Non è facile agire (o anche solo ragionare) politicamente nella crisi in corso. La parola stessa “politicamente” costituisce un problema. Non c’è trasmissione televisiva, comunicazione o post sui social che non sia dedicato al Covid-19. Le persone hanno una sensazione di eccesso di commenti, analisi e interpretazioni, mentre le informazioni a cui sono interessate sono soprattutto quelle di natura tecnica o scientifica, con la speranza di capire dove siamo, cosa bisogna fare, com’è la situazione e quando si può sperare che migliori. L’emergenza copre ogni ‘parzialità’ di vedute, di angolature interpretative e di prospettive di azione. Appare come un’entità neutra che richiede interventi neutri, tecnici e funzionali alla risoluzione della crisi. Pensare che la priorità sia contenere e fermare il contagio è ovviamente giusto, e nella situazione drammatica in cui ci troviamo l’eccesso di intellettualizzazione e ideologizzazione può infastidire, soprattutto quando viene portato avanti in maniera frammentaria (spesso dai singoli individui sui social) senza un discorso coordinato e coerente, come accade alla frammentata sinistra italiana.
Rispetto al rapporto tra crisi e politica ci sono però due cose da osservare. La prima è che ogni provvedimento di governo in una situazione che riguarda la società nel suo complesso è per forza e sempre politico. Da questo punto di vista è giusto quindi osservare quali settori sociali la crisi in corso colpisce di più, e quali sono stati finora più o meno garantiti e protetti (e quando, e in che modo) dai provvedimenti governativi. In particolare è emerso con grandissima forza il tema dei milioni di lavoratori costretti per troppo tempo – su richiesta rivendicata da Confindustria – a lavorare anche per servizi e produzioni non essenziali e inutilmente sottoposti al rischio, quindi il tema rapporto tra Stato e imprese nell’assumere decisioni di rilevanza vitale (vedremo adesso se e come le imprese rispetteranno il nuovo decreto che lascia comunque aperte troppe attività). Così come emerge il tema dello stato in cui la sanità pubblica è arrivata ad affrontare questa situazione in termini di dotazione di risorse, rapporto tra pubblico e privato e regionalizzazione dei sistemi. E il tema della casa, delle condizioni abitative di milioni di persone per le quali “stare a casa” è impossibile o estremamente complicato.
Anche restando sul piano meramente tecnico è legittimo anche chiedersi – visto che non c’è ancora una spiegazione chiara in questo senso – come mai questa crisi si sia abbattuta sull’Italia in queste dimensioni, come mai sia così alto il numero delle vittime, e come mai questo numero sia così alto tra le figure professionali che stanno svolgendo il ruolo più difficile, medici e infermieri. Provvedimenti come quelli presi finora dal governo italiano sono costretti a dimostrarsi efficaci, e questa è la settimana in cui questa efficacia deve iniziare a essere evidente. Diversi media mainstream hanno invocato la piena adozione del “modello cinese”. Ignorando o tacendo, però, che a Wuhan l’emergenza non è stata circoscritta solo attraverso provvedimenti estremamente duri e un uso molto intensivo dei Big Data, ma anche assistendo la popolazione a domicilio, distribuendo tamponi, dotando il personale sanitario di tutti gli strumenti utili a ridurre il rischio di contagio, pagando i salari dei lavoratori momentaneamente inoccupati direttamente sul loro conto corrente. In Italia, di questo “modello”, si è vista finora soprattutto la parte restrittiva nei confronti dei cittadini.
Il secondo aspetto politico è il rapporto tra istituzioni, media e opinione pubblica. Si è diffusa la caccia simbolica nei confronti di alcuni cittadini anche tra gli stessi cittadini. La responsabilità della scarsa efficacia delle misure adottate è stata fin qui addebitata a chi “va in giro”, “passeggia” e “va a correre”, categorie ormai più che stigmatizzate, presentate come dedite a vizi morbosi, come se su queste singole persone pesasse l’intera colpa dell’emergenza. A una parte della cittadinanza viene così applicato lo stesso dispositivo retorico che fino a due mesi fa era riservato ai migranti, immettendo nelle relazioni sociali “a distanza” anche il virus del sospetto reciproco: la classica orizzontalizzazione del conflitto funzionale a evitare la verticalizzazione, cioè l’imputazione polemica e politica dei centri di potere. Sembra un’ondata di sentimento spontanea, che arriva dai social e dagli sguardi giudicanti delle persone sui propri vicini. Invece di spontaneo c’è poco, è una retorica che in gran parte proviene dall’alto. E’ sufficiente guardare i telegiornali, leggere i giornali, anche e soprattutto quelli mainstream, guardare un talk show televisivo o sentire le comunicazioni ufficiali del governo per vedere quanto le responsabilità della crisi vengano quotidianamente addebitate alla condotta della popolazione. Lo fa insistentemente anche il ministro della Sanità Roberto Speranza.
Nessuna responsabilità a chi ha costretto le persone a lavorare; nessuna responsabilità a chi ha ridotto le risorse della sanità pubblica; nessuna nemmeno a chi diceva fino a poco tempo fa “Milano non si ferma”. Tutta la responsabilità, invece, ai cittadini indisciplinati ed egoisti, incentivati a controllarsi a vicenda.
Politica e ideologia quindi, in questa crisi, ci sono già. Solo che sono agiti quasi esclusivamente dal governo e dai media.
In questo contesto allora, per la sinistra, agire e ragionare politicamente può significare in primo luogo attrezzarsi, cioè studiare le conseguenze sistemiche che questa crisi sta avendo e avrà sull’economia e sulla società: sui rapporti geopolitici, sulla globalizzazione, sul ruolo dello stato, sul futuro del lavoro e della produzione, sullo stato sociale e sui servizi pubblici universali, sulla struttura delle disuguaglianze. E dopo aver studiato, proporre soluzioni e porsi come la parte politica che non le sostiene in modo aprioristico e ideologico, ma perché oltre a essere più giuste sono più efficaci ad affrontare il mondo che viene. Soprattutto nei periodi di crisi, è chi appare nello stesso tempo giusto ed efficace ad essere più convincente. Le proposte dovranno sembrare una conseguenza logica delle esigenze poste dalla realtà – che avranno verosimilmente un carattere di radicalità – più che delle bandiere identitarie. Bisognerà provare al contempo ad assumere una prospettiva sistemica (di passaggio d’epoca), ad essere molto pragmatici e a condensare tutto in due, tre simboli-battaglie dal valore altamente simbolico e unificante. Tutt’altro che facile, ma ora più che mai necessario.