Università di Pisa

1. Macron, Presidente della Repubblica Francese, si è spinto a invocare per l’emergenza Covid-19 la “mobilitazione generale”, “perché siamo in guerra”. Si invoca, insomma, la creazione di una sorta di economia di guerra. Ciò che sta accadendo in Italia e nel resto d’Europa con un ritardo forse colpevole (il caso inglese essendo il più sconcertante), è paragonabile a provvedimenti tipici di una economia di guerra, anche se le nostre massime autorità, il Presidente del Consiglio Conte e il Presidente della Repubblica Mattarella, hanno finora adottato toni assai più misurati di quelli usati da Macron. Nel recente decreto del Governo italiano, in ogni caso, compaiono disposizioni in merito ad eventuali “requisizioni”, provvedimento tipico da economia di guerra. E non bisogna dimenticare che le economie di guerra, quando è il “nemico” a dettare la tempistica, nascono spesso con provvedimenti presi poco alla volta, sull’onda dell’emergenza e dei repentini cambiamenti di scenario, senza alcuna predisposizione precedente di una qualche effettiva rilevanza. Così almeno fu il caso dell’Italia nel corso della Prima Guerra Mondiale. E mi limito volutamente a questo esempio perché vittorioso nonostante tutto; cioè nonostante il fatto che è in questa guerra che hanno radici i rivolgimenti sociali che portarono alla dittatura fascista e dunque alla seconda guerra mondiale, nonché alla nascita del cosiddetto socialismo reale.
Siamo, dunque, agli esordi di una possibile economia di guerra, i cui sviluppi dipendono dall’evolversi della situazione sanitaria. Se pur tra mille cautele dovute principalmente al fatto che sono uno spettatore di quanto avviene e non appartengo al novero di coloro che guardano “la macchina” dall’interno e quindi hanno informazioni oggi fondamentali per valutare la situazione, ciò che sta accadendo può spingere a svolgere alcune considerazioni di carattere generale.

2. La prima considerazione è proprio sul concetto di economia di guerra e su quanto oggi è ad essa paragonabile. La nazione, attraverso i suoi organi costitutivi e dunque anzitutto attraverso gli atti dello Stato (in quanto governo, parlamento, regioni, protezione civile ecc.), decide di perseguire un obiettivo a cui vanno subordinati gran parte degli interessi individuali.
Notevole, al contempo, che l’economia di guerra di oggi differisca dall’economia di guerra vera e propria. Come insegna la prima guerra mondiale, gli interessi indicati come “interessi della nazione” storicamente non sono affatto coincisi con gli interessi di tutta la popolazione. Erano infatti interessi di una parte di essa: una/più élites, una/più classi sociali, uno/più partiti. In argomento teorici e storici si sono assai divisi, ma il fatto stesso che la prima guerra mondiale sia frutto di nazionalismi in lotta e che dalla prima guerra mondiale nascano rivoluzioni e controrivoluzioni segnala l’esistenza del problema: una parte si erige a tutto, identifica i propri interessi e i propri bisogni come interessi e bisogni della nazione.

Nel caso del Covid-19, invece, la platea si può dire che coincide con la cittadinanza intera, se rimaniamo all’Italia per semplificare il discorso: tra individuo e nazione non sembra per ora esserci l’esigenza (salvo i provvedimenti paternalistico-coercitivi volti a cambiare le abitudini individuali: come quella della libera circolazione) che esista un demiurgo (un capo, un partito, una razza, una classe, una élites) capace di imporre coattivamente (con la forza: militare, delle squadracce, di un partito ecc.) che l’interesse di una parte della nazione, che si arroga il diritto di rappresentare l’intero, coincida con l’interesse di tutti gli individui.

Tutti gli individui sono cioè oggi d’accordo nel sacrificare alcuni dei loro interessi per conseguirne altri, ritenuti prioritari o indispensabili per perseguire anche quelli che, momentaneamente, vengono sacrificati. Siamo insomma lontani dalla retorica nazionalistica tipica del bellicismo novecentesco.

3. Questa esperienza, dunque, credo (spero) sia di importanza decisiva perché insegna a tutti, non più soltanto ad una parte della popolazione (sia questa parte individuata come si crede: classi, élites, ceti, partiti, gruppi, nazioni ecc.), che l’opera collettiva può avere un obiettivo che va a beneficio di tutti ma che si può raggiungere solo attraverso sforzi comuni e anzitutto attraverso l’azione dello Stato. È un’esperienza fondamentale perché ricorda a tutti che strategico, che frutto di uno sforzo collettivo immane e straordinario, può non essere per forza di cose solo e soltanto la guerra guerreggiata: ma possono invece essere strategiche “guerre” di carattere sociale. Come, per esempio, la lotta al Covid-19 e quindi la creazione di una sanità capace di garantire il diritto alla salute a tutti.
Tutto allora può diventare oggetto di emergenza sociale? La risposta è affermativa: tutto può diventare frutto di emergenza sociale da affrontarsi con i mezzi tipici di una economia di guerra.
Basterebbe guardare la storia dello stato sociale del Novecento, certo. Ma l’evento eccezionale che stiamo vivendo ci ricorda con maggior forza di quella che deriva dalla faticosa ricostruzione della storia, che è frutto di incessanti lotte di ogni genere e di aspre diatribe interpretative, che i diritti sociali sono stati conquistati solo se considerati emergenze sociali improcrastinabili, cioè tendenzialmente accettate da ogni singolo individuo. Come appunto il diritto alla salute, realizzazione di uno sforzo collettivo eccezionale della Gran Bretagna appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale (il celebre “piano Beveridge”). Per fare un esempio che spero sia illuminante: non era inconsueto leggere nella pubblicistica della Resistenza italiana ragionamenti che miravano a considerare che l’enorme sforzo collettivo bellico offriva il concreto esempio che era possibile realizzare collettivamente, proprio sull’esempio dell’economia di guerra, obiettivi grandiosi e votati al progresso dell’umanità e non alla sua distruzione.
Ecco dunque l’importanza che ha, oggi, l’elaborazione di idee e la discussione pubblica, il circolo virtuoso tra ricerca scientifica (in ogni ambito) e costruzione della pubblica opinione. Anche pensando che sia la paura alla base di questo inedito idem sentire, dobbiamo chiederci di che cosa dobbiamo imparare ad avere paura. E dobbiamo chiederci quale ruolo in questa riflessione deve inevitabilmente avere non solo la scuola, ma anche la più grande azienda culturale italiana, come la RAI, quale politica dell’editoria deve essere realizzata e quali strumenti escogitare perché anche i social ne vengano influenzati o determinati.

4. La seconda considerazione che vorrei proporre è che l’economia di guerra, di fatto, ha sempre posto in crisi il paradigma economico liberista.
Rimaniamo al caso italiano: durante la Prima Guerra Mondiale vi erano economisti che pensavano realizzabile una conduzione liberista della guerra e temevano e denunciavano i ritorni all’interventismo statale in economia. Di fatto ha però sempre prevalso l’intervento pubblico, per quanto esso si sia esplicato in forme molto differenti.
Vanno dunque separati due momenti. L’individuazione degli obiettivi che sono considerati strategici. Gli strumenti per realizzarli: che per forza di cosa devono essere molteplici, senza preclusione ideologica alcuna. Oggi, non avere questa preclusione ideologica significa capire che possono essere raggiunti anche, e spesso esclusivamente, con il ricorso dello Stato.
Obiettivi strategici sul piano politico, sociale ed economico. Il termine appartiene all’armamentario argomentativo antiliberista, è bene esserne consapevoli. Significa considerare qualsivoglia divisione del lavoro (tra individui, come tra nazioni), del tutto artificiale e per questo modificabile: non è F. List ad insegnarci questa verità, non è cioè il principale teorico del nazionalismo economico, ma è A. Smith. Non esistono nazioni industriali per vocazione naturale (per risorse date, di qualsiasi natura esse siano). Il talento, le capacità scientifiche e industriali, si possono creare. Al centro dell’economia c’è il lavoro umano, infatti. E nel corso della storia le varie forme di industriosità si sono create solo e soltanto limitando la libera concorrenza, solo governandola saggiamente, con un intervento pubblico che di volta in volta ha inventato ed ha implementato i suoi strumenti di intervento.
Se si tratta di una guerra, è doveroso chiedersi se eravamo preparati. Era considerato strategico prepararsi ad un simile evento? La risposta è no e una prima analisi di quanto è accaduto in Corea del Sud ci avverte che la crisi poteva essere affrontata in modo diverso. Ma non nell’immediato, ma come preparazione di medio-lungo periodo ad una crisi di questo tipo. Una diversa preparazione sul piano sanitario, implica, ovviamente, ben differenti conseguenze sul piano economico. È bene ricordarsi che le conseguenze economiche del Covid-19 dipendono in gran parte dallo stato della sanità pubblica, dai limiti industriali della sua capacità di risposta (numero di posti-letto di rianimazione disponibili).

Rimane da chiedersi per quale motivo non eravamo preparati: difficile negare che il motivo risiede nel fatto che lo Stato, cioè la collettività, ha perseguito l’utopia liberista, anche se solo tendenzialmente, perché l’Italia della Seconda Repubblica ha avuto in eredità la gestione dello Stato sociale costruito nel corso della Prima Repubblica, pur avendo cercato in ogni modo di disfarsene. Oltre ai tagli alla sanità vanno ricordati i tagli alla ricerca scientifica. Di fatto si è poi rinunciato a definire strategico e dunque di interesse nazionale, il comparto dell’industria sanitaria, che così si è trovata impreparata al contagio. Mancano addirittura le mascherine, cioè prodotti industriali a bassissimo valore aggiunto. Per non parlare dei macchinari (ventilatori), per non parlare delle strutture (si parla di ospedali nella Fiera di Milano, di ospedali militari da campo), per non parlare del capitale umano (medici, infermieri ecc.).

 

Nel corso della Seconda Repubblica si è pensato, di fatto (ma il calcolo nemmeno si è fatto, evidentemente), che il costo della limitazione della ampiezza del mercato in questi settori sarebbe stato minore del costo di una crisi del genere di quella che stiamo vivendo: tipico argomento di critica del liberismo da parte dei protezionisti, sia chiaro, fin dai primi dell’Ottocento. D’altra parte, nemmeno si è considerato che proteggere questi settori, come argomentato da tutto il pensiero protezionista (J.S. Mill compreso), avrebbe comportato riuscire a portarli sulla frontiera della produttività e della innovatività. Colpisce, infine, come non si sia considerato strategico il comparto sanitario quando da anni si decantano le “vocazioni” turistiche dell’Italia (anche queste, come se fossero sostanzialmente naturali): oggi, per inciso, messe completamente in ginocchio.

5. Qualche considerazione sull’intervento dello Stato in economia. I commentatori liberisti usano spesso il termine negativo di “statalismo”. Utilizzare questa terminologia significherebbe rimanere intrappolati nell’ideologia liberista, che appunto mette in un unico calderone l’intervento collettivo utilizzando la parola “statalismo”. È una tradizione che risale almeno alle polemiche sul 1848 francese e basterebbe sfogliarsi i libri di F. Bastiat! Lo Stato, invece, può e deve scegliere, ed ha scelto nel corso della storia, molte forme di intervento economico e sociale per raggiungere i propri obiettivi. Lo Stato Italiano ha inventato lo stabilimento siderurgico di Terni e poi di Taranto, l’IRI, la Cassa per il Mezzogiorno, il Ministero delle partecipazioni statali, l’Eni, l’Enel, le municipalizzate, l’urbanistica, la programmazione economica, la Mobilitazione industriale (IGM), l’Istituto dei cambi con l’estero. Non si è limitato, dunque, ai calmieri e alle requisizioni. E poi ci sono i dazi doganali, gli incentivi alle imprese private o ai settori ritenuti strategici, aiuti di diversa natura, le rottamazioni, i consumi obbligatori e via discorrendo. È da auspicare che anche in questo campo il paradigma liberista entri definitivamente in crisi. Le riforme di cui ha bisogno lo Stato non sono quelle costituzionali o elettorali o del sistema parlamentare, tutte rivolte a restringere la rappresentanza e dunque la democrazia per consentire una completa restaurazione liberista. Le riforme che sono necessarie sono invece quelle che consentono l’invenzione e la realizzazione di strumenti di azione collettiva i più adatti per raggiungere l’interesse generale e gli obiettivi strategici. Sapendo che raramente questi obiettivi si raggiungono concependo istituzioni che abbiano come obiettivo quello del conseguimento del profitto. D’altra parte, forse sarebbe ora di capire, visto il carattere periodizzante dell’esperienza berlusconiana (negli studi si parla di “ventennio berlusconiano”, infatti), che nessuna grande impresa ha per scopo la realizzazione di obiettivi solo economici, né i mezzi che utilizza sono esclusivamente economici.

 


Gli scaffali dei supermercati vuoti nel Nord Italia


6. Solo ora, grazie purtroppo ad un evento tragico come il Covid-19, i concetti che ho brevemente passato in rassegna cominciano a ritornare, timidamente, di una certa attualità, dopo decenni di retorica liberista volta a far coincidere questa riflessione, che non ha pregiudizi nei riguardi del protezionismo e dell’azione statale in senso lato, con il bellicismo nazionalista o con un inefficiente corporativismo consociativo. È segno di un incipiente cambiamento che un banchiere sodale di Berlusconi si spinga, nel corso di una nota trasmissione di Rete4, ad affermare che la Popolare di Bari vada nazionalizzata, naturalmente sottolineando come il salvataggio interbancario oggi in vigore sia assai rischioso per coloro che sono chiamati a parteciparvi. È forse segno del cambiamento dei tempi che, di fronte al tracollo del trasporto aereo in tutto il mondo, Alitalia venga nazionalizzata con i provvedimenti del governo riguardanti l’economia. È segno del cambiamento dei tempi che lo Stato cerchi imprese private capaci di produrre ciò che occorre per fronteggiare l’emergenza sanitaria e decida di privilegiare queste imprese per raggiungere i propri scopi. È segno di un certo cambiamento che il Presidente Conte abbia scelto come consulente economico l’economista M. Mazzuccato, autrice di un libro come Lo Stato innovatore (Laterza, 2014). Saranno però davvero tempi nuovi quando si proporranno ragionamenti razionali e lungimiranti in tema di sicurezza del lavoro – forse non è un caso che la geografia del Covid-19 si sovrapponga a quella delle fabbriche e dei posti di lavoro – capaci di superare la stagione liberista della deregolamentazione selvaggia del mercato del lavoro. Una stagione talmente egemone sul piano culturale ed economico da essere riuscita a trasformare, purtroppo, il reddito di cittadinanza in una politica attiva del lavoro; ed è significativo che non si sia pensato ad una sua estensione per fronteggiare la crisi in corso. Una stagione talmente egemone da essere riuscita a pensare che per tamponare la crisi economica derivante dal Covid-19 si possano dare 600 euro al mese (il costo, circa, di una stanza in affitto a Milano) alle cosiddette partite IVA, che costituiscono, come noto, una delle svariate forme che ha assunto la forza-lavoro salariata dei nostri tempi. E tuttavia, rassicura la consapevolezza del governo italiano, che siamo di fronte, con il decreto citato, solo ad una prima serie di provvedimenti. L’importante è che si abbia la percezione precisa che i tempi del collasso economico non sono quelli degli iter burocratici o dei criteri di eleggibilità tipici della finanza “normale”. Ci vogliono provvedimenti coraggiosi, universali, di immediata praticabilità. Il QE non può finanziare la speculazione finanziaria o incanalarsi solo faticosamente negli investimenti privati, ma oggi deve finanziare i consumi, oltre che gli investimenti pubblici.

7. La guerra lampo, nell’era della produzione industriale (I e II Guerra Mondiale), ha sempre lasciato il posto alla guerra di posizione. La guerra chirurgica, alla “guerra totale”. L’economia di guerra mobilita una immensa quantità di risorse. Come ottenerle? Le alternative sono sempre state molto chiare: imposte, debito o carta-moneta. La guerra, ci insegnano gli economisti, si fa con la carta-moneta e quindi con la monetizzazione del debito pubblico. Non ci sono alternative realistiche, tanto più oggi che siamo di fronte al collasso (la chiusura) di interi settori industriali, se non dell’economia europea. La BCE, probabilmente su impulso americano e forse francese (non certo su impulso tedesco), dopo un primo tentativo di “grecizzare” l’Italia (si può interpretare diversamente quanto sostenuto dal Governatore della Banca Centrale Europea in tema di spread?), senza probabilmente capire che l’impatto sull’economia europea sarebbe stato devastante (anche per la Germania, per intenderci: quante “guerre lampo” finite in “guerre di posizione” e in rivolgimenti sociali e politici imprevedibili e tremendi… ), pare voglia monetizzare il debito pubblico. Una monetizzazione che tuttavia appare ancora timida perché i meccanismi attuali del QE sono ancora ingessati, succubi delle logiche nazionali: come se la logica economica fosse paragonabile alla logica amministrativa o elettorale o dei regolamenti europei. Il caso italiano, come dimostra l’innalzamento dello spread, in ogni modo deve essere stato quello decisivo nello spingere in questa decisione e decisiva deve essere stato il diffondersi del contagio in tutti i paesi europei.
Tuttavia, vista la dinamica conflittuale inter-statale che l’attuale configurazione dell’Unione Europea ha creato e sta alimentando, possiamo immaginare e prevedere che la partita non sia affatto finita. Si tratta, infatti, di una dinamica nazionalistica, nonostante la retorica europeista tenti di negarlo, trovando come comodo paravento l’insorgere dei cd. sovranisti, presentati come focolai di irrazionale agire politico ed economico (speculano sulla paura). Si deve infatti ricordare che è stato J.M. Keynes a mostrare che una limitazione della libera circolazione delle merci (il protezionismo), se è vero che ha un costo economico, è anche vero che protegge dall’assai maggior costo economico che provocano le conflittualità che scatena quello che ad una prima analisi appare un costo minore, cioè l’opzione globalista-liberista. Se è vero che produrre mascherine in paesi asiatici consente di avere prezzi inferiori, e pur vero che in caso di crisi queste mascherine diventano irreperibili e che il costo che ciò comporta, per esempio la chiusura di interi rami industriali, ha un costo ben maggiore di quello che avremmo dovuto sopportare se le mascherine le avessimo prodotte in Italia, ad un prezzo maggiore. Anche se c’è da dubitare che in Italia non saremmo stati in grado di produrle, dopo un certo periodo, a prezzi competitivi. Come non si può dubitare del fatto che il crollo dell’economia italiana e di quella europea provocherebbe rivolgimenti sociali e politici tragici e costosissimi.
La partita non è affatto finita sia perché potrebbero darsi (ma assomiglia ad un’utopia, purtroppo: ma sembra che il cosiddetto patto di stabilità sia finalmente saltato) i giorni decisivi per una radicale trasformazione e riforma dell’Unione Europea: e in proposito rimando a quanto lucidamente sostenuto da Paolo Savona in audizione alle Camere. Sia perché l’unanimismo patriottico di questi momenti potrebbe inevitabilmente lasciar posto alla discordia politica e sociale. Una discordia generata dalla crisi economica e dal cambiamento nella posizione economica di ceti sociali ed individui e dei loro rapporti, provocati dai provvedimenti economici del governo e dal contemporaneo collasso di settori rilevanti dell’economia. Non è insomma indifferente come i governi, e quello italiano in particolare, deciderà di spendere il denaro. Ammesso e non concesso che il debito venga effettivamente monetizzato. Ammesso e non concesso, insomma, che il nazionalismo, quello vero, quello che ha devastato l’Europa, non prenda il sopravvento: o in nome dell’europeismo e cioè della politica neo-mercantilista e di potenza della Germania; o in nome di “sovranismi” ancora più aggressivi, ma che non sarebbero altro, come già sono, il segno, la conseguenza, del fallimento dell’Europa politica e sociale. Quella liberale e socialista del Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.

8. Vorrei finire con una riflessione sul carattere delle ideologie economiche oggi in campo in Italia. Il fatto che Paolo Savona, autore del famoso “piano b” che prevedeva come possibile scelta strategica per l’Italia quella dell’uscita dall’euro, non sia potuto diventare ministro fondamentale nel governo giallo-verde ritengo abbia costituito una grave battuta d’arresto per il Paese. A prevalere, infatti, è stata l’ideologia liberista-nazionalista del berlusconismo, oltre che la paura delle nostre massime istituzioni delle conseguenze internazionali che la scelta di Savona si pensava provocassero. A prescindere dai vincoli internazionali che non possono che costituire uno dei fattori di fondamentale considerazione delle nostre istituzioni più rilevanti, a prevalere è stata quell’ideologia che, ben altrimenti da quanto essa teorizza, ripudia il pensiero di Adam Smith, perché ritiene che l’interesse privato, e più in particolare quello dell’imprenditore (Smith parlava però di capitalisti), coincida con quello pubblico, finendo per idealizzare le magnifiche sorti e progressive dell’Imprenditore-Stato, che ha sostituito lo Stato-Imprenditore. Una cultura economica che rimane di fatto mercantilista, da questo punto di vista, e che come il mercantilismo punta ad una compressione del potere d’acquisto della forza-lavoro e nemmeno concepisce la necessità di uno Stato sociale. Rivelandosi così erede di quella cultura nazionalista e liberista (Enrico Barone, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto) che ha improntato di sé una parte considerevole del pensiero economico del ventennio fascista e che ha mal digerito le forme di intervento pubblico, di matrice liberal-protezionista e per nulla fasciste, che il regime decise di adottare per rispondere alla Grande Crisi del ‘29.
Un mercantilismo, insomma, che non riesce e soprattutto non vuole evolversi in keynesismo, la cui filosofia sociale apre, di fatto – ma in Italia ci vorrà la guerra di liberazione e la nascita della Repubblica – a posizioni liberali e socialiste in quanto invoca la redistribuzione della ricchezza e la socializzazione degli investimenti: considerate per nulla frutto di una utopia politica, quanto di una necessità economica e sociale per salvaguardare gli aspetti positivi del capitalismo. Anche la Lega non è riuscita a liberarsi di questa cultura berlusconiana, come comprova l’atteggiamento tenuto su Autostrade e su Taranto, dove nemmeno si è posta il problema dell’intervento pubblico. Il Partito Democratico al momento non sembra essere riuscito a voltar pagina dal “liberismo di sinistra”, anche se si intravede qualche passo in avanti nella direzione di una ripresa della tradizione socialdemocratica classica, visto il ruolo crescente che sta assumendo il forum sulle diseguaglianze. Ciò che più preoccupa è il pensiero economico cattolico, che, dalla stagione Andreatta-Prodi, protagonista dello smantellamento dello Stato-imprenditore (privatizzazioni), della fine sovranità monetaria (divorzio Tesoro – Banca d’Italia) e dei primi fondamentali attacchi al potere d’acquisto dei salariati (cosiddetto “pacchetto Treu”), sembra pervaso dal liberismo e che nelle sue voci più audaci, come quelle che sembrano far capo a Papa Francesco, sembra avere rinunciato a porsi il problema dello Stato, confidando, probabilmente, che il principio di sussidiarietà consenta una riconquista da parte della Chiesa cattolica di spazi sociali significativi e in prospettiva egemoni. E il Movimento 5 stelle? Non si è posto, al momento, il problema della propria cultura economica: che non è solo un problema di idee, ma anche di organizzazioni e di istituzioni capaci di intercettarle, di crearle, di diffonderle. La sinistra cosiddetta radicale (termine tipico del liberismo di sinistra, ansioso di liberarsi dalla tradizione keynesiana e socialdemocratica), pur avendo voci critiche dell’austerità liberista , non riesce più a trovare la strada dell’organizzazione politica.

9. Che cosa fare allora? Al momento rimane da sperare che questa crisi e questa nuova economia di guerra diano un notevole impulso al dibattito delle idee. E bisogna essere guardinghi perché lo sforzo bellico in corso non si traduca in censura e in paura della democrazia, come avviene in tipiche situazioni di guerra. Nulla di più facile che la retorica patriottica si trasformi in censura, soprattutto quando all’unanimismo subentra il conflitto sociale. La critica è e deve rimanere fondamentale, come il conflitto, che per una democrazia è il sale della vita e il segno della propria forza, come scoprì Luigi Einaudi dopo il delitto Matteotti (ricordate? Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti editore, 1924). È fondamentale che l’interesse pubblico sia dibattuto in Parlamento, come sulle televisioni e sui quotidiani. I quali, guarda caso, si è scoperto che, come veicolo di informazione, rivestono un ruolo strategico in questa crisi; come le edicole, che sono dispensate dalla chiusura. Edicole, tuttavia, che nel corso di questi anni hanno chiuso a migliaia, ben prima del Covid-19, come conseguenza della crisi della carta stampata. Segno – davvero curioso per un paese segnato tutt’ora dal conflitto d’interesse in campo giornalistico e televisivo e da un centro-destra che in tutte le sue componenti fa perno sul sistema televisivo – che allora l’informazione è un settore davvero strategico e dunque che non può essere affossato a causa delle sue pur evidenti criticità. Non può essere affossato non in quanto veicolo di propaganda, funzione che svolge molto bene, come dimostrano i palinsesti e gli assetti proprietari esistenti; ma in quanto veicolo di collegamento dialettico tra il cittadino e la ricerca scientifica e le più alte forme di pensiero; in quanto veicolo di informazioni, insomma, e di punti di vista capaci di interpretarle. Come nella ricerca scientifica, l’intervento pubblico deve cristallizzarsi in questo caso in un equilibrio che sappia coniugare finanziamento pubblico, libertà e autonomia dei finanziati, cioè del pensiero. Anche in questo caso, tuttavia, veniamo da anni e anni in cui, in nome della aziendalizzazione perfino del sapere e della rincorsa all’eccellenza e al merito, si tenta di minarne, con pratiche burocratiche apparentemente neutrali e oggettive, l’indipendenza e la libertà e il pluralismo.


Riferimenti 


  • Si veda il decimo minuto del discorso: https://www.youtube.com/watch?time_continue=612&v=MEV6BHQaTnw&feature=emb_logo
  • Decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, Gazzetta ufficiale. Edizione straordinaria, n. 70, art. 6, pp. 4-5.
  • Per una significativa testimonianza cfr. V. Giuffrida, G. Pietra, Provital: approvvigionamenti alimentari d’Italia durante la Grande Guerra 1914-1918, Padova, Cedam, 1936.
  • Condivido, dunque e al momento, la presa di distanza dalle teorie sullo stato d’eccezione: P. Flores D’Arcais, Filosofia e virus: le farneticazioni di Giorgio Agamben, MicroMega-on line, 16 marzo 2020
  • Rimando a due testi: L. Michelini (a cura di), La guerra e gli economisti, “Il pensiero economico italiano”, 2016, n. 1, con saggi di P. Barucci, R. Faucci, G. Serafini, M. Santillo, R. Giulianelli, F. Amore Bianco, G. Della Torre; F. Bientinesi, R. Patalano (edited by), Economists and War, London New York, 2017, con saggi di F. Bientinesi, F. Coulomb, A. Giordano, T. Maccabelli, F. Masini, L. Michelini, T. Ohtsuki, L. Pagliai, R. Patalano, S. Spalletti, T. Winslow.
  • https://www.milanofinanza.it/news/wsj-corea-e-italia-due-strategie-molto-diverse-nella-lotta-al-coronavirus-202003132153435845?fbclid=IwAR08REs1C6VPR49FCThqk31rSACuQCBD-51JOh9UC-t4q_t2yEC8_ozyYag
  • Stasera Italia, condotto da B. Pollastrini, puntata del 18 marzo 2020, dal minuto 39: https://www.mediasetplay.mediaset.it/video/staseraitalia/mercoledi-18-marzo_F310147101005501
  • Decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, cit., art. 79, pp. 37-38
  • Indispensabile leggere J.K. Galbraith, La Moneta, Milano, Mondadori, 1979. Rimando, poi, ai due testi prima citati: L. Michelini (a cura di), La guerra e gli economisti, “Il pensiero economico italiano”, 2016, n. 1; F. Bientinesi, R. Patalano (edited by), Economists and War, London New York, 2017
  • http://www.politicheeuropee.gov.it/it/comunicazione/mediagallery/video/audizione-del-ministro-savona-sulle-prospettive-di-riforma-ue/
  • P. Savona, Un Piano B per l’Italia, testo integrale in Scenarieconomici.it, dell’8 ottobre 2015: https://scenarieconomici.it/origini-significato-e-funzioni-di-un-piano-a-e-b-per-litalia-in-europa-di-paolo-savona/?fbclid=IwAR25Z8VVFwajkrBFkpZycfAo6-HD3nCk7hPyPXm2V1oIbeUgQXegT2GsMhI
  • Utile leggere come anticipazione dell’idea di imprenditore-Stato il testo di T. Mun, Il tesoro dell’Inghilterra nel commercio estero, ovvero la bilancia del commercio è l’indicatore della nostra ricchezza, Introduzione e cura di G. Forges Davanzati, Napoli, Edizioni Scientifiche, 1994.
  • Rimando a L. Michelini, From nationalism to Fascism: protagonists and journals, in M.M. Augello, M.E.L. Guidi, Marco, F. Bientinesi, (Eds.), An Institutional History of Italian Economics in the Interwar Period. Volume II. The Economics Profession and Fascist Institutions, London, Palgrave Macmillan, 2020
  • Pochissimi durante il fascismo gli studiosi che dal Keynes filo-protezionista e autarchico passano al Keynes della Teoria generale: tra questi segnalo Franco Modigliani, ascrivibile (prima di scappare negli USA in seguito alle leggi razziali) alla “sinistra fascist”a e in quanto tale osteggiato da quella che si definiva la “destra fascista”, di liberistica matrice. Cfr. L. Michelini, Il nazional-fascismo economico del Giovane Franco Modigliani, Firenze, Firenze University Press, 2019
  • Cfr. F. Barca, Cambiare rotta, Bari, Laterza, 2019 con saggi di S. De Luca, M. Florio, E. Granaglia, V. Manco, A.L. Mandorino, A. Morniroli, A. Roventini
  • Mi piace citare un volume al quale collabora anche A. Bagnai, oggi esponente significativo della Lega: S. Cesaratto, M. Pivetti, Oltre l’austerità, MicroMega, 2012, con saggi di M. Pivetti, G. De Vivo, S. Cesaratto, A. Bagnai, M. D’Angelillo, L. Paggi, R. Ciccone, G. Zezza, A. Barba, V. Maffeo, A. Palumbo, A. Stirati, S. Gabriele, M. De Leo, S. Levrero, M. Lucii, F. Roà.
  • Cfr. V. Pinto, Valutare e punire, Napoli, Cronopio edizioni, 2019

 

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