La Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ha immaginato una serie di incontri che pongono al centro la memoria e che coinvolgono l’Associazione italiana di storia orale (Aiso) insieme alla Società italiana di neuroetica. Il primo di questi incontri mette a confronto il concetto di memoria con quello di identità. A seguire, gli altri appuntamenti saranno dedicati alle memorie sbagliate e ai falsi ricordi, alle trasformazioni della memoria tra gli strumenti della ‘mente estesa’, alle seduzioni, manipolazioni e scissioni della memoria nell’autobiografia di chi sta tra crimine organizzato e collaborazione con la giustizia.
Ma perché cominciare dal confronto tra memoria e identità? Se è salda la convinzione che, a livello individuale, sia la memoria a conferire identità, è la traslazione a livello collettivo di questo convincimento a essere problematica. Come concetti, identità e memoria sono entrambi ambigui perché indicano contemporaneamente contenitori e contenuti di diversa natura. E restano comunque difficili da definire: implicano processi di costruzione, selezione e soppressione che possono essere involontari e non intenzionali, ma anche volontari e intenzionali; si riferiscono tanto al ricordo quanto all’oblio, a rappresentazioni tangibili e intangibili, ma rimandano anche al corpo e alle sue basi biochimiche e organiche.
Nel loro uso pubblico, la memoria e l’identità hanno in comune l’essere di recente emerse nel linguaggio corrente della comunicazione sociale, politica, culturale, con un successo tale da spiazzare altre parole chiave. È qui che il loro significato può esser compromesso da pericoli di ipertrofia e abuso, ma anche dal rischio di mettere a repentaglio, silenziare o svuotare di senso qualcosa di valore essenziale.
È difficile infatti sottostimare l’importanza della memoria tra le facoltà umane, se non altro perché ha a che fare praticamente con tutto quello che facciamo. Individualmente, senza memoria saremmo incapaci di parlare, ragionare, sognare, desiderare, leggere, identificare oggetti e persone, tra cui noi stessi, muoverci nell’ambiente che ci circonda, mantenere relazioni personali. La memoria non è quindi ancillare al pensiero e alla vita dell’uomo, ma vi è legata in modo imprescindibile, tanto da essere oggetto di studio sia nella sua dimensione biologica sia in senso neuro-scientifico.
In una congiuntura temporale di trasformazione e frammentazione accelerata come quella che attraversiamo, però, non sorprende affatto che la memoria sia e sia stata sovra-sollecitata, strattonata e insieme continuamente riformulata da impulsi potenti: dalla fine della guerra fredda con l’onda lunga dei suoi effetti, marcati in Europa dalla caduta del Muro di Berlino e dall’allagamento a Est dell’Unione europea; da un’accelerazione senza precedenti dei flussi di merci, capitali e lavoro a livello globale; dal moltiplicarsi nel mondo di istanze identitarie e preoccupazioni come reazione difensiva; da una disponibilità tecnologica di registrazione, rappresentazione, conservazione della memoria che storicamente non è mai stata così immane né ha mai avuto ambizioni così integrali.
Non sorprende neppure che la memoria oggi ci trasformi e si trasformi in modalità inedite, oscillando continuamente tra manipolazione e ricerca di senso. Né che il termine navighi tra dimensioni plurali, politiche, culturali e sociali. Il processo individuale del ricordare, gli atti sociali della commemorazione e della memoria pubblica e di quella che spesso prende il (controverso) nome di memoria collettiva sono tra gli esempi maggiori di declinazioni della parola memoria con significati molto diversi, spesso divergenti, accezioni intrecciate o nebulose, che non dovrebbero però essere confuse.
La relazione tra memoria individuale e memoria collettiva è tra le più elusive. C’è chi ha sostenuto che la relazione tra memoria individuale e memoria collettiva sia una relazione di dipendenza della prima dalla seconda. Ma se tutta la memoria fosse collettiva, allo storico per esempio basterebbe allora ascoltare un solo testimone per gruppo sociale, mentre sappiamo che non è così: ciascuno deriva le proprie memorie da un ventaglio di gruppi diversi e le organizza in maniera altrettanto diversa. Per la storia orale quindi, quella fra memoria individuale e memoria collettiva non è una relazione di dipendenza, ma una relazione ricorsiva: perché è l’individuo che ricorda, ma sono i suoi gruppi di riferimento che sviluppano ciò che è memorabile e lo sostengono nel tempo.
Se da secoli è oggetto di interesse filosofico e scientifico, imponendosi come grande tema della narrativa prima e della psicanalisi dopo, è con gli anni ’80 del ‘900 che il dibattito sulla memoria va surriscaldandosi, alimentando una sempre più vasta letteratura, articolata in discipline diverse. Alla chiusura del XX secolo si parla quindi di memory boom: lo stesso ‘giorno della memoria’ viene istituito entro questa congiuntura, quando si aprono gli anni Duemila. Il memory boom coinvolge sia quella cultura popolare variamente intesa che incorpora e reimpasta sempre più spesso frammenti, racconti, suoni, sapori, immagini del passato, sia gli studi che cercano di comprendere la memoria attraverso strumenti critici plurali, studi che abbracciano le discipline umanistiche e le scienze sociali, ma anche la psicologia, la psicobiologia e le neuroscienze in generale.
Dentro il memory boom, tanto i neuroscienziati quanto molti umanisti hanno certamente lavorato a partire dai molti disturbi da cui la memoria è tribolata, pur riconoscendola comunque come una delle proprietà adattive più essenziali per la vita dell’uomo. Si tratta di una polarità intrinseca che rende immediatamente più chiaro che (e perché) la memoria, in questo caso tanto individuale e privata, quanto pubblica e collettiva, non è mai, né può esserlo, un campo neutro, ma sempre diviso e conteso.
Questo vortice di attenzione ha visto affermarsi un’idea di memoria come “sistema” (anzi come serie di sistemi in rete: memoria semantica, procedurale, di lavoro episodica, vivida o flash bulb memory) e come processo plastico di elaborazioni complesse e successive, per cui ciò che ricordiamo è plasmato sia dal significato che viene individualmente attribuito all’esperienza originaria connessa al ricordo, sia dalle circostanze sociali del recall. Specularmente, ha visto definitivamente eclissarsi l’assunto della memoria come contenitore dei ricordi dati, ordinato archivio di esperienze vissute e depositate nel cervello o nella mente.
Da un lato c’è la prospettiva di una branca del sapere oggi trionfante: le neuroscienze che studiano i processi biologici e neuronali del ricordare, come si sviluppano nel cervello, come possono essere mappati in modi sempre più fini, rappresentati con nuove metodiche di ottenimento e produzione di immagini. Dall’altro la prospettiva della storia, una disciplina accademica di cui non si fa che commentare la ritirata, a favore di altri vettori del sapere di storia.
A questo appello al confronto della storia con le neuroscienze sulla memoria ha risposto l’Aiso, l’associazione che riunisce alcuni studiosi che, nel fare storia, tengono in una particolare considerazione, tra le altre fonti del passato a loro disposizione, anche quelle che chiamano le fonti orali, ossia le testimonianze in prima persona, l’espressione in forma narrativa della memoria autobiografica sollecitata dall’incontro diretto e dialogico con il ricercatore, nella forma dell’intervista in profondità, della raccolta della storia di vita di qualcuno/a che ha avuto parte in particolari eventi, processi, snodi periodizzanti. Gli storici orali sono certamente interessati al che cosa viene ricordato dal testimone, ma anche a che cosa dentro la testimonianza viene soppresso, al come e perché il passato viene ricordato in un determinato modo, al significato di ciò che viene ricordato e al contesto in cui viene ricordato.
Gli storici orali coltivano un’idea di storia contemporanea definita dal problema del presente, ma che non dà affatto per scontato che i problemi dell’oggi non possano essere studiati mettendo in gioco prospettive temporali diverse da quelle del presente. Eppure, sfidano uno degli assunti impliciti del lavoro storiografico, ossia la nozione di distanza storica, proprio perché sono del tutto consapevoli che l’allora e l’adesso nella testimonianza sono sempre mescolati.
Le fonti orali quindi sono “diverse” sotto tanti profili dalle altre fonti frequentate dagli storici: sono fonti sollecitate, non spontanee; sono una fonte contemporanea alla ricerca e non agli eventi oggetto della ricerca, sono fonti volontarie anche se contengono indizi involontari e molte informazioni non intenzionali, sono fonti orientate a uno scopo. Ma gli storici orali sono i primi a riflettere su che cosa fare di/con questo tipo di evidenza, sulle difficoltà del maneggiarla, sul guadagno di comprensione che deriva dalla raccolta della memoria e insieme sulle trappole, le insidie, gli ostacoli (procedurali, etici, epistemologici) che essa include. Quello che fa la storia orale è considerare la memoria allo stesso tempo come dato di ricerca e come oggetto di ricerca.
Quello che proviamo a fare in questi seminari in collaborazione con la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli è ragionare sul come lavoriamo sulla memoria; che cosa facciamo con il nostro materiale primario, quali difficoltà incontriamo nel farlo; che cosa guadagniamo dall’incontro con la memoria; quali sono le insidie procedurali, epistemiche, etiche che attendono gli storici che si affidano alla memoria del testimone.
Gli incontri dedicati dalla Fondazione Feltrinelli alla memoria mettono a fuoco un’idea di memoria come ricerca, come lavoro, e come opportunità di conoscenza, con tutte le sue fragilità, ma anche con i suoi punti di forza. È del resto proprio la memoria come ricerca (e la comprensione che ne deriva) che merita impegno per difenderla da strumentalizzazioni capziose e violente.