, è connaturato alle caratteristiche dello stato assoluto.

Dato che la dottrina dello stato moralmente autonomo comporta la rinuncia a ogni massima di fedeltà, verità, giustizia, intese come principi umani generali, i suoi partigiani sarebbero forzati a rigettare apertamente il cristianesimo. Ma non è ciò che fanno, almeno non tutti, unanimemente o in assoluto. Pensano con Tartufo: «Il est avec le ciel des accomodements», accomodamenti benevoli, che talvolta costoro pretendono d’imporre al suddetto cielo con mano particolarmente rude.

Qui siamo di fronte a una delle forme già ricordate dall’ambivalenza del pensiero moderno o, per esprimerci più terra terra, a uno straordinario tentativo di salvare capra e cavoli. Si predica una dottrina dello Stato che contraddice il cristianesimo e ogni etica fondata su una legge morale assoluta basata sulla scienza. E allo stesso tempo si tenta di andare d’amore e d’accordo con la chiesa e con la scuola, non prima, ovviamente, di averle saldamente rinchiuse nell’armatura del nuovo Stato.

Effettivamente, questo contegno si distingue da quello del passato. Dal XVI secolo al XIX, la reciproca condotta degli Stati non è stata più morale di quanto non sia oggi. Tuttavia, perlomeno conservavano un grande rispetto per il proprio carattere schiettamente cristiano e, anzi, lo invocavano per giustificare le loro azioni. Tutto ciò, in sé, comportava indubbiamente una buona dose d’ipocrisia, ipocrisia che non cessava di essere tale solo per il fatto che essa non si esprimeva in una coscienza personale; al contrario, parlava attraverso una comunità statale. In ogni caso, la condotta politica generale restava soggetta a una dottrina, e se l’offesa arrecata all’ideale si dimostrava troppo ostentata, l’opinione pubblica non lesinava critiche, biasimando come ingiuste le azioni del proprio paese.

Molto diversa è la posizione che oggi fa sua lo Stato che si dichiara moralmente autonomo. In quanto Stato, questi fa valere la sua assoluta autonomia e indipendenza di fronte a ogni morale. Se tale stato consente alla chiesa e alla fede di vivere al suo fianco, sotto una legge morale rigorosamente formulata e vincolante, ciò non accade più su un terreno di parità, bensì attraverso la subordinazione della chiesa alla dottrina che lo Stato promuove.

Ma, domanderà il lettore incline al realismo, che cosa immaginate dunque di poter proporre come norma di valore universale per la vita dello stato, con la convinzione che possa essere applicata? Davvero vi illudete che, fino a quando esisteranno gli squilibri internazionali, gli Stati siano in grado di tenere, l’un con l’altro, la condotta dei buoni figlioli? No, a essere sinceri: la storia, la sociologia, la conoscenza dell’umana natura ci negano una tale illusione. Gli Stati continueranno innanzitutto a tenere una condotta che agevoli i propri interessi o quelli che stimano essere tali: la morale internazionale, a sua volta, a mala pena sarà in grado d’indurli a oltrepassare di un millimetro il confine di ciò che tale interesse – ovvero la paura della solidarietà internazionale – prescriverà loro. Eppure quel millimetro è quel territorio dove troviamo l’onore e la fiducia; un territorio infinitamente più ampio di alcune migliaia di miglia di volontà di potenza e di prepotenza.

I fautori dello Stato moralmente autonomo, a mio avviso sembrano dimenticare – e qui troviamo la risposta alla domanda di poc’anzi – quella caratteristica del pensiero moderno che ci consente di vedere le cose nella loro condizione contraddittoria, là dove ogni sentenza finale è sfumata da un «eppure…». Lo Stato è un’entità che, data l’imperfezione delle cose umane, si reggerà su alcune norme che non fanno parte di una morale sociale fondata sulla fiducia, né, a maggior ragione, sono quelle della fede cristiana. Eppure non gli è consentito perdere completamente di vista le norme della moralità, cristiana o sociale, poiché dall’eventuale apostasia ne conseguirebbe la sua rovina.


#5 | L’intransigenza verso il potere
Victor Serge


Lettura di Jacopo Perazzoli
Ricercatore

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Introduzione

Novembre 1947. Città del Messico
È notte. Un uomo trasandato, malnutrito, afflitto dall’angina, è in strada. Cammina con difficoltà. Riesce a fermare un taxi, sale, respira a fatica. Poco dopo muore sul sedile posteriore. Il tassista non sapendo che fare, ma nemmeno sapendo chi sia, volendo liberarsi di quel corpo ingombrante, lo deposita in un posto di polizia. Ci vorranno due giorni prima che la sua famiglia venga a sapere l’accaduto e possa recuperare la salma.
Così muore Victor Serge, nato a Bruxelles, da padre russo esiliato nel 1890, cittadino del mondo, e sempre inviso al potere.
Una figura di intellettuale contro, ma anche sempre percepito come scomodo, talmente scomodo che anche tutti i cantori delle libertà hanno fatto sempre fatica a rivendicarne il pensiero, la riflessione.
Una volta Susan Sontag si è chiesta come mai Victor Serge sia stato dimenticato, comunque abbia avuto meno fortuna e fama di George Orwell o di Arthur Koestler, o di Albert Camus, o di Ignazio Silone.
E così si risponde:
Perché è un esule e dunque nessuno può rivendicarlo appieno? Forse.
Oppure Perché non fu uno scrittore impegnato in modo discontinuo nella militanza , “bensì un attivista e un agitatore tutta la vita?” Anche.
Oppure Perché ha scritto tantissimo e la maggior parte della sua scrittura non è letteraria? Probabile.
Perché nessuna letteratura nazionale può rivendicarlo? È un’ipotesi.
E poi conclude:
“Sarà perché nella sua vita ci furono troppe dicotomie?? Fu un militante, in lotta per un mondo migliore, fino alla fine dei suoi giorni, cosa che lo rese esecrabile alla destra (…) Ma fu un anticomunista abbastanza perspicace da preoccuparsi che il governo inglese e quello americano non avessero compreso come dopo il 1945 Stalin mirasse a impadronirsi dell’intera Europa (a costo di una terza guerra mondiale). E ciò, in un’epoca in cui tra gli intellettuali dell’Europa occidentale erano diffusi i preconcetti filosovietici e la diffidenza per gli anticomunisti, fece di Serge un rinnegato, un reazionario, un guerrafondaio. Come recita un vecchio adagio, Serge seppe «scegliersi i giusti nemici»”.
Dunque un uomo solo.
Una battaglia la sua iniziata molto presto. Prima sostenitore della rivoluzione russa, ma poi già nel 1920 guardingo di fronte ai primi provvedimenti che punivano gli oppositori interni. Fino a denunciare il terrore nascente già nel1926. Scrive nel 1930:
“il dovere verso la rivoluzione è sempre duplice: bisogna difenderla all’esterno contro i suoi nemici e all’interno contro se stessa, perché essa non è mai pura, perché ha in sé dei fattori di reazione potenti e fortemente pericolosi.”
Due anni dopo finisce in Gulag, fino a che nel 1936 la mobilitazione di molti intellettuali occidentali (tra questi Gaetano Salvemini) non costringe Stalin a lasciarlo andare in esilio. Sarà l’ultimo (dopo di lui, negli anni ’70 sarà Soljenitsin) che esce con le sue gambe dal Gulag. Dopo di lui nessun altro avrà la possibilità di uscire se non completamente annichilito o morto.
Anche per quelli la sua voce si alzerà contro il terrore della dittatura fino a quel novembre 1947.
Scrive nel luglio1936, appena liberato dal Gulag e appena giunto a Parigi, un pamphlet sui capi bolscevichi fatti uccidere alcuni mesi prima da Stalin.
È forse la scena più cruda di come agisca il terrore una scena che non ha niente da invidiare a Buio a Mezzogiorno di Arthur Koestler o a1984 di George Orwell.
Scrive Serge:
“Il condannato è chiamato di notte per l’interrogatorio – è il termine consacrato per tutti gli spostamenti. Egli non sa dove sta andando, il guardiano non sa dove lo conduce. L’ascensore scende al piano terra. Lì, quando gli fanno imboccare una scala di cemento fortemente illuminata, forse capisce… Prosegue lungo un corridoio di cemento fiancheggiato da celle. Egli non sa nulla; non sapeva neanche , abitualmente, quando la Ghepeù applicava amministrativamente la pena di morte, di essere condannato a morte. Un uomo – che sa una cosa sola, e cioè che deve uccidere colui che gli viene portato – avanza con passo felpato dietro di lui e gli spara un colpo alla nuca. Gli sciacquoni si aprono, il corpo rotola in una botola o è spinto in un bugigattolo. Avanti un altro! Può darsi che non si sia che non sia neanche ritenuto necessario comunicare ai sedici la reiezione della loro domanda di grazia. Chiamati a sorpresa, prima che scadesse il rinvio legale, essi hanno capito solo all’ultimo minuto; ma in quell’ultimo minuto hanno capito tante cose; e pochi uomini sono morti con una amarezza così spaventosa – traditi e giocati … Nessun testimone; la cantina soffoca i rumori; pochi esecutori sicuri agiscono senza sapere nulla di preciso Il silenzio, il segreto.”

David Bidussa, storico


Estratto da Trent’anni dopo la Rivoluzione Russa, 1947

“Gli anni 1938-39 segnano una nuova svolta decisiva. Grazie alle «epurazioni» implacabili, si è realizzata la trasformazione delle istituzioni, così come quella dei costumi e dei quadri dello Stato ancora definito sovietico, benché non lo sia più minimamente.
Ne è scaturito un sistema perfettamente totalitario, perché i suoi dirigenti sono i padroni assoluti della vita sociale, economica, politica, spirituale del paese, mentre l’individuo e le masse non godono in realtà di nessun diritto. La condizione materiale di una percentuale che va dagli otto ai nove decimi della popolazione si è stabilizzata ad un livello molto basso. La lotta aperta con i contadini prosegue sotto forme attenuate.
Ci si rende conto che poco a poco ha trionfato una vera controrivoluzione.
Intervenendo nella guerra civile spagnola, l’URSS tenta di controllare il governo repubblicano e si oppone con i peggiori mezzi – corruzione, ricatto, repressione, assassinio – al movimento operaio che si ispira ai suoi stessi ideali di un tempo; una volta consumata la sconfitta della repubblica spagnola, non senza che Stalin vi abbia la sua gran parte di responsabilità, l’URSS viene a patti ben presto, dapprima segretamente, con il terzo Reich.
Nel momento più acuto della crisi europea, si vedono improvvisamente le due potenze, la fascista e l’antifascista, la bolscevica e l’antibolscevica, lasciar cadere le maschere e unirsi per la spartizione della Polonia. Con il consenso della Germania nazista, l’URSS estende la sua egemonia sui paesi baltici, che si sono staccati dalla Russia durante le lotte del 1917-19. Questo voltafaccia di politica internazionale si spiega, da parte russa, solo per gli interessi di una casta dirigente avida e inquieta, ridotta ad una capitolazione morale di fronte al terzo Reich, di cui essa teme soprattutto la superiorità tecnica. Le somiglianze interne tra le due dittature hanno facilitato molto questa capitolazione”.


#4 | Per una democrazia dei diritti
Ferruccio Parri


Lettura di Igiaba Scego
Scrittrice

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Introduzione

La situazione attuale è straordinaria, senza precedenti. La guerra e la ricostruzione possono reggere solo parzialmente come precedente cui far riferimento e trarre ispirazione. Eppure, la comparazione e il confronto nascono spontanei visto che in tali circostanze neanche la memoria può celebrarsi come merita. Il 25 aprile di settantacinque anni fa l’Italia veniva liberata dal fascismo e dall’occupazione tedesca. Gli uomini e le donne impegnati nella Resistenza avevano il difficile quanto necessario compito di ricostruire il Paese. Rileggendo stralci degli scritti di Ferruccio Parri, come mi è stato chiesto, il parallelismo con l’oggi salta subito agli occhi. Una grande questione sociale si poneva allora come si pone oggi: il lavoro, la scuola, la sanità, gli aspetti psicologici in ballo in una situazione di crisi. In una parola: la politica. Se si cerca di “operazionalizzare”, di rendere concreto e più facilmente comprensibile il senso della politica, bisogna pensarla come la madre di tutte le cose: l’economia, la scienza, l’arte, la vita. In effetti, la politica altro non è che la forma di gestione di comunità organizzate. E la politica non è cosa astratta soprattutto perché la fanno gli attori in campo.

I partiti politici sono i principali attori dei sistemi politici democratici e se l’Italia può rientrare tra questi, lo dobbiamo proprio ai tanti che si organizzarono per resistere all’oppressore fascista che di questi corpi intermedi, fondamentali per l’organizzazione della società, aveva fatto piazza pulita.
Vorrei sottolineare principalmente due aspetti che emergono, a mio avviso, dall’analogia dell’odierna situazione con quella che si palesava all’indomani della Liberazione d’Italia.

Il primo aspetto traccia una stretta simmetria tra le due situazioni. Nel suo discorso di apertura dei lavori della Consulta il 26 settembre del 1945, Parri fa appello proprio ai partiti per la ricostruzione post-guerra e per la definizione di un governo democratico. Oggi questo appello avrebbe degli uditori (pronti e attenti)?
In parte sì e in parte no. Nell’attuale situazione di pandemia, la gestione della “cosa pubblica” sembra più in mano alle persone che alle organizzazioni, al singolo più che al collettivo. In Italia si sono succeduti Decreti del Presidente del Consiglio (DPCM) e quindi atti amministrativi anziché leggi, fonti di rango primario, che avessero l’avallo della maggioranza parlamentare, ma soprattutto che consentissero la discussione collegiale di tali provvedimenti. Efficienza e partecipazione sono sempre difficili da conciliare e spesso la tendenza oligarchica e/o personalista rappresenta la meccanica più facile a cui propendere. Soprattutto se i canali di partecipazione democratica non sono reattivi o, comunque, sono mutati perdendo, tra gli altri, il loro tradizionale ruolo di organizzazione delle domande provenienti dalla società civile. Inoltre, se pensiamo all’Italia del secondo dopoguerra, notiamo immediatamente che il ruolo dei partiti allora fu centrale, non solo nell’organizzazione della Resistenza e della Liberazione, ma anche nel momento “costituente”. Le parole di Parri testimoniano la crucialità del ruolo e dell’azione dei partiti nel guidare la ricostruzione. Oggi, invece, decisivo appare il ruolo dei comitati di tecnocrati e del primo ministro che li nomina e se ne circonda, mentre il peso dei partiti nella gestione dell’emergenza sembra un peso piuma, con poche capacità di determinare l’agenda politica e con la quasi totale delega ai tecnici nel prendere decisioni che la politica dovrebbe assumersi, consultando tecnici e scienziati.

Un secondo punto riguarda l’aspetto dissonante dell’analogia: se nel ’45 si doveva ricostruire, ora si deve ripartire. Non si tratta di sottigliezza linguistica. Un’epidemia globale non è la stessa e identica cosa di una guerra mondiale. Infatti, sia per ricostruire che per ripartire si dovrebbe stare vicini, lavorare l’uno accanto all’altro, spostarsi anche con mezzi pubblici, far circolare con facilità le merci, poter riprendere la vita sociale, andare al ristorante o in libreria piuttosto che partecipare ad un dibattito pubblico o ad una manifestazione. Ma, mentre dopo una guerra senza epidemia ciò è possibile, in caso di epidemia non lo è. In tal senso, non è trascurabile la misura del “distanziamento sociale” per evitare il contagio dinanzi ad un virus – il COVID19- che è un nemico assai più incalzante e agguerrito di un’armata. La tutela delle vite umane è la cosa più importante, ma non ce ne possiamo ricordare solo mentre siamo di fronte alla morte, costringendo di fatto milioni di persone a scegliere tra il lavoro e la salute, tra la morte per fame e quella per malattia, senza contare i disagi psichici della reclusione e quelli di chi un posto dove stare “recluso” non ce l’ha oppure non è sicuro.
Se il compito dei costituenti fu quello di determinare le condizioni perché potesse svilupparsi uno stato democratico, impegnandosi- come Parri sostiene- a ripulire le istituzioni epurandole dai fascisti e ricostruendo le basi economiche di un paese devastato; il compito che spetta a tutti noi oggi (non solo ai governanti, beninteso) è quello di ripensare davvero alla democrazia e ai suoi attori. È chiaro che, senza un coinvolgimento attivo e protagonista di tutti, le libertà personali e collettive (se pensiamo, ad esempio, al diritto di sciopero o di dissentire in qualche forma pubblica) saranno per sempre minate dalle misure emergenziali e i rapporti di forza nonché l’accentramento dei poteri, accettati e tollerati in un momento del genere anche se con difficoltà e sacrificio, nella “normalità” sono insostenibili.
In conclusione, sarà necessario ritrovare lo spirito che ha accompagnato il popolo italiano nella Resistenza e nella costruzione di una democrazia.

Se l’appello che Parri rivolge, alla fine del suo discorso alla Consulta, ai partiti affinché questi cerchino la strada della collaborazione, del consenso e della mediazione era probabilmente opportuno per il bene del Paese e per dare vita alla Costituente; ai giorni nostri si potrebbe chiedere ai partiti di svolgere quel lavoro di rappresentanza della società civile in parlamento, esercitando pure lo spirito della democrazia e del confronto partitico. Per ripartire, in questo caso, ci serviranno anche il dissenso e la polemica affinché il ritorno alla normalità non sia più lo status quo ante che ci ha portato ad una gestione dell’emergenza sanitaria non del tutto democratica ed egualitaria né immune da critiche. Dopo tutto, il Polemos è padre di tutte le cose!</ blockquote>


Raffaella Fittipaldi
Ricercatrice


Estratto da E’ in gioco l’avvenire , 26 settembre del 1945


Il governo ed io faremo quanto è umanamente possibile per garantire la libertà, la legalità e l’espressione della volontà popolare; ma sono i partiti che hanno interesse specifico, interesse massimo a che il risultato della consultazione, a che la legalità della elezione sia incontestabile, e sia incontestabile la loro eventuale vittoria. Ed è a loro, pertanto, che io rivolgo l’appello mio, del governo, del paese perché intendano questa necessità di disciplina, che è naturalmente, necessariamente, autolimitazione.

Ora voi vedete il momento psicologico politico. Vi è una marea incomposta di malcontento che sale contro il governo, contro il regime dei partiti, ed è fenomeno di cui non ci si deve meravigliare, perché è un fenomeno naturale, fisiologico della situazione italiana, con tante miserie e tanti dolori e tante inquietudini ed un così diffuso stato di insicurezza, ed aggiungiamo di interessi travolti dall’antifascismo. Aggiungiamo i delusi, gli spostati, gli avventurieri; e mettiamo in conto lo spirito di rancore e di vendetta dei colpiti, talché capita di assistere a un processo di inversione, per cui i rei finiscono per giudicare i giudici. E su questa situazione si inseriscono le passioni e gli interessi di parte, gli interessi politici; questi malumori si coagulano, e tentano di associarsi in lega.

Questo deve allarmare? Io non credo. Alla propaganda rispondiamo con la propaganda, e l’avventura, se tentasse la sorte, troverebbe una decisa risposta. (Bene!) Ma quello che vi deve interessare di fronte a questa situazione di incertezza e che più vi deve stare a cuore è quella che io chiamo la causa democratica.

Tenete presente: da noi la democrazia è praticamente appena agli inizi. Io non so, non credo che si possano definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo.

Non vorrei offendere con queste mie parole quei regimi. (Commenti, interruzioni, rumori)

Mi rincresce che la mia definizione sia male accetta. Intendevo dire questo: democratico ha un significato preciso, direi tecnico. Quelli erano regimi che possiamo definire e ritenere liberali.

Bencivenga: Vogliamo la libertà di stampa! (Commenti, rumori, grida di: Viva Parri! (vivissimi prolungati applausi)

Parri: Nessuno più di me si associa al saluto ed all’applauso verso l’on. Orlando.

Presidente: Ricordo alla Consulta di considerare che il paese intero attende da essa un esempio di lavoro, di concordia e di disciplina. (Vivissime approvazioni)

Parri: Questi incidenti dimostrano come sia difficile pensare ad un regime democratico e quanta strada ci rimanga ancora da compiere (approvazioni), prima che si realizzi una vera sensibilità democratica nella vita politica italiana.

Noi – mi riferisco ai partiti del governo – in questi mesi, nelle prossime lotte elettorali, avremo soprattutto di mira l’avvenire del paese. Non possiamo volere che si perda quel non molto che la lotta antifascista ha dato a tutti noi, ha dato a tutti i partiti della nostra coalizione. Non vogliamo, non possiamo – mi rivolgo ai partiti amici – non possiamo volere che a grado a grado, uno per uno, ci si impantani, ci si invischi, ci si soffochi, né che si debba ritornare a regimi di letargo o a regimi senza libertà e quindi senza giustizia.

Non è in gioco l’avvenire dei partiti singoli. Periscano. i partiti, purché si salvi il paese! (Vivissimi applausi)

È in gioco l’avvenire, il corso della nostra storia, ed io non posso terminare senza rivolgervi questo appello di amico, questo appello di compagno: di cercare le ragioni del consenso e non quelle del dissenso, di provare le possibilità dell’incontro, e cioè della mediazione (applausi), di dimettere l’angusto spirito della tribù, di lasciar cadere le acidità polemiche e di unirci in uno sforzo consapevole di collaborazione, la quale ci permetta di raggiungere la meta della Costituente, che è la ragione della nostra presenza qui. (Vivissimi prolungati applausi)

Raffaella Fittipaldi

 

 


#3 | Partecipazione e governo dal basso
Vittorio Foa


Lettura di Davide Agazzi
Esperto di politiche pubbliche e attivista

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Introduzione

Il testo proposto (pubblicato, non casualmente in “Comunità”, la rivista fondata da Adriano Olivetti) appartiene al periodo di militanza di Foa nel Partito d’Azione e appare fortemente influenzato, nella sua polemica contro i partiti come “macchine politiche”, dal pensiero di Carlo Rosselli e di Gaetano Salvemini. Per Foa, come per i suoi riferimenti, ma ulteriormente rafforzato dall’esperienza della Resistenza, esiste uno stretto legame tra rivoluzione, libertà e democrazia e il tentativo (sostanzialmente fallito con l’azionismo) di creare un modello di partito diverso dal partito-chiesa, privilegiando invece le esperienze di “governo dal basso”. In questa ottica, la democrazia non è solo un sistema di garanzie, ma anche, e soprattutto, partecipazione, superando quello che, tre anni prima, aveva definito «lo scetticismo di larghi strati della popolazione a decidere in modo autonomo il loro destino collettivo», una mentalità in cui individuava una delle radici del fascismo (Che cosa è il CLN, Quaderni dell’Italia libera, ottobre 1943). Come scriverà molti anni dopo, nella sua bellissima autobiografia, Il cavallo e la torre, «nei limiti del possibile la libertà si conquista praticandola». Una convinzione che Foa tentò di portare, dopo la fine del Partito d’Azione, nel suo lavoro di sindacalista, attraverso il contatto quotidiano con la realtà delle lotte dei lavoratori.

Contemporaneamente, da militante socialista, sottolineava la necessità di ripensare una democrazia «nella quale i sindacati, e le altre organizzazioni di interesse, abbiano pienezza di espressione politica, nella quale il pensiero creativo non sia passivo strumento di una volontà predeterminata, ma esprima la realtà con tutte le sue luci e anche con tutte le sue ombre» (Unità socialista e democrazia socialista, in “Mondo operaio”, gennaio 1957, pp. 21-23).. Un problema, quello del rapporto tra autonomia (della politica e del lavoro) e democrazia, che assillerà Foa per tutto il corso della sua lunga vita, portandolo a confrontarsi, partendo da questa tematica di fondo, con questioni sempre diverse tra loro, come ad esempio, negli anni ’60, la realtà del neocapitalismo e dello sviluppo tecnologico, di fronte alla quale affermava la necessità dell’unità dei lavoratori e della ricostruzione dell’internazionalismo, con la speranza che questo processo «non si esaurisca in un confronto fra i partiti, ma tragga alimento diretto dai problemi della società, abbia suo criterio di discriminazione l’alternativa fra autonomia e subordinazione del movimento operaio» (Il movimento operaio e le contraddizioni attuali del processo capitalistico, in AA.VV., Classe operaia, partiti politici e socialismo nella prospettiva italiana, Feltrinelli, Milano 1966, p. 78).

Sono affermazioni che costituiranno la base della condanna, da parte di Foa, dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia e dell’appoggio alle lotte studentesche e operaie del ’68. Molti di questi temi riemersero nell’ultima fase della sua vita, dedicata alla riflessione e allo studio, anche se in una nuova prospettiva, con una particolare enfasi per certi versi, sia pure non esplicitamente, autocritica sulla complessità della dimensione del lavoro e sul valore “ritrovato” del tempo, sulla necessità di riappropriarsene, anche in una dimensione di lavoro libero e creativo (cfr. ad esempio La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi del Primo Novecento, Einaudi, Torino 2009, pp. 20-30. La prima edizione, presso Rosenberg e Sellier, Torino, è però del 1985). Dopo l’89, anche il concetto di “autonomia” viene ripensato in un contesto più ampio, quello del rapporto tra Stato nazionale e ordine sovranazionale. Per Foa (lo scrive nel 1997…) «non è la ripresa degli odi etnici a mettere in pericolo la costruzione europea. I conflitti che vengono avanti sono dentro lo stesso successo dell’Europa unita e nascono dalle periferie che si sentono fuori gioco, non partecipi alla costruzione». Il pericolo del vuoto di rappresentanza può essere colmato solo da una riproposta dell’autonomia, del federalismo, di «un’autodeterminazione che non leda i diritti altrui». È questa la sfida, dopo la fine del comunismo e la crisi della socialdemocrazia, per l’unico socialismo possibile, quello libertario, che rivendica democrazia e redistribuzione dei redditi, ma pone al centro del quadro «l’autonomia del lavoro, l’autodeterminazione del lavoratore, la sua possibilità di intervenire sul suo lavoro, sulla sua vita» (Socialismo e autonomia, conversazione con Pino Ferraris in “Parolechiave”, n. 14-15, dicembre 1997, pp. 19-21).


Giovanni Scirocco
Università degli Studi di Bergamo


Estratto da Le autonomie e le macchine politiche
[in “Comunità”, n. 6, ottobre 1946]


“… non occorre spendere molte parole per lumeggiare le difficoltà che questa struttura democratica fondata su partiti macchine, a struttura gerarchica, ciascuno chiuso in sé come una milizia, oppone a un rinnovamento concreto in senso autonomistico.
Finché la principale preoccupazione dei partiti è quella di rafforzarsi come strumenti di azione anziché come organi di opinione, è comprensibile che, quali che siano le loro formulazioni propagandistiche, essi siano intimamente ostili a un ordinamento di autonomie che sposterebbe l’accento e il centro di formazione della volontà collettiva nel seno di comunanze di interessi e di idee di enti territoriali, invece di tenersi, come a loro conviene, in sede di adesione disciplinare a una élite politica. I partiti si sono foggiati centralisticamente, per adeguarsi alla forma dello stato che essi si propongono di influenzare e conquistare,
[…]
Eppure, non vi è ragione di disperare. L’attuale struttura democratica non può alla lunga apparire soddisfacente a quelli stessi che oggi la difendono e cercano persino di giustificarla teoricamente. Non è impossibile che gli stessi partiti, magari attraverso qualche amara esperienza, finiscano col rendersi conto della fragilità di una struttura statale fondata su macchine politiche, cioè su un compromesso fra formazioni intrinsecamente totalitarie”.

 

 


#2 | La politica, oltre la critica morale
       Felice Cavallotti


Lettura di Rosa Fioravante
Ricercatrice Università degli Studi di Urbino

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Introduzione

A metà degli anni novanta del XIX secolo l’opinione pubblica italiana si divise se dar retta al «deputato calunniatore» o concedere ancora fiducia al «ministro disonesto»; ossia se credere alle accuse di concussione, corruzione, millantato credito e bigamia che il parlamentare dell’opposizione Felice Cavallotti lanciava al premier italiano ormai da qualche anno e in ogni contesto – stampa, meetings, Parlamento – oppure concedere a Francesco Crispi, tipica incarnazione di un autoperpetuantesi potere all’italiana, una ulteriore presunzione d’innocenza in attesa del normato operare della giustizia. Una scelta di parte, peraltro spesso frequente nella storia del nostro paese.

Cavallotti lanciò il suo j’accuse definitivo il 15 giugno 1895 con questa lettera aperta pubblicata contemporaneamente sulle pagine di due giornali: il milanese “Il Secolo” e il romano “Don Chisciotte” (e già dal titolo della testata capitolina si poteva intuire il concreto successo dell’operazione-verità….). Brandendo ormai da tempo l’arma della “questione morale” il «Bardo della democrazia» – questo era l’enfatico soprannome – si era ritagliato un ruolo di primo piano quale fustigatore di una classe politica autoreferenziale nel riproporsi immutata; emblematico, ad esempio, è il suo giudizio sul “trasformismo” di depretisiana pratica, definito una «putredine» da estirpare immediatamente per lo svilupparsi politico del neonato Stato italiano secondo le sicure direttrici dell’onestà e della giustizia.

Se il successo mediatico della Lettera fu travolgente – gli italiani si appassionarono alle roventi accuse contenute – quello politico fu pressoché nullo: Crispi abbandonò il potere l’anno successivo per il disastro di Adua, e non certo per le querele di Cavallotti, che pur aveva affidato il destino politico e giudiziario del primo ministro «al giudizio degli onesti». Per far presa immediata sui lettori Cavallotti aveva avuto gioco facile nel contrapporsi quale uomo comune, «il fantaccino di Milazzo», il giovane volontario al seguito dei Mille, all’esponente di una presunta élite politica i cui meriti erano da verificare, a chi si era pomposamente definito «glorioso sostitutor di Garibaldi» senza averne il prestigio e il carisma. Lo schema cavallottiano, un classico destinato a ripetersi, prevedeva la rivincita degli umili-onesti sui potenti-millantatori.

Ex garibaldino, scrittore scapigliato, amante di gesti generosi quanti teatrali (quale l’accorrere a dare il proprio aiuto alla popolazione napoletana durante l’epidemia di colera del 1884) Cavallotti interpretava l’agire politico secondo la propria intensa passionalità a prescindere dal risultato concreto; atteggiamento che, fra denunce e querele, lo portò a sostenere ben 34 duelli (quando i duelli erano vietati da quella stessa legge a cui continuamente si richiamava) di cui l’ultimo gli risultò fatale. Al suo funerale, il 9 marzo 1898, Filippo Turati lo definì «l’ultimo», intendendo come con la sua scomparsa si fosse chiusa definitivamente una pagina della storia politica italiana; solo qualche mese dopo arrivarono però le cannonate di Bava Beccaris a riannodare il filo degli avvenimenti, a ricordare chi, e come, comandava.

Nicola Del Corno
Università degli Studi di Milano


Estratto dal testo


“Scrivo queste pagine con disgusto, con rivolta dell’anima: ma le scrivo colla coscienza serena, dopoché per più giorni, tentando il possibile, resistendo a provocazioni che avrebbero stancata la pazienza di un santo, ho sperato di evitare a me stesso la fatica amara di doverle scrivere. Tentativo di speranza di cui nessun merito avrei, se proseguissi un qualunque interesse mio o mi tentasse qualsiasi povera ambizione: perché sol chi vuol salire, naturalmente desidera trovar meno aspri i gradini. Ma, finito appena sia il compito, che verso il Paese m’imposi, so di poter dimostrare la mia ambizione sola qual era, e invoco l’ora di poter in altr’aria, fra ben altre memorie, rifarmi dell’aria respirata fin qui.

Ho sperato più giorni si aprisse qualche porta per cui s’uscisse dalla situazione convulsa, impossibile, creata al Paese e alla Camera, senza bisogno dì farmi sembrare cattivo. E dico impossibile, perché non serve dir ad un altro paese, come dire ad un uomo, di lavorare, di attendere utilmente ai propri interessi di casa, se non ha il cuore in pace, se ha una spina confittavi, se un martello nell’animo gli manda sossopra le idee. E inutile pretendere che un’assemblea rappresentativa funzioni, se vi son dentro cento o centocinquanta persone tormentate dal sospetto o dal convincimento di trovarsi in faccia ad un ministro disonesto. La tempesta di animi che impedisce alla Camera, al Paese, ogni utile lavoro proseguirà, finché la pietra dello scandalo non sia rimossa.
[…]
Ora io riapro il Codice Penale e nel titolo delitti contro la fede pubblica trovo all’art. 276 che il pubblico ufficiale (mettiamo che sia tale… il Presidente del Consiglio!) “che ricevendo o firmando un atto, nell’esercizio delle sue funzioni, attesta come veri fatti e dichiarazioni non conformi a verità, od omette o altera (come sarebbe, nevvero? inventare una firma) le dichiarazioni ricevute, ove ne possa derivare pubblico o privato nocumento è punito con la pena dell’articolo precedente” cioè con la reclusione da cinque a dodici anni.

Altro che nocumento! quante centinaia di anni di galera di più costarono quei documenti falsi presentati dal signor Crispi come ministro, e fatti scrivere negli Atti ufficiali della Camera, per carpirle un voto!

Voi mi dite che alla reclusione il Crispi non ci va – né per dodici anni, né per cinque – perché si tratta, anche per lui, di un reato che è coperto dall’immunità parlamentare: ringrazi dunque la sua buona stella e la suprema Corte di Cassazione che quella immunità l’ha fatta valere, altrimenti vede a che guaio, colle sue teorie, andava incontro! E come si troverebbe a mal partito con chi gli adoperasse il grande argomento de’ suoi scribi, e gli chiedesse: ma è lecito servirsi del manto dell’immunità per diffamare, non già un solo cittadino né due, ma centinaia, e adoperare carte false per mandarli al reclusorio?

Ma le son cose del febbraio dell’anno scorso! Son passati quindici mesi! cose vecchie! Vogliamo una qualche complicità in falso più fresca, più fresca ancora!

Siete proprio incontentabili.
[…]
E ho voluto nella prova abbondare: lasciando pel giudizio, a cui Crispi non può più sottrarsi, il rimanente. So bene che, se tutto questo è non solo bastante, ma esuberante pei galantuomini, non basterà mai per i disgraziati, che servono Crispi a stipendio (con pubblico furto) da quindicimila lire al mese in giù; non servirà per coloro cui lega a Crispi la triste non frangibile solidarietà dell’interesse e della colpa: non basterà, non può bastare per deplorati come lui, benché meno aggravati di lui, dei quali Francesco Crispi ha dovuto alle urne farsi paladino – combattendo a morte i loro giudici – e dei quali ha dovuto farsi nella Camera la guardia del corpo, la sua guardia di onore.

Ma non tutti fra coloro nella Camera e fuori, che hanno creduto, non conoscendolo, in lui, non tutti a lui sono legati da solidarietà di quel genere: sono pur fra essi uomini di cuore, onest’uomini e gentiluomini. Per questi soltanto ho parlato e per tutti quelli che nelle mie file o in file diverse di qualsiasi partito, hanno invocato la tregua di Dio sul terreno, ove tutti i cuori onesti si incontrano. E ho parlato per la pubblica coscienza, la quale, infallibile giudice, sa distinguere il linguaggio del galantuomo indignato da quello del libellista, il linguaggio del vero da quello della menzogna – e alla quale mi presento serenamente colla fronte alta di chi compie un dovere.”

Roma, 15 giugno 1895

 

 


#1 | Il ruolo dello Stato e la fine del laissez-faire
       John Maynard Keynes


Lettura di Massimiliano Tarantino
Direttore di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

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Il testo che segue è tratto da un saggio che Keynes pubblica nel luglio 1926 con il titolo Fine del Laissez faire. Non è un testo che nasce improvvisamente. Keynes ne ha esposto le linee essenziali in due conferenze, una tenuta a Oxford nel Novembre 1924 e una tenuta all’Università di Berlino nel giugno 1926.

Le premesse sono in un intervento che pubblica nel maggio 1924 dal titolo “Does Unemployment need a drastic remedy? sul periodico “Nation and Athenaeum” in risposta a Lloyd George che leader dei liberali, che chiedeva il ritorno alle politiche liberiste. La risposta di Keynes è diritta alla questione.

“Ed eccoci alla mia eresia – scrive nel 1924 – se di eresia si tratta. Io porto in scena lo Stato, abbandono il laissez faire, non con entusiasmo, non per disprezzo di quella buona e vecchia dottrina, ma perché piaccia o no, le condizioni del suo successo sono sparite.

Era una dottrina ambigua: affidava il benessere pubblico all’impresa privata senza freni e senza aiuti. Tornare indietro è qui impossibile. Per queste ragioni sostengo che i prossimi sviluppi politico-economici nasceranno dai nuovi esperimenti volti a determinare le sfere proprie dell’azione individuale e dell’azione governativa”.

Non è dunque una ricetta quella che propone Keynes. È, più laicamente, un invito a pensare consapevole. La convinzione è che solo pensando futuro si poteva dare un ordine al presente e fare i conti, di nuovo laicamente, con il passato senza rivendicare primati o intuizioni, ma provando.

Un principio che in altro contesto, in una diversa parte culturale, in tempi lontani da quegli inquieti anni ’20, ma con gli occhi a come spesso i tempi di crisi siano le occasioni per provare a innovare, avrebbe proposto Vittorio Foa con la formula «nostalgia del futuro»: lasciare le cose care, per cercare.


Estratto dal testo


Vengo poi ad un criterio di agenda che è particolarmente rilevante su ciò che è urgente e desiderabile fare nel prossimo futuro. Dobbiamo tendere a separare quei servizi che sono tecnicamente sociali da quelli che sono tecnicamente individuali. L’azione più importante dello Stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno compie se non vengono compiute dallo Stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto.

Non rientra nei limiti dei miei intendimenti sviluppare in questa occasione politiche pratiche. Mi limito perciò a nominare alcuni esempi di ciò che io intendo, scelti fra quei problemi sui quali mi è capitato d’aver ragionato di più.

Molti dei maggiori mali economici del nostro tempo sono frutto del rischio, dell’incertezza e dell’ignoranza. È perché certi individui, fortunati in situazione o in abilità, sono in grado di trarre vantaggio dall’incertezza e dall’ignoranza, ed anche perché i grossi affari sono spesso una lotteria, che si creano grandi diseguaglianze di ricchezza; e questi stessi fattori sono pure causa della disoccupazione dei lavoratori o della delusione di ragionevoli aspettative commerciali e della caduta di efficienza e di produzione. Tuttavia, la cura è al di fuori dell’operato degli individui; può essere nell’interesse degli individui persino di aggravare il male. Credo che la cura per tali cose si debba cercare in parte nel controllo deliberato della moneta e del credito da parte di un’istituzione centrale e in parte nella raccolta e nella diffusione su vasta scala di dati riferentisi alla situazione commerciale, compresa la piena pubblicità, obbligatoria per legge se necessario, di tutti i fatti commerciali che sia utile conoscere. Queste misure porterebbero la società ad esercitare una intelligenza direttiva attraverso alcuni organi appositi di azione su molte delle intime complicazioni delle aziende private; e tuttavia lascerebbero intatta l’iniziativa privata. Anche se queste misure si dimostrassero insufficienti, ciò non di meno ci fornirebbero una miglior cognizione di quanta ne abbiamo ora per compiere il passo successivo.

Il mio secondo esempio si riferisce al risparmio ed agli investimenti. Credo sia opportuna una certa azione coordinata di giudizio intelligente circa la misura in cui è desiderabile che la comunità nel suo complesso risparmi, la misura in cui questi risparmi debbano andare all’estero sotto forma di investimenti e la questione se l’organizzazione presente del mercato degli investimenti distribuisca i risparmi lungo i canali più produttivi dal punto di vista nazionale. Non credo che questi argomenti debbano lasciarsi interamente all’arbitrio del giudizio privato e dei profitti privati, come sono presentemente.

Il mio terzo esempio concerne la popolazione. È già venuto il tempo in cui ogni paese richiede una ponderata politica nazionale circa la questione di quale volume di popolazione – se maggiore, eguale o minore dell’attuale – sia più opportuno. E, una volta stabilita questa politica, si devono fare dei passi per metterla in atto. Può venire il tempo in seguito, in cui la comunità nel suo complesso debba dedicare attenzione alla qualità intrinseca oltre che al semplice ammontare dei suoi membri futuri.

 

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