Quando Angela Tasca muore a Parigi, il 3 marzo di sessant’anni fa, è ormai fermo a letto da più di due anni.

Effetti di una malattia al sistema nervoso centrale i cui primi sintomi sono già nel giugno 1950, quando scrive in uno dei suoi quaderni: “Leggerissimo tremito intorno alla mano destra, o meglio lieve difficoltà a tenere con fermezza la stilografica, minore sensibilità della punta delle dita della stessa mano. Quando poi sono andato a lavarmi i denti, mi sono accorto che la guancia destra era meno mobile e come se fosse leggermente gonfia. Nessuna osservazione per gli arti inferiori” [Archivio Tasca, Quaderno B, p.61].
Quando nel 1957 la malattia si fa più grave prende la decisione di dismettere gran parte della sua biblioteca e del suo archivio (ratificata tra novembre il 1957 e il marzo 1958 quando firma l’accordo con Giangiacomo Feltrinelli: la calligrafia malferma denuncia, inequivocabilmente, il suo stato di salute). Quella decisione è anche un atto di fiducia a un ente giovane – la Biblioteca Feltrinelli aveva otto anni di vita – e a una generazione: la possibilità che quelle carte non siano solo di uno studioso e militante, ma abbiano una vita, consentano ad altri di lavorare.
Fiducia ben riposta. Così è andata.

È indubitabile che un segmento rilevante della storiografia, non solo italiana – perché delle sue carte e dei suoi studi, dei suoi appunti e dei suoi carteggi, senza dimenticare la ricchissima biblioteca, si sono serviti storici di molti Paesi: francesi, prima di tutto, ma anche tedeschi, spagnoli, statunitensi – deve molto alle note di lavoro di Angelo Tasca.
E deve molto non solo per i dati o le conclusioni storiografiche, ma anche per la capacità di costruire fonti seriali di lavoro.
Per esempio, è molto interessante il modo in cui Angelo Tasca nel 1932, in una dimensione di sconfitta, riesce a scavare in un testo che certo gli ricordava molto il dramma di quella sconfitta, come l’analisi del Diario 1922 di Italo Balbo, che racconta di cosa testimoniasse la pratica della violenza negli anni dell’ascesa del fascismo (è possibile leggere il testo di Tasca nell’eBook Un normale stato d’eccezione. Crisi italiana e fascismo). Scavare in quel testo non è un modo per rivivere una sconfitta, ma per fare i conti politici, e soprattutto culturali. Ovvero misurarsi, laicamente, con ciò che non si è capito dei propri avversari di allora.

Un’analisi che allora lo induceva a riflettere comparativamente con le incertezze e le inquietudini della democrazia francese, in quegli anni costellata di molti elementi che sono strutturali delle condizioni di crisi: gli scandali finanziari; la crescita di un movimento politico e di opinione a carattere non urbano, spesso qualunquistico comunque radicalmente critico nei confronti delle istituzioni della Repubblica; l’espansione di fenomeni di radicalismo di destra; la disaffezione di parte dei ceti borghesi e delle classi medie rispetto allo Stato.
In quel malessere, nel ventre profondo di quel Paese che dal 1936 è anche il suo Paese (in quell’anno ne diventa cittadino), Tasca indaga il senso e la natura di quella crisi. Una crisi che mette in discussione anche quei valori di terra della libertà su cui ha costruito gran parte del proprio mito politico dall’89 in avanti e che contribuisce a incrementare il tasso di xenofobia rispetto alla presenza di non francesi sul proprio territorio. È una crisi che accanto alla stagnazione economica, si fonda soprattutto sulla sfiducia e sulla delusione politica e che propone una chiusura del paese su sé stesso.
Non è solo questo, tuttavia, a rendere importante una riflessione sul fascismo italiano a metà degli anni ’30. Quel tema, infatti, ha altre valenze. Secondo Tasca, infatti, il tema del fascismo esprime una condizione psicologica e politica in cui è importante, oltre all’episodio rievocato, la soggettività. In questo senso il tema della violenza è essenziale. Una questione – quella della violenza – che va distaccata e resa autonoma dall’interpretazione della violenza fascista come tecnica indispensabile per sconfiggere l’avversario socialista. Ipotesi peraltro errata e infondata perché la violenza fascista né favorì né fu determinante per la sconfitta socialista. Semplicemente si sviluppò a sconfitta già avvenuta.

È probabile che Tasca, nel momento in cui rifletteva su questa dinamica, avesse davanti a sé una possibile parabola che anche in Francia travolgeva, come già in Italia, e poi in Germania e in Austria, il movimento sindacale e i partiti della sinistra politica. Ovvero volesse indicare un possibile epilogo su cui doveva attivarsi l’intelligenza del “politico”. Una riflessione che lo accompagna per tutti gli anni ’30 e che caratterizza complessivamente la sua indagine sul fascismo italiano, misurandosi con due domande rilevanti che hanno il carattere della “lunga durata”.
Per la precisione:
1) il fatto che il fascismo potesse anche essere considerato, più che una replica alle difficoltà della congiuntura, anche un modo in cui il cambiamento indotto dalla crisi si affermava per vie e in forme radicalmente diverse, se non opposte, a quelle che le culture delle sinistre europee e dei movimenti operai e sindacali avevano immaginato lungo tutto il ciclo dell’industrializzazione dalle giornate del ’48 europeo in poi.
2) Il fatto che quell’esito metteva in discussione tanto la visione del rapporto tra tempo e politica quanto il partito politico come attore capace di definire il rapporto con la politica.

È dunque il Novecento e le forme rinnovate dell’agire politico che fanno da sfondo a queste pagine. L’indagine intorno alle origini del fascismo italiano costituisce non tanto un rovello su come e perché una vicenda specifica abbia avuto, in un contesto dato, un esito tragico, ma sui vettori di una crisi complessiva – culturale, sociale, politica, antropologica – che più volte si è ripresentata nello scenario del Novecento. Al suo interno, la Marcia su Roma acquista valore per la lunga storia che la produce, per le forme della politica che include o a cui allude, come rottura o come innovazione della politica. In breve come storia del costume politico, ma anche della mentalità, a cui è chiamato a confrontarsi lo storico, non solo con i singoli episodi, ma anche con gli interrogativi che propongono le forme della politica nell’epoca della modernizzazione.

Un tema che appassiona Tasca non solo come analista politico, ma anche per la natura del suo essere “politico”. Una condizione che nasce dalla crisi della politica e che riecheggia suggestioni già presenti all’inizio della propria esperienza di fuoriuscito, fin dalle riflessioni che Tasca alla fine degli anni ‘20 viene componendo sul caso russo, quando analizza l’azione della direzione bolscevica nei messi a cavallo dell’ottobre 1917. Una questione che rimane uno dei punti interrogativi strutturali della cultura politica dell’uomo Tasca alla fine degli anni ’30 nel pieno della crisi politica, sociale e culturale della Francia tra “drôle de guerre” e Governo di Vichy. Condizione duplice. Da una parte, testimonia della crisi stessa della sua militanza politica e rinvia al rapporto tra politica, ideologia e cultura proprio dell’esperienza e della riflessione di tutto il fuoriuscitismo antifascista. Dall’altra, allude a quella dimensione della malafede cui in quegli anni inviterà a riflettere un altro grande intellettuale spesso “solo” come Nicola Chiaromonte.
Un aspetto che non si schiaccia solo sulla questione della solitudine, come oppure aveva intuito Silone, quando scrive di Tasca su “Tempo presente” nel 1962, ma riguarda il senso, la fisionomia e il “vissuto” di un’esperienza collettiva: quella della militanza politica e della sua parabola nel corso del Novecento. Un tema che, al di là del profilo specifico, parla al nostro presente.

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