Ricercatrice presso il Centro Studi di Innovazione Sociale dell'Università di Cambridge

 Nel Regno Unito, dove vivo dal 2012, la propagazione del COVID 19 sembra ricalcare lo stesso andamento avutosi in Italia, con appena qualche settimana di ritardo. Così, mentre l’università dove insegno trasferisce la didattica online e gli scaffali dei supermercati del mio quartiere vengono presi d’assalto, non sono l’unica nella comunità italiana a sentirmi mio malgrado un po’ Cassandra. Intendiamoci, io e il mio compagno la quarantena la trascorriamo nel nostro piccolo ma confortevole appartamento londinese. Non corriamo il rischio di essere licenziati dai nostri atenei, e lo smart working non ci crea grossi problemi. Ma, man mano che i pesantissimi effetti prodotti in Italia dal virus (e dalle conseguenti misure di sicurezza) in termini di giustizia sociale si ripropongono anche qui, mi sento come se mi si costringesse a riguardare all’infinito un angoscioso film già visto.

Circa 3,8 milioni di persone in Gran Bretagna lavorano in condizioni precarie (in Italia, tanto per contestualizzare, tocchiamo quota 3,1 milioni, anche se il dato va considerato alla luce di un tasso di disoccupazione notevolmente più alto). Mentre scrivo, i gruppi di mutuo soccorso attivi nella mia zona hanno iniziato a ricevere segnalazioni da chi -persi impieghi a nero in bar e altre piccole attività chiuse per impedire assembramenti- fatica a fare la spesa, a pagare l’affitto o ad evitare lo sfratto. Non parliamo poi di chi lavora nell’industria della cultura e dello spettacolo, o in quella, spesso dimenticata, del sesso, che pagano in queste settimane uno scotto durissimo.

Qui a Londra chiudono anche mense e banche del cibo, che non si sentono in grado di garantire la sicurezza di personale e comunità locali. Le spedizioni a domicilio, invece, tendono a continuare: senza ferie o malattie retribuite, i rider hanno poche alternative se non rischiare il contagio e continuare le consegne. Si trovano di fronte alla stessa scelta obbligata tanti lavoratori e lavoratrici della gig economy, con redditi instabili e scarsissime coperture sociali. E se in Italia i gig workers (nei settori della cura, dell’educazione, della ristorazione o del trasporto) sono stimati a circa 213.000, oltre Manica ammontano a ben 4,7 milioni.


Rider a Londra


Riscopriamo, nella concitazione di queste giornate, ingiustizie sociali di drammatiche proporzioni, e tuttavia relegate fino a ieri in un cantuccio mentale (l’elefante nella stanza, si dice da queste parti). Si calcola, per esempio, che circa 4.700 persone dormano per strada ogni notte nella sola Inghilterra, e che 92.000 famiglie siano prive di un’abitazione tra Inghilterra e Galles.  In Italia, per azzardare ancora una volta un paragone basato su statistiche provenienti da fonti nazionali e difficilmente comparabili, ne contiamo circa 50.000. Come in varie città della penisola, autorità locali e comitati di abitanti britannici si affannano ora a coordinarsi con le ONG di settore per escogitare soluzioni abitative temporanee. Ci invitano a murarci in casa, ed ecco che improvvisamente iniziamo a ricordarci di chi una casa non ce l’ha.

E dire che di polveriere sociali pronte ad esplodere durante la pandemia, e fino a ieri ignorate dai più, ce ne sarebbero tante altre. In Italia le proteste carcerarie della scorsa settimana, tragicamente culminate in 14 morti, hanno riportato l’attenzione sul sovraffollamento degli istituti di pena (alcuni istituti, secondo l’associazione Antigone, arrivano a toccare un tasso di affollamento del 190%). Ma anche in Inghilterra e Galles, denuncia la onlus Howard League, le carceri ospitano quasi 9,000 persone in più dei posti letto disponibili. In altre parole, la congestione, la scarsa igiene dei locali, il frequente flusso di quanti entrano ed escono, rischiano anche qui di trasformare gli istituti penitenziari in focolai pericolosissimi di contagio.

Sempre in tema di diritti negati che tutt’a un tratto diventano visibili, per milioni di donne a rischio di violenza domestica l’ordine di restare confinate nelle mura domestiche ha davvero il sapore di una condanna. In Italia, e prima ancora in Cina, si accenna già ad una crescita degli abusi, alimentati dalla convivenza forzata. In Inghilterra, dove le stime più recenti (e molto parziali) parlano di oltre un milione di vittime all’anno, ci prepariamo ad un aumento simile.

E ancora più parziali, ma altrettanto allarmanti, sono le informazioni a nostra disposizione su altre popolazioni fortemente a rischio, non solo nei ‘miei’ due paesi, ma nella stragrande maggioranza di quelli colpiti dal virus. Le comunità LGBTQ+, per esempio, includono numerosissime persone anziane (e spesso isolate), sieropositive, ed altre alle quali i rapporti difficili con familiari o vicini rendono l’autoisolamento particolarmente doloroso. In paesi che negli ultimi anni si scoprono terrorizzati dall’immigrazione e dalla diversità, la situazione dei centri di accoglienza e di detenzione per migranti non è più rosea di quella delle carceri. E che dire dell’impatto delle misure di prevenzione sulla salute mentale, non solo per i milioni che già soffrono di ansia, depressione ed altri disturbi, ma per chi combatte un nemico altrettanto temibile, la solitudine (non cercata, non voluta, figlia di forme sempre nuove di sfruttamento, e dell’inesorabile declino di sindacati e altre forme di organizzazione solidale).

Cassandre o meno, il telefono senza fili tra le comunità italiane all’estero, aiuta se non altro a prevedere non solo e non tanto gli effetti del virus sulla salute pubblica, ma le implicazioni socio-economiche delle restrizioni imposte, senza nulla togliere allo stato di necessità. Sento dire da più parti che di fronte a questo virus, alla malattia, alla morte, siamo tutti e tutte uguali. In entrambi i ‘miei’ paesi, questo è vero solo in parte. Come ha giustamente gridato al mondo un collettivo spagnolo, anche loro affacciati a balconi e davanzali, la retorica del ‘tempo ritrovato’ durante la quarantena è (anche) un privilegio di classe.  Decision-maker a tutti i livelli si trovano, infatti, a bilanciare esigenze delicatissime e diritti sacrosanti: la salute fisica e quella mentale, la cura dei pazienti e la sicurezza del personale medico, l’approvvigionamento della popolazione e la tutela di chi lavora, il contenimento del contagio e le libertà personali. Ma minoranze, gruppi marginalizzati, subalterni e vulnerabili restano, sempre, i più esposti, e l’emergenza non fa che rivelare disuguaglianze e rapporti di produzione e organizzazione del vivere sociale a tutti gli effetti insostenibili.

E allora torno sulla chat del mio gruppo di mutuo soccorso, scorro e-mail e messaggi sulle tante iniziative di solidarietà che si rincorrono da un quartiere, una città, un paese all’altro. E mi dico che questo ritrovato senso di comunità potrebbe pilotarci, nei mesi a venire, verso un futuro di salute realmente collettiva, in tutti i sensi. Ma l’attenzione e la cura per chi ci è vicino devono coniugarsi a una reale consapevolezza di privilegi da livellare e diritti da garantire, e a una nuova preoccupazione per lo stato della cosa pubblica e i beni comuni (il sistema sanitario non è la forse prima delle grandi conquiste del welfare state?). A Londra, nel mio Sud Italia, in un qualunque altrove, vedo poche alternative al di fuori del ripartire da lì.

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