Ricercatore per l’Osservatorio sulla Democrazia di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

“Nous sommes en guerre”. Queste le parole con cui, il 17 Marzo 2020, il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha annunciato la “guerra sanitaria” contro l’avanzata “invisibile” del Coronavirus. Questa guerra vede in prima linea non soldati, ma principalmente infermieri e medici. Come in ogni guerra gli eserciti organizzano la difesa della comunità nazionale, così la pandemia in corso sta mettendo alla prova i sistemi sanitari degli Stati. In un recente articolo, Nadia Urbinati nota come in Italia, nel contesto della pandemia, “la responsabilità di tutto sembra ricadere sui cittadini”: molte delle misure per fermare il contagio guardano alla responsabilità individuale — limitare le uscite, i contatti sociali, adottare comportamenti igienici corretti etc. — mentre si rivolge minore attenzione a come decisioni collettive, in tema di politica sanitaria, potrebbero creare resilienza in situazioni simili. Per quanto gli indici di gradimento del Servizio Sanitario Nazionale italiano restino tra i più alti in Europa, l’Italia esce dal decennio della Grande Recessione indebolita sul fronte della sanità. Crediamo, in questo senso, che sia opportuno fornire un chiarimento circa le trasformazioni del sistema sanitario nazionale: non nell’ottica di individuare colpevoli, ma di cambiarne la traiettoria di riforma, riconoscendo il valore che la sanità ha come bene pubblico, in ogni parte d’Italia. In questo articolo guarderemo a come le strategie di contenimento dei costi, e il mix di sanità pubblica e privata stanno cambiando il volto della sanità italiana.


Secondo un recente studio di Neri e Mori, in Italia, le misure di austerità che si sono susseguite dal 2008 hanno avuto l’effetto di ridurre la spesa sanitaria complessiva. Per fare un confronto, nel 2016, l’Italia spendeva 2 punti percentuali in meno rispetto alla Francia (6,7% di quota percentuale del PIL italiano contro l’8,7% francese). La forbice arriva a 2,8% se il confronto viene fatto con la Germania (9,5%). La “razionalizzazione” della spesa ha riguardato diverse dimensioni, tra cui spesa farmaceutica, tasso di ospedalizzazione, prestazioni specialistiche ospedaliere, la compartecipazione alla spesa per i cittadini, l’acquisto di beni — tra cui dispositivi medici — e servizi da parte di Aziende sanitarie, con l’introduzione di nuovi tetti di spesa. L’aspetto che però in questi giorni fa più discutere è quello dei tagli al personale sanitario: tra il 2007 ed il 2015 il personale del Sistema Sanitario Nazionale è passato da 682 mila a 653 mila unità, una diminuzione del 4,2%.

Nel contempo, fino ad una recente sentenza della Corte Costituzionale (sentenza 178/2015), i salari dei dipendenti sono rimasti sostanzialmente fermi ai livelli del 2010. Mentre il sistema sanitario pubblico sembra venire indebolito, si rafforza la componente privata. Una parte sempre più rilevante della spesa sanitaria è infatti affidata ai fondi sanitari integrativi: nel 2016, la quota di spesa sanitaria privata sul totale della spesa sanitaria complessiva è arrivata al 25% (contro il 21,2% della Francia e il 15,4% della Germania).


Volontari di protezione civile allestiscono una tenda pre-triage d
avanti all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù


L’austerità, però, è solo parte della storia. Strategie per il contenimento della spesa sanitaria sono state attuate lungo il corso degli ultimi trent’anni, in Italia come negli altri paesi occidentali. Queste strategie fondamentalmente ricalcano quanto successo alla sanità italiana durante la Grande Recessione, articolandosi su tre linee: la restrizione dell’offerta (tetti di spesa, riorganizzazione di strutture e personale, controlli sui prezzi dei farmaci etc.), il razionamento dei servizi sanitari (restrizioni all’accesso attraverso livelli di assistenza essenziali, ticket etc.) e per finire, la privatizzazione dell’offerta sanitaria. Una completa privatizzazione delle prestazioni sanitarie, chiaramente, è difficilmente percorribile in sistemi sanitari pubblici come quello italiano. Vi è però stata una trasformazione radicale nel modo di produrre i beni ed i servizi. Sin dall’inizio degli anni novanta, infatti, le prescrizioni di policy del “New Public Management” hanno suggerito di emulare i meccanismi di domanda e offerta che, nel contesto dell’economia di mercato, permettono di massimizzare l’efficienza nella produzione di beni e servizi contenendo i costi. In ambito di sanità pubblica, questo ha portato alla creazione del “sistema di concorrenza amministrata”. Attraverso la separazione tra l’acquisto (la domanda) e la fornitura di beni e servizi sanitari, si consentirebbe di ottenere prestazioni migliori, grazie alla libertà di scelta tra i fornitori. Prestazioni di alto livello sarebbero comunque garantite attraverso la creazione di standard qualitativi e sistemi di monitoraggio che certifichino il loro rispetto. In questo modo, la produzione di beni e servizi sanitari viene creata sulla base di concorrenza tra produttori pubblici e produttori privati. L’acquisto di questi beni viene poi effettuato dal servizio sanitario pubblico. In questo senso, lo Stato dovrebbe sia fornire un contributo (parziale) alle spese dei cittadini che stabilire livelli di prestazione omogenei, per evitare che il mercato eviti di coprire servizi sanitari considerati non a sufficienza “redditizi”.

In Italia, a partire dalla riforma del 1992 del sistema sanitario nazionale (con i decreti legislativi 502/92 e 517/93), questo sistema ha prodotto una profonda differenziazione a livello regionale. Secondo Ugolini, è possibile individuare tre modelli di concorrenza amministrata nelle regioni italiane. Il primo è orientato al paziente, e vede l’Azienda Sanitaria come “terzo pagatore”. Vi è una pluralità di soggetti produttori, sia privati che pubblici, in concorrenza tra loro. L’utente può decidere a chi rivolgersi, con massima libertà di scelta. All’estremo opposto, il modello orientato all’acquirente, che vede l’Azienda Sanitaria come “programmatrice”: il servizio sanitario regionale amministra la competizione nella produzione di beni e servizi, stabilendo le “quote” che i fornitori sono tenuti ad erogare. Infine, vi è un modello intermedio che vede l’Azienda Sanitaria nel ruolo di “sponsor”, selezionando le strutture che offrono la migliore combinazione di “prezzo-qualità” e concludendo con esse contratti. Le regioni italiane si sono differenziate sulla base di questi tre modelli negli ultimi trent’anni. Tuttavia, col tempo, molte delle regioni sembrano di nuovo convergere verso il modello in cui il servizio sanitario agisce come “programmatore”: in presenza di fallimenti di mercato (come la difficoltà di misurare la qualità delle prestazioni, la sottoproduzione di alcuni beni e servizi etc.), “elevati gradi di integrazione verticale e di cooperazione”, attraverso il controllo sostantivo pubblico, risultano “convenienti”. In Italia, oggi, le regioni presentano un’ampia differenziazione sulla base del mix di pubblico e privato nella produzione di beni e servizi sanitari. Secondo un recente studio di Mapelli, la Regione con la più alta offerta di servizi privati è la Lombardia (57%), seguita da Lazio (54%) e Piemonte (51%). All’opposto si ha l’Umbria, la Provincia di Bolzano, la Basilicata (41%) e la Toscana (43%). Vi è poi una serie di regioni con un mix equilibrato tra pubblico e privato, tra cui l’Emilia Romagna. In quasi tutte le regioni, però, il modello di concorrenza amministrata sembra essere stato stemperato in favore di una programmazione sostantiva esercitata dal pubblico. In questo senso, la presenza di produttori di servizi privati non sembra creare problemi: Lombardia e Toscana, due modelli che presentano un mix pubblico-privato divergente, sono entrambe in grado di fornire prestazioni sanitarie di altissimo livello.

Sembra quindi che la sanità pubblica possa contare anche sul settore privato, nell’idea di contenere i costi pur garantendo alti livelli qualitativi del servizio. La condizione necessaria, in questo senso, è la capacità del soggetto pubblico di programmare la produzione di servizi sanitari e valutarli secondo standard rigorosi. In altre parole, il mix pubblico-privato può essere non solo possibile, ma desiderabile, nell’ottica di contenere i costi della spesa sanitaria senza dover ridurre i livelli di assistenza. Perché però la sanità continui a perseguire obiettivi pubblici, Stato e regioni non dovrebbero considerare il privato come una via di fuga dalle responsabilità che la tutela della salute pubblica impone nell’ambito di un sistema sanitario nazionale. Piuttosto come uno strumento per massimizzare l’efficienza senza però sacrificare la missione pubblica nell’ambito di tutela della salute.

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