La distanza sociale, l’imposizione di divieti e regole legati all’emergenza sanitaria, lo sconvolgimento economico che già si registra ad un mese dai primi provvedimenti, ci costringono tutti, cittadini e istituzioni, a ridefinire non solo il nostro sistema di relazioni, ma anche i significati che da sempre assegniamo alle attività, ai compiti e agli istituti sociali, specie quelli che abbiamo sinora dati per scontati nella loro continuità.
Per certi versi costringe anche me, come Assessore alla scuola impegnata sul fronte della lotta alla dispersione, a ripensare e rivisitare in modo costruttivo e critico il senso stesso di questa riflessione, destinata originariamente al ruolo delle alleanze educative per contrastare la povertà educativa.
E’ innegabile: è in atto una vera e propria rivoluzione, che investe anche il rapporto della società con la scuola, che – come presidio chiave della Repubblica – si è trovata da un giorno all’altro “sospesa” e scissa tra la consapevolezza dell’essere essenziale e la necessità di reinventarsi in modalità e forme a cui nessuno – al di là di quel che sostengono poche avanguardie avanzate – era davvero preparato. Tutte le comunità educanti sono coinvolte in un processo di messa in discussione che merita attente riflessioni in itinere, per i cambiamenti che quel che sta accadendo indurrà nel futuro anche prossimo, quando l’emergenza sarà finita e bisognerà saper rielaborare, con la dovuta distanza e con una buona dose di umiltà, le esperienze di questi mesi.
Altrettanto complessa la ridefinizione del rapporto tra i servizi che il Comune garantisce alle fasce deboli e ai minori in età scolare e prescolare e la necessità di sospensione degli stessi ai fini della tutela sanitaria. Quali conseguenze sta avendo e avrà sul contrasto alla povertà educativa questo periodo, in cui convulsamente, in modo a volte disordinato, a volte più sistematico, ma in ogni caso frammentato a livello locale e nazionale, le politiche destinate a prevenire e contrastare la “geografia della distanza sociale” si stanno riconvertendo in azioni che devono far leva proprio sul rispetto della distanza tra le persone e dell’isolamento delle persone?
La prima riflessione di carattere generale: si è rafforzata in tutti la certezza che la scuola e i servizi educativi costituiscano una infrastruttura sociale dominante, spazio nel quale si scandisce il tempo della vita in modo determinante tanto per i ragazzi, che, condannati nello spazio ristretto delle loro case, ci appaiono quasi scomparsi dal cruscotto delle priorità sociali, quanto per gli adulti che, una volta superata l’ansia delle difficoltà di organizzazione familiare, si ritrovano a verificare con angoscia la perdita subita e a fare i conti con le gravose conseguenze non solo in termini di aiuto e supporto materiale, ma anche di solidità dei legami e di capacità di affrontare la complessità del quotidiano.
Si aggiunga, sempre in termini generali, che il momento ha messo a nudo finalmente le ambiguità di cui è stato intriso negli ultimi anni il ragionamento che vedeva nel digital divide uno degli elementi di debolezza delle istituzioni educative nazionali rispetto alle nuove generazioni. Per anni si è ragionato del rapporto tra i saperi della scuola , obsoleti e distanti, e la cultura della società, in cui i nostri bambini e ragazzi apparivano immersi in un flusso naturale di saperi informali mediati dai social e dalle tecnologie, che li rendeva impermeabili al mondo della scuola, alla sua fissità spazio-temporale; era questa che li allontanava da sé, secondo molti, con le proprie ritualità stanche e li disperdeva, li abbandonava a se stessi perché incapace di intercettare le loro intelligenze emotive ascoltandone i “veri” bisogni, o utilizzando i loro linguaggi. La scuola è lontana dalle esigenze dei ragazzi, materiali, culturali ed emotivi – si è detto spesso; la scuola è sconfitta perché portatrice del vecchio mondo, di saperi astratti, ed è perdente di fronte ai disvalori o nuovi valori della società contemporanea; la scuola non ha più nulla da offrire né in termini di ascensione sociale né di formazione di competenze per la vita, competenze pratiche, del fare, della società della produzione. Questo è solo un parziale elenco dei discorsi con cui nel dibattito pubblico ci si è dovuti negli ultimi venti anni confrontare, anche in relazione al tema delle fragilità educative. Ah, si diceva, se la scuola si aprisse a nuovi ritmi e nuovi strumenti, se si abbandonassero le prassi solidificate e si cedesse il passo ad una ipermedialità che ci avvicina alle giovani generazioni, anche i ragazzi più difficili potrebbero essere intercettati, salvati, promossi socialmente e culturalmente.
A chi timidamente metteva in campo l’idea che non si trattasse tanto o solo di cambiare i contenuti ma di agire a monte del contenitore, data la dimensione multifattoriale del disagio di cui i ragazzi cosiddetti “a rischio” erano portatori, per confrontarsi piuttosto con le cause e con il variegato mondo della disuguaglianza, che costituisce il problema dei problemi nelle società avanzate e neoliberiste, gli apologeti della scuola 4.0 hanno spesso proposto ricette varie, metodologiche, che avrebbero dovuto rappresentare i primi passi per entrare trionfanti nel nuovo millennio.
Ebbene, sta emergendo con evidenza, in tempi di Coronavirus, che il nodo non può più essere la presenza o assenza di infrastrutture tecnologiche nella scuola, ma la qualità della relazione tra la società, le tecnologie come mezzo (e non fine) e il ruolo che alla scuola si assegna; perché la competenza digitale in sé, svuotata dai contenuti e dalla consapevolezza critica, non ci dice nulla. Nessun contenuto culturale diventa neutro perché veicolato da un computer o trasferito in una piattaforma.
Napoli, la didattica ai tempi del Coronavirus
Anzi, sta emergendo con forza, in tempi di Coronavirus, che attingere alle piattaforme può generare rischi di omologazione e provocare danni che forse si misureranno sul lungo periodo; ancor di più, sta emergendo con forza che la disuguaglianza di opportunità passa anche per la disponibilità non solo dei mezzi (software e hardware) ma degli strumenti critici e delle relazioni umane. Senza lo sguardo dell’altro (l’adulto educatore) su di sé, e senza il sostegno della mediazione familiare, come possiamo illuderci che la scuola a distanza intercetti tutti i nostri ragazzi? In più: se la scuola del libro di testo poteva essere noiosa e distante per i ragazzi, e poteva non riconoscere e colmare il disagio emotivo e materiale di chi aveva un background sofferente, possiamo essere sicuri che quella che stiamo “mettendo in campo” per loro oggi non lo sia? A meno che non si tenga sempre presente che la vera natura della scuola non sta mai nella trasmissione delle conoscenze ma nella loro “trasformazione” in altro da sé, attraverso l’incontro e lo scambio. Incontri a volte imprevisti, ma di certo fondamentali, con i maestri, con i pari, con quelle domande che non si sapeva di avere e che possono cambiano i destini.
La scuola come spazio fisico di incontro la le diversità: la scuola che include e tiene insieme negli stessi banchi, nelle stesse aule, negli stessi refettori (e perché no, anche con lo stesso pasto!) e con gli stessi ritmi un popolo di bambini e bambine, ragazze e ragazzi a cui il mondo del fuori ha consegnato lo stigma della differenza; la scuola che tiene vicini i diversi, e nel rispetto della diversità dona pari opportunità a tutti di parola e di pensiero; la scuola che sin da piccoli abitua, dai tempi del nido, a parlare in modo diverso e più ricco che in famiglia, a guardare all’altro come un pari pur se di diverso colore o ceto, a creare legami di prossimità tra fasce sociali diverse; la scuola che fa sedere al tuo fianco un amico “speciale”, per il quale tu rappresenti una opportunità speciale di inclusione; insomma per dirla in sintesi, o in altre parole, la scuola pubblica oggi, in tempi di Coronavirus, è la grande rimpianta. Ci manca da morire. Speriamo di ricordarcene, dopo.
Quello che ci auguriamo di lasciarci alle spalle è l’altra scuola: quella che valorizza le pratiche burocratiche di valutazione e classificazione della qualità piuttosto che le interazioni, quella che dimentica che la natura della relazione di insegnamento/apprendimento è sempre bidirezionale e processuale e bisogna attrezzarsi per passare dalla competizione e dagli eccessi di valutazione formale e formalistica (da cui negli ultimi anni ci si è fatti travolgere) ad una valutazione formativa, che guardi ai processi, ai percorsi di crescita e non ai prodotti; quella che finisce suo malgrado per incanalare e ghettizzare, facendo sì che l’intero sistema finisca in uscita per ratificare le differenze in entrata.
Veniamo a noi. Per andare al modo in cui il Comune di Napoli si sta organizzando nel tempo della “sospensione”, faccio un passo indietro: da anni, come Assessorato, nell’ambito delle attività di prevenzione e contrasto al disagio scolastico, abbiamo puntato alle “alleanze educative” nella forma delle co-progettazioni tra le scuole, il privato sociale e il Comune come istituzione di prossimità con compiti di coordinamento e regia delle azioni. Il presupposto ideale della nostra azione politica – accompagnata da Linee guida deliberate in Giunta – era la convinzione che bisognasse uscire da progetti e bandi preconfezionati e, facendo un passo indietro, pur nel ruolo di ente che eroga le risorse per la dispersione scolastica, smettere di porre a gara le nostre risorse secondo modalità prestrutturate in modo rigido, come servizi aggiuntivi e complementari, ma operare un ribaltamento di prospettiva, che desse spazio alle proposte dal basso. Dove il termine “basso” in verità stona, dal momento che è piuttosto dall’alto dei bisogni concreti e reali degli allievi e delle loro storie che abbiamo chiesto alle scuole e ai soggetti del privato sociale che li affiancavano di agire insieme, in orario curricolare, all’interno dei gruppi classe, e senza separazioni tra la scuola del compito e dell’assegno e la scuola dell’animo. Questo lavoro, di presa in carico e di accompagnamento dei ragazzi a rischio all’interno dei percorsi, si stava traducendo negli anni in continui scambi di pratiche e aggiustamenti, in un work in progress che, mai dimentico dell’obiettivo, sviluppasse le azioni sulla base di quel che emergeva dai processi: l’educatore e il professore si guardano, imparano l’uno dall’altro, si alleano appunto per non lasciare indietro nessuno, ma soprattutto per scoprire insieme quali leve, quali strumenti agire di volta in volta per andare incontro al “talento” (inteso in senso etimologico, come “desiderio”) dell’allievo in condizione di fragilità.
Spezzare questo lavoro, spazzarlo via ex abrupto, sapendo che la scuola sospesa disperderà certamente, attraverso la modalità “virtuale”, molti più allievi di quanti già non ne perdesse prima, ci è sembrato atroce…ma anche impossibile: con le reti che abbiamo costruito in questi anni stiamo mettendo a punto un catalogo di opportunità alternative da offrire alle scuole stesse, per agganciare i ragazzi e le famiglie più bisognosi: agganciare sia tramite il telefono, sia tramite la radio, sia tramite un supporto psicologico e didattico offerto tanto alla scuola quanto ai singoli alunni. Tutto è in via di definizione ovviamente, ma la logica che ci sta guidando non è diversa da quella che avevamo adottato. Per i ragazzi che vivono condizioni di povertà materiale ed educativa non ci sono ricette: ognuno è diverso e nessuno si salva da solo.
Il ribaltamento su cui abbiamo investito negli anni ci rende orgogliosi. Lo avevamo fatto anche nei servizi 0-6, attraverso progetti di qualità e convenzioni con università e terzo settore, per rispondere più da vicino alla variegatezza delle esigenze che nella città di Napoli emergono territorio per territorio, quartiere per quartiere: la città ne contiene altre dieci e nulla di quel che funziona e si dimostra vincente in un contesto può essere automaticamente trasferito in un altro. La scelta della flessibilità e dell’ascolto è stata dal punto di vista amministrativo non semplice, per un Comune che deve spesso rispondere a regole e procedure burocratico-amministrative la cui rigidità fa il paio con la scarsa efficacia. Ma il Comune esiste perché esiste la comunità: “cives fecerunt commune”, recitano i documenti medievali; è un’istituzione che appartiene alla città e non può che rispondere ad essa.
A Napoli le politiche pubbliche nella scuola e nell’educazione sono insostituibili: il privato puro occupa spazi marginali, si muove prevalentemente in alcuni quartieri e con determinate tipologie di utenza. Solo negli ultimi anni, con l’apporto delle Fondazioni bancarie, ad esempio dei progetti finanziati dall’impresa “Con i bambini” o tramite i fondi europei, la scuola pubblica è stata affiancata nei suoi compiti molteplici e complessi da progetti e spazi per l’infanzia e per l’adolescenza che hanno saputo svolgere, che svolgono, una funzione essa stessa pubblica in sinergia con il Comune e con le Istituzioni di prossimità. Il bisogno di una offerta educativa gratuita a Napoli è dominante e determinante, anche più che altrove.
Per questo anche in un recente passato abbiamo difeso la natura pubblica e gratuita dei servizi educativi e scolastici sotto molti punti di vista: come Comune abbiamo difeso la refezione dai “liberisti del panino” perché essa rappresenta un momento educativo in cui ribadire che diritto all’istruzione e uguaglianza vanno insieme e ci fa soffrire oggi pensare a tanti bambini e bambine che stanno perdendo con quel pasto l’unico pasto sano della giornata. Abbiamo difeso la possibilità anche per un Comune povero di risorse e stritolato dai vincoli di assumere insegnanti per i nostri nidi pubblici, considerandoli servizi essenziali (e non a domanda individuale, come recita ancora la norma vigente in Italia) . Abbiamo difeso il diritto di mantenere tariffe basse per i servizi, le scuole dell’infanzia del tutto gratuite, perché consapevoli della necessità di difendere tanti bambini e bambine dalla povertà culturale e materiale dei loro genitori. Oggi vediamo quanto la “sospensione” generi un vero e proprio vuoto in queste famiglie: vuoto che non può essere di certo colmato dal bonus baby sitter, e che possiamo lenire solo in parte, in accordo con le associazioni, raggiungendo i genitori e i piccoli “a distanza”; ma che riempiremo quanto prima, appena ce ne sarà data la possibilità.
Adda passà a nuttata. Di recente mi è capitato di scrivere a proposito di questa celebre frase di Napoli milionaria di Eduardo de Filippo, molto citata in tempi di Coronavirus. Ho scritto che mentre tutti conoscono la frase, pochi ricordano la trama del dramma in cui viene pronunciata. Nei primi due atti Gennaro Iovine, il protagonista, tornato dalla prigionia, cerca invano di raccontare ai suoi familiari l’orrore della guerra da cui è uscito: nessuno vuole ascoltarlo; anzi, tutti, dalla moglie Amalia ai figli agli amici, hanno voglia solo di ridere, divertirsi, rimuovere i ricordi, e questa loro volontà precipiterà di lì a poco in tragedia, di fronte alla “malattia”della piccola della famiglia. Perché nella malattia si scoprono le relazioni malate, la fragilità e la miseria di cui pensava di essersi liberati .
Ecco, penso sia il caso di non dimenticare, nessuno di noi, quel che sta accadendo: saremo tanto più forti e convinti dell’importanza del nostro ruolo, dallo Stato ai Comuni alle Istituzioni scolastiche, senza particolari differenze da nord a sud, da città a città, da quartiere a quartiere, se sapremo fare patrimonio di quanto è accaduto e sta accadendo al tempo del Coronavirus.