In questo breve intervento propongo alcuni spunti e indicazioni che nascono non da un impianto teorico ma da una riflessione su diverse esperienze di lavoro territoriale mirato a contrastare la povertà educativa e il fallimento formativo. Indicazioni in parte generali e in altri casi più specifiche in relazione alle politiche scolastiche.
Sul piano generale, in primo luogo, appare chiaro come nell’epoca della politica spettacolo assume una rilevanza particolare la scelta di non accettare le semplificazioni, o, peggio, di collocare il confronto non sulla realtà ma sulla sua rappresentazione. Bisogna scegliere invece la strada, sicuramente più faticosa ma necessaria, di farsi carico della complessità. Per altro, come emerge da tutte le analisi di settore, la povertà educativa si caratterizza come fenomeno multifattoriale, determinato da un intreccio tra fattori soggettivi, condizioni familiari, attori differenti, caratteristiche sociali, economiche e culturali dei diversi contesti.
La seconda indicazione, è l’urgenza di restituire nel nostro fare e nel nostro raccontare “corpi, biografie e nomi propri” alle persone più in difficoltà perché nel racconto collettivo della politica e dei media quelle stesse persone sono state private della loro umanità per essere trasformate in categorie negative, da guardare con sospetto e rabbia; da allontanare in istituzioni totali con o senza muri; da trasformare in nemici opportuni per giustificare le troppo frequenti ignoranze e incapacità della politica ad arginare e contrastare un modello economico e sociale ingiusto e sbagliato. Perché lì, in quella disumanizzazione, sono stati sdoganati l’odio e il rancore come cifre della politica. Anche perché abbiamo l’urgenza di tornare a parlare anche con “gli incattiviti” e con gli spaventati”, perché non possiamo permetterci che la loro rabbia, il loro senso di abbandono derivante dalle disuguaglianze di riconoscimento che umiliano quote ampie di popolazione, continui a trovare attenzione solo tra chi propone odio, competizione, modelli sociali organizzati su enclavi contrapposte in cui la rivendicazione comunitaria si centra sul dominio o sull’allontanamento dell’altra differente.
Venendo all’ambito più specifico delle azioni tese a contrastare la povertà educativa in ogni intervento o politica diventa importante proporre “sconfinamenti” di approccio, sguardo e operatività, perché è evidente come di fronte a bisogni complessi nessuno di noi da solo è sufficiente. Lo stesso vale per la scuola, che se pur messa al centro e riconosciuta come indispensabile nella funzione educativa, contemporaneamente va aiutata ad essere consapevole della propria insufficienza e per questo accompagnata e sostenuta in un processo di apertura al contesto, di lavoro integrato, continuativo e aperto con tutti gli altri attori del territorio, pubblici e privati. Vanno costruiti ponti tra aule, servizi e comunità locali, per fare si che queste ultime si trasformino in “comunità educanti”, intese come ecosistema di attori sociali, culturali ed economici che si connettono e collaborano per assumere, come responsabilità comune e collettiva, la cura e il sostegno ai percorsi di crescita delle ragazze e dei ragazzi.
In seconda istanza, vanno proposti interventi longitudinali, in grado di farsi carico dei percorsi scolastici seguendoli dalla scuola dell’infanzia fino all’accesso all’università. Perché solo così si possono cogliere, fin dai primi anni i segnali predittivi che fanno emergere le situazioni in cui è più alta la possibilità di abbandono o fallimento; si accompagnano le tappe delicate in cui è più alto il rischio di dispersione; si restituisce senso e utilità alla funzione di orientamento.
Un terzo tema riguarda l’attenzione a non tenere più separata la didattica curriculare con le attività extra-curriculari. Non si può continuare a portare il “bello” e l’innovazione didattica nel tempo extra-scuola. Per altro solo con il coinvolgimento di docenti e dirigenti, solo con la co-progettazione integrata tra scuola ed educatori esterni, si può costruire sostenibilità nel tempo degli interventi, costruendo attività in grado di strutturarsi in modo stabile nella proposta educativa e didattica delle scuole. Superando definitivamente la logica dei progetti che non diventano mai servizio o dei finanziamenti a pioggia centrati più sulla costruzione del consenso piuttosto che sulla concreta possibilità di prevenire e arginare dispersione e fallimento formativo.
Infine, va adottato come sfondo il tema della “bellezza”, dell’arte e della cultura, come parte integrante delle politiche educative. La bellezza come straordinario strumento di aggancio delle carriere fragili e di abilitazione di talenti nascosti o non riconosciuti, soprattutto negli interstizi più duri della marginalità e della sofferenza urbana.
Per fare tutto questo serve un rinnovato governo pubblico, da un lato autorevole perché capace di abilitare e coordinare risorse, d’altro lato perché disponibile non solo ad ascoltare ma anche a cedere nel concreto potere nell’uso delle risorse e nella programmazione degli interventi. Perché determinato nell’abolire procedure come le gare al massimo ribasso. Perché capace di superare un’idea di privato sociale vissuto solo come strumento per esternalizzare servizi o reperire manodopera a basso costo.
Infine, va detto che la lotta alle disuguaglianze educative deve essere assunta come priorità della politica, perché sappiamo che le stesse orientano molte dimensioni della vita degli esseri umani fin dalla primissima infanzia e lungo tutto il tempo della crescita. Così come sappiamo che il mancato accesso all’istruzione e il depotenziamento degli investimenti educativi e formativi sulle persone sono presupposti per l’innestarsi e il cronicizzarsi delle disuguaglianze. E, ancora, che non ci può essere credibile e giusta innovazione se i figli dei poveri hanno molte meno probabilità di finire bene la scuola e di imparare.
O si guarda in questa direzione, oppure il rischio è che ogni intervento finisca per essere contenimento, o in modo ancor più irresponsabile determini una cronicizzazione delle disuguaglianze che tutte e tutti diciamo di voler superare.
Infatti, se è vero che un bambino o una bambina che nasce in una famiglia seguita dai servizi sociali nei primi tre anni di vita ha a disposizione circa un decimo delle parole a cui può accedere un suo coetaneo che nasce in una famiglia ceto medio; se è vero che il fallimento formativo di massa incide in negativo e in modo rilevante sul PIL del Paese; se è vero che più di un milione di bambine e bambini sono in povertà, allora significa che le politiche educative sono presupposto stesso dello sviluppo e non suo esito. O si guarda in questa direzione, oppure il rischio è che ogni intervento finisca per essere “contenimento”, “rimedio” o, in modo ancor più irresponsabile, determini una cronicizzazione delle disuguaglianze che tutte e tutti diciamo di voler superare. Dobbiamo lavorare contro il rischio che la politica diventi mera gestione dell’esistente e quindi finisca per perdere ogni possibilità di ospitare e produrre emozioni e sogni.