In continuità con quanto accaduto in passato, il dibattito legato alle elezioni municipali francesi ha trascurato pressoché in toto la dimensione internazionale delle città. Un’assenza che appare oggi particolarmente grave tenuto conto che il forte malcontento emerso in Francia negli ultimi mesi non può essere pienamente compreso senza tale prisma.
Come illustrato dai rapporti dell’Agence Nationale de la Cohésion des Territoires, la maggioranza dei centri medi e piccoli d’Oltralpe vivono da anni una profonda crisi economica e demografica, contraltare del successo di una manciata di metropoli aperte agli scambi internazionali e divenute irresistibili poli d’attrazione per i talenti, gli affari e i servizi dei territori circostanti. Private di tali risorse, queste città devono inoltre spesso far fronte all’impatto distorsivo di turisti, cittadini stranieri e investimenti internazionali sugli equilibri sociali e urbanistici, con conseguenze che vanno dalla gentrificazione alla creazione dei tristemente noti quartieri-ghetto, dal comunitarismo alla xenofobia, fino a giungere in alcuni casi all’estremismo violento.
La prospettiva internazionale non può quindi mancare nell’analisi delle recenti ondate di rabbia popolare emerse in Francia, Gilets jaunes in primis. Diviene così possibile comprendere perché l’espressione del sentimento di ingiustizia subita si colori spesso di confusi toni nostalgici per un fantomatico passato autarchico ed evochi forme di complottismo sull’ingerenza politica ed economica straniera, con punte di xenofobia e antisemitismo.
Si tratta di sentimenti che non mancheranno di avere un peso sull’agenda politica delle prossime maggioranze comunali. Eppure, queste ultime avranno la possibilità di affrontare e risolvere almeno parte di questo malessere proprio aprendosi all’internazionale.
Come illustrato nel report sull’argomento recentemente pubblicato dal think tank parigino Terra Nova, la Francia beneficia infatti di un quadro politico, istituzionale e finanziario particolarmente propizio a tale azione. Gli strumenti per realizzare quest’inversione di tendenza appartengono alla Cenerentola delle politiche municipali, la cosiddetta diplomazia delle città, e più precisamente alla sua più recente evoluzione.
La nascita della diplomazia delle città risale al Secondo dopoguerra, quando, dopo secoli di monopolio degli Stati sulle relazioni internazionali, città di tutto il mondo iniziano a costruire una propria rete internazionale con un forte portato idealistico. All’intento pacifista dei gemellaggi tra città di Paesi belligeranti si aggiunge presto quello solidale che porta le città del nord ad affiancare quelle del sud nel proprio sviluppo.
A partire dagli anni ’90 l’azione internazionale di un certo numero di città a vocazione globale si arricchisce di una componente economica nota come marketing territoriale. Spesso affiancate da società di consulenza, queste città creano così il proprio “brand” e competono tra loro per attrarre turisti, imprese e investimenti dal mondo intero. I costi necessari per mettere in piedi un tale approccio ne limitano però la diffusione, contribuendo così in alcuni casi ad acuire le disuguaglianze territoriali già evocate.
Nei primi anni 2000 che si afferma infine la terza tappa del processo, che unisce l’idealismo della prima al pragmatismo della seconda. Attraverso una metodologia facilmente mutuabile e ispirata ai valori della partecipazione e dell’inclusione, l’azione internazionale viene di fatto rifondata e rilanciata grazie ai contributi e all’energie degli attori locali.
Ed è proprio in quest’ultima tappa che si manifesta tutto il potenziale delle città di trasformare l’internazionalizzazione da processo subìto e spesso deleterio a uno strumento capace di fornire risorse politiche, economiche e tecniche alla comunità. L’attività tipica della solidarietà tra città, la costruzione di un pozzo in un Comune africano, diventa così uno straordinario strumento di sviluppo per la città benefattrice. Quest’ultima coinvolge ONG e comunità migranti locali nella definizione e gestione del progetto, attribuisce i lavori alle proprie imprese e offre occasioni di volontariato internazionale ai propri giovani, ottenendo inoltre in cambio un rafforzamento della propria visibilità e attrattività internazionale e ponendo le basi per un partenariato sempre più equilibrato con una città in sviluppo.
Tale approccio non è passato inosservato agli attori “tradizionali” delle relazioni internazionali. I Comuni francesi lo ritrovano infatti come requisito nei generosi bandi di cofinanziamento pubblicati dal Ministère de l’Europe et des Affaires Étrangères e dall’Agence Française pour le Développement, oltre che in quelli dell’Unione Europea (in particolare nel programma Europa per i Cittadini) e dell’ONU (come nel caso della Rete delle Città Creative dell’UNESCO).
Seppur ancora minoritari nel panorama francese, gli esempi in questo senso illustrano molto chiaramente che la risposta, spesso entusiasta, degli attori del territorio debitamente coinvolti nelle azioni internazionali genera ricadute locali ben concrete. Gli esempi non mancano: le Maliane residenti a Montreuil sono divenute il motore dei progetti di promozione dei diritti delle donne a Yelimané (Mali dell’ovest); grazie a un partenariato con l’Alleanza delle Civiltà dell’ONU, La Courneuve sta combattendo la propria immagine di città povera e pericolosa attraverso programmi d’integrazione delle minoranze e la creazione di un Consiglio comunale dei giovani; attraverso la propria Maison de l’International, Grenoble ha moltiplicato il coinvolgimento degli attori locali nei diversi progetti internazionali in corso; la stessa Parigi ha realizzato un partenariato con Medellín volto a coinvolgere i rispettivi abitanti in una riflessione comune sul futuro della mobilità urbana.
Saprà la diplomazia delle città 3.0 affermarsi come risposta creativa e partecipata ai malesseri che l’internazionalizzazione passiva ha causato a così tanti cittadini francesi? Alla fine, tutto dipenderà dal coraggio e dalla volontà politica dei nuovi eletti, chiamati a scegliere tra due dividendi politici tanto attraenti quanto antitetici, quello della rabbia e quello dell’entusiasmo.