Prendiamo subito di petto la questione che più agita le menti: la dichiarazione di C. Lagarde di ieri è uno scivolone o di una manovra premeditata? Se è premeditata, o peggio volta ad affondare l’Italia, bisogna dire che è anche miope. L’Italia non è la Grecia e con l’Italia affonda l’Europa. Se teniamo però conto delle rettifiche successive, è più verosimile ipotizzare che Lagarde abbia detto come peggio non si poteva qualcosa di vero, e di compatibile addirittura con un cambiamento degli orientamenti europei nei confronti dell’economia e della solidarietà fra Stati.
Come avrebbe dovuto dirlo? Pressappoco così: “la politica monetaria condotta finora, e inaugurata dal mio predecessore, ormai da sola non può bastare. Siamo certo disposti a fare “whatever it takes”, ma con effetti meno forti e strutturali di prima. Terremo certo conto del fatto che l’Italia è particolarmente colpita acquistando quote maggiori del suo debito pubblico (è riferimento alla possibilità di discostarsi dai “capital keys”), tamponando così lo spread. Ma siccome la crisi che rischia di innescarsi è più profonda, e la politica monetaria è molto meno efficace di prima, bisogna, se davvero vogliamo stabilmente “chiudere gli spread” (che, per inciso, sono di per sé un indizio di dissoluzione dell’eurozona), allora dobbiamo complementare la politica monetaria con politiche fiscali il più possibile concertate, sia dal punto di vista della spesa che del finanziamento del debito che il suo aumento comporta. La cosa spetta anche ad altri”. Il senso del suo discorso avrebbe quindi potuto essere riassunto in modo altrettanto lapidario di quello del suo predecessore. Non “Whatever it takes”, ma “Whatever WE take”.
Ha detto così? No. Proprio no. Ha tenuto un discorso la cui ambiguità non è tollerabile. E bene ha fatto Mattarella a insorgere. L’“errore di comunicazione” non è una marachella e non va per nulla minimizzato. Anche perché si assomma ad altri errori di altri decisori, come per esempio i mercati. “I mercati” ormai appaiono anch’essi come fattori di instabilità per il sistema, e quindi alla fine anche per se stessi. Ecco un’altra cosa da vedere, senza demonizzazioni della “finanza”, ma con una competente attenzione alla possibilità di imbrigliarla a nostre e a suo stesso vantaggio.
Ma prendiamo il discorso non per la sua forma del tutto impropria, ma per il contenuto che se ne può con pazienza distillare.
La politica monetaria non ha fatto uscire l’Europa dalla crisi. Ne ha contenuto gli effetti, e ha perso via via efficacia, come peraltro è noto in BCE. Ora dunque è necessario che gli spazi fiscali vengano allargati per tutti, e che chi ha più spazio fiscale lo usi.
Non solo per sé, ma per tutti, giacché gli effetti delle espansioni fiscali nazionali non si limitano ai territori nazionali ma si estendono al mercato comune. Si tratta poi di rivedere i margini di espansione, per esempio rimettendo mano a un concetto di “PIL potenziale” che fa acqua da tutte le parti e che limita inutilmente i margini di azione fiscale.
Ed è ovvio che non solo le spese anche correnti per far fronte all’emergenza devono essere scomputate dai deficit, ma anche e soprattutto gli investimenti necessari per riempire il vuoto che i tagli sistematici, prolungati e cumulativi al SSN hanno trasformato nella voragine di posti letto mancanti che la crisi sanitaria ha rivelato.
Le politiche fiscali espansive sono necessarie per l’emergenza e per uscire dalla struttura di fondo che rende le economie fragili a fronte della crisi, che in questo tragico senso è anche un’occasione per cambiare rotta. Come del resto ci insegna la storia delle crisi finanziarie, dalla nascita della Banca di Inghilterra a fine seicento al New Deal americano degli anni trenta.
Bisogna spendere di più, tanto in parallelo quanto in modo concertato e solidale. Bene. Ma “i soldi”? Come finanziare l’espansione dei bilanci pubblici in un sistema pazientemente disegnato negli anni per impedirla?
Finché i mercati finanziari continueranno ad avere lo spazio che hanno ora, e che possiamo misurare in termini di distruttività dopo la giornata di ieri, l’espansione resterà azzoppata.
I mercati non possono continuare ad avere lo spazio che hanno ora perché in momenti come questo mostrano tutta la loro inefficienza. Se basta una “frase infelice” per scatenare l’inferno, allora all’inferno ci siamo già.
Veniamo quindi all’ultimo punto da toccare, per ora. Ormai da ogni parte, e anche da personaggi da cui non ce lo si sarebbe aspettato, visto che hanno passato gli ultimi anni a dire che se i soldi non ci sono allora non si spende, si dice il contrario: si spenda e si finanzi il deficit “con gli eurobond”.
Se ne parla, di eurobond, come se ci fossero già, ma non è così. E non solo: spesso se ne parla senza nemmeno sapere bene come farli. E come farli bene.
“Eurobond” dovrebbe significare quel debito che l’eurozona emette a partire da un ministero federale delle finanze, che garantisce le proprie emissioni di debito con i flussi futuri di imposte che direttamente raccoglie, e che decide come spendere i soldi che raccoglie.
Tutto questo implicherebbe un debito mutualizzato fra tutti gli stati dell’eurozona (fine dello spread) e che l’Europa potrebbe, o meglio dovrebbe organizzare trasferimenti di risorse dagli Stati più forti a quelli più deboli. Come avviene nell’unica unione monetaria di successo della storia: quella degli Stati Uniti d’America.
Ma ora chi riesce a credere che proprio il coronavirus renderà possibile in breve tempo ciò che non si è potuto/voluto/saputo fare in decenni?
E tuttavia l’“eurobond”, o meglio un safe asset europeo è necessario, ed è anche fattibile senza dover passare a una struttura compiutamente federale. Le istituzioni esistenti, ivi compresa la BCE, possono dare un contributo. Anche il MES potrebbe entrare nel gioco con un ruolo molto importante di stabilizzazione dei mercati.
Ma tutto ciò implica un cambiamento di mentalità. come mi è capitato di scrivere prima della crisi del coronavirus, se si vuole “salvare gli Stati”, la prima cosa da fare è non trattarli come quello che non sono, cioè debitori privati. Le OMT, che alcuni evocano e di cui le dichiarazioni di Lagarde potrebbe essere viste come il “trigger”, comporterebbero condizionalità per gli stati tali da metterli in ginocchio davanti ai mercati.
Altre strade devono essere tentate, e le istituzioni europee devono imparare a ergersi come uno scudo tanto per gli Stati, che vedranno aumentare il loro bisogno di finanziamento, quanto per i mercati, che sempre più avranno bisogno per se stessi di una stabilità che non possono creare da se stessi.
Molti lo hanno detto, e va ribadito: la crisi del coronavirus è per il progetto europeo l’ultima occasione per rimettere la barra dritta. O l’Europa prende su di sé i compiti di cooperazione e solidarietà che ne giustificano l’esistenza, o semplicemente si dissolverà.
Proprio perché è uno shock esogeno, e per nulla “idiosincratico”, ma che accomuna tutti, e proprio perché arriva sul terreno di una crisi strisciante dell’intera eurozona, la crisi è l’occasione migliore per rendersi conto delle reali opzioni di politica economica che devono essere messe in campo.