Gli importanti obiettivi raggiunti dal governo ungherese, i pericoli incombenti sul paese, l’accento posto sul continuo impegno dell’esecutivo a realizzare gli obiettivi nazionali. Questi sono, in sostanza, i contenuti del discorso annuale sullo stato della nazione pronunciato da Viktor Orbán lo scorso 16 febbraio. Il piglio deciso, l’ostentata passione nel difendere gli interessi nazionali risultano essere sempre parte dello stile con cui il premier si rivolge ai suoi connazionali dando ancora una volta ai fedelissimi la sensazione di essere protetti da un sistema forte.
Quest’ultimo li tutelerebbe da diverse minacce esterne: gli speculatori alla George Soros, la tecnocrazia dell’Ue, i flussi immigratori, gli appetiti delle multinazionali, per citare i più noti. Difatti, Orbán si è scagliato, nel suo intervento, contro i primi due “pericoli” e fatto riferimento alle nubi oscure che si starebbero addensando, sempre più massicce, sull’economia europea. Nell’elargire al suo pubblico dati e aggiornamenti sul progresso economico del paese, Orbán ha parlato di una crescita economica ungherese del 4,9% che supera la media europea. “La crescita europea, specie quella della zona euro si è fermata”, ha precisato il primo ministro di Budapest e aggiunto che il dato europeo del 2020 sarà microscopico. Queste considerazioni sembrano voler mettere a confronto due realtà: da una parte la piccola Ungheria che ha scelto di prendere in mano le redini del suo destino e realizzare le sue ambizioni, dall’altra un complesso europeo bloccato dalla già menzionata tecnocrazia di Bruxelles, rappresentata da una classe politica liberale e decadente. Negli ambienti conservatori ungheresi il liberalismo è sinonimo di assenza di attaccamento a valori e interessi nazionali. Nella retorica orbaniana è una corrente politica giunta ormai al capolinea storico, non più capace di interpretare e dare risposte ai bisogni espressi dalle varie comunità, dai vari popoli. La decadenza liberale, quindi, messa al cospetto del decisionismo mostrato dall’esecutivo ungherese, dal suo liberarsi di orpelli e tabù facenti parte di quel “politically correct” che per le autorità di Budapest sa di ipocrisia e di muffa. Il superamento di queste posizioni, avvenuto grazie al Fidesz di Orbán, avrebbe permesso all’Ungheria di affermarsi sulla scena europea. Così, nel suo discorso, il premier ha mostrato di considerare grande il decennio che l’Ungheria ha appena trascorso. Grande ma caratterizzato da un percorso difficile costellato da vari pericoli tra i quali la crisi climatica e il calo demografico della popolazione. Il primo ministro si è riferito agli incentivi economici dell’esecutivo a beneficio delle coppie sposate per provare a invertire la tendenza negativa. A suo avviso tali misure hanno sì, contribuito ad arginare il declino della popolazione, ma sono necessari ulteriori interventi. Infatti, a fronte dell’aumento del numero dei matrimoni e della diminuzione di quello dei divorzi, citati da fonti governative, il calo demografico continuerebbe ad essere rilevante tanto da far dire a Orbán che “quello ungherese continua ad essere un popolo in pericolo di estinzione”. È in particolare dal 2015, anno in cui centinaia di migliaia di rifugiati siriani sono fuggiti dal loro paese in guerra, che l’uomo forte di Budapest ha intensificato la propaganda anti-immigrazione e sottolineato la necessità di aumentare le nascite in un paese che ha attualmente 9.800.000 abitanti.
L’obiettivo delle autorità è quello di ribaltare le proiezioni che prevedono un ulteriore decremento della popolazione ungherese che potrebbe scendere a 8.300.000 persone entro il 2050. Una situazione per la quale, secondo la retorica orbaniana, il paese non può permettersi comportamenti sessuali “devianti” e non tesi alla procreazione. Vi è anche da considerare il fatto che in una decina d’anni l’Ungheria ha conosciuto una consistente emigrazione verso i paesi più stabili del continente, perdendo numerosi giovani e in generale manodopera qualificata. Secondo l’OCSE un milione di ungheresi avrebbe lasciato la propria terra nel periodo compreso fra il 2008 e il 2018. La natalità ha quindi un posto prioritario nell’agenda del governo danubiano, nella quale compare anche l’ambiente con alcune misure annunciate da un insolito Orbán: aumento delle aree boschive pari al 27%, misure per vietare gli imballaggi in plastica monouso e incentivi all’uso di auto elettriche. Per i verdi, però, i provvedimenti che si inseriscono nell’impegno per contrastare il cambiamento climatico sono in ritardo e diversi interventi fuori fuoco. Intuendo la necessità di aggiornare i termini della propaganda e prevedendo un calo di efficacia del tema “migranti”, il leader ungherese si è soffermato sui problemi legati alla minoranza Rom e ai detenuti nelle prigioni nazionali.
Il premier punta il dito contro le compensazioni stabilite da corti di giustizia a favore dei Rom in quanto a lungo oggetto di segregazione nelle scuole e obbligati a un insegnamento di livello inferiore rispetto a quello impartito agli altri studenti. Nel discorso ha definito “insostenibile il fatto che lo stato debba pagare cifre milionarie di indennizzo per giovani Rom e per criminali scontenti delle condizioni carcerarie”.Orbán attacca quindi la Corte europea dei Diritti dell’Uomo che ha, appunto, condannato Budapest a indennizzare dei detenuti sulla base di denunce fatte da organizzazioni attive sul fronte dei diritti civili che segnalavano condizioni disumane nelle carceri ungheresi. Le critiche dell’opposizione al discorso non si sono certo concentrate sugli aspetti ambientali ma hanno stigmatizzato una situazione sociale critica e una politica estera tutt’altro che saggia: così secondo Péter Jakab, leader di Jobbik, Orbán ha “lasciato soli lavoratori e pensionati”, per Ferenc Gyurcsány, fondatore e leader della Coalizione Democratica (DK),” l’Ungheria non è mai stata così divisa” e negli ultimi dieci anni “ha perso numerosi amici all’interno dell’Europa comunitaria”. Per Dialogo per l’Ungheria (Párbeszéd) il premier non ha dato risposte ai temi più scottanti che riguardano la sanità, l’istruzione e la crisi abitativa. In altre parole, secondo la critica, Orbán evita da lungo tempo i veri problemi e vanta progressi di cui la maggior parte della popolazione, quella del paese reale, non ha modo di accorgersi. Come già precisato, il governo sottolinea il fatto che l’economia ungherese cresce, ma anche volendo dar retta ai dati che sostengono tale circostanza va notato che questa crescita è per pochi. D’altra parte vi sono stime secondo le quali il problema della povertà è diffuso nel paese e tocca pesantemente l’infanzia.
Secondo la GYERE, un’associazione che si occupa di questo argomento, tra il 2007 e il 2017 è cresciuto il numero dei nuclei familiari appartenenti alla più bassa fascia di reddito. Sempre secondo l’indagine in questione, nel 2017, 125.000 bambini sono cresciuti in famiglie con genitori disoccupati e il 30% degli strati sociali più poveri cresce oltre la metà dei bambini ungheresi. La sanità è in condizioni critiche per ragioni infrastrutturali e di carenza di personale qualificato; il settore dell’istruzione non è più fortunato e abbisogna di un’opera di ristrutturazione di diversi edifici che ospitano le scuole e di rinnovamento di programmi e metodi didattici. Anche in questo caso, la situazione è critica: numerose sono state le recenti proteste contro il programma didattico destinato a entrare in vigore il prossimo settembre. Esso comprende letture di scrittori come Albert Wass e Ferenc Herczeg di cui i contestatori sottolineano le propensioni filofasciste. Manca invece Imre Kertész, unico Nobel ungherese per la letteratura. Sopravvissuto all’Olocausto e scomparso nel 2016, ha sempre avuto una posizione nettamente critica nei confronti del sistema di Orbán. Questo programma e in generale la politica culturale del governo hanno l’obiettivo di privilegiare autori e istituzioni nazionalisti e contrastare quella che il premier definisce “cultura liberale decadente”.
A fronte di tutto ciò occorrerebbe un’opposizione compatta, in grado di dar luogo ad alleanze basate su una sintesi politica concreta e concepire un progetto politico alternativo che possa interessare gli elettori. Il punto è che le forze di opposizione non hanno ancora questa capacità e il successo alle amministrative dello scorso ottobre è sì significativo, ma non deve creare illusioni, anche perché non è detto che lo stesso schema possa essere replicato a livello nazionale. Recenti sondaggi sostengono che il Fidesz ha perso 2-3 punti percentuali in termini di consenso popolare ma che a ciò non corrisponde un rafforzamento delle forze contrarie. Ci sono poi da ricucire il rapporto con l’elettorato e spargere antidoti ai veleni della lunga e martellante propaganda di un esecutivo che ha incoraggiato sentimenti di paura e di ostilità verso chi è diverso e non la pensa come i fedeli di Orbán. C’è anche da lottare contro un’apatia popolare e diffusa su cui il premier conta come fattore che contribuisce a rafforzare il suo potere. Il compito degli oppositori dell’attuale governo ungherese, siano essi rappresentanti di partito, intellettuali o membri della società civile non sarà facile.
Ci vuole però un investimento in questo senso. In mancanza di un simile impegno, secondo i critici, il paese si allontanerà sempre più dall’Europa dei valori, della democrazia partecipativa, perdendo il contatto con gli stati fondatori dell’Ue e i membri di vecchia data e rendendo sempre più problematica la comunicazione con essi. Per l’opposizione, Orbán ha macchiato la reputazione del paese esponendolo a critiche internazionali provenienti da governi progressisti e istituzioni europee e non solo, e ne ha fatto una terra in cui i diritti fondamentali non sono rispettati preferendo Mosca a Bruxelles. Budapest e Varsavia sono sotto il mirino dell’Articolo 7 per provvedimenti che, secondo l’Ue ledono lo stato di diritto, la conclusione di questa vicenda è ancora lontana e tutt’altro che scritta ma per i contestatori di Orbán si è creato un precedente. Né è prossima a una soluzione quella riguardante la sospensione del Fidesz dal Partito Popolare Europeo, con il primo ministro di Budapest che vorrebbe spostare l’asse politico del PPE a destra e avere in esso un ruolo determinante in termini di strategie e alleanze. Non sarà facile neanche questo e Orbán ne è cosciente; bisogna vedere se nel PPE, al momento di prendere una decisione sul caso Fidesz prevarranno le questioni di principio o opportunismi che hanno portato a una lunga convivenza con un partito che in Europa si è creato un certo seguito sul piano dell’impegno definito oggi “sovranista”.