Quando al passaggio tra anni ’80 e ‘90 il territorio ricompare come categoria rilevante del discorso pubblico per l’irruzione del fenomeno leghista, non pochi considerarono questo il segno di una riottosità del paese ai canoni della modernizzazione, politica ed economica. Ho sempre pensato invece che il riapparire in forme dirompenti del tema territoriale fosse espressione di un salto di paradigma economico e sociale con l’affermarsi di nuove forme della politica, della socialità e dell’economia. Sono convinto che molti dei problemi odierni del paese derivino dalla mancata comprensione di allora di quanto i sommovimenti, che in quella fase si erano prodotti ai margini dei circuiti centrali del potere politico ed economico, prefigurassero le forme e i conflitti della società che stava venendo avanti.
Il punto da cui partire è l’affermarsi, nel corso dell’ultimo trentennio del ‘900, di un salto di paradigma da una dialettica capitale-lavoro mediata dalla statualità ad un paradigma flussi globali-sistemi locali con in mezzo il territorio come spazio della società di mezzo, ridefinito in termini di geocomunità e piattaforme produttive di area vasta. Tra anni ’70 e ’90 in Italia, come in altri paesi dell’Occidente, si indebolisce la capacità dello Stato-nazione e dello Stato-welfare di unificare e centralizzare identità, universalità della cittadinanza e produzione di socialità nei territori. Finita la lunga stagione della mobilità sociale per via collettiva mediata dal rapporto tra rappresentanze grande impresa e statualità, il vecchio blocco economico e sociale del fordismo negli anni ’80 inizia a scomporsi, distribuendosi in modo decentrato nei luoghi che erano rimasti ai margini dello sviluppo precedente. Il successivo lungo ciclo del capitalismo molecolare è stato un processo di mobilitazione sociale verso l’alto in forma granulare, da cui è scaturita una composizione di ceti produttivi che non hanno trovato nella politica centrale una forma-stato e una rappresentanza adeguate a coglierne paure e passioni. È stata una lunga transizione, durata si può dire fino ad oggi, caratterizzata da due processi di fondo che hanno progressivamente riposizionato anche la questione del territorio e delle relazioni centro-periferia. Il primo processo è rappresentato dal venire meno del potere sovrardinatorio delle classi e dall’affermarsi di una composizione moltitudinaria del sociale. Lo stesso tema dei ceti medi e dell’inclusione sociale, si sposta dalla produzione collettiva di socialità, alla individualizzazione dello stress da competizione. Anche a seguito del logoramento delle reti comunitarie, ora è l’individuo “armato” della sua partita iva a dover riprodurre in proprio le chance di inclusione. Si intrecciano e in parte succedono tre cicli di lunga deriva: società verticale, società orizzontale e società circolare. Mentre nella società verticale il rapporto centro-periferia convergeva al centro, nella società orizzontale del primo ciclo postfordista e dei localismi produttivi, l’essere inclusi o esclusi più che dal conflitto distributivo dipende dalla capacità di partecipare alle logiche dell’impresa molecolare proliferante. Il secondo processo di trasformazione, ovvero la crisi e la ricomposizione della società di mezzo, ne è l’espressione. La rappresentanza diventa la sfera di una poliarchia di poteri e forme istituzionali, sempre più orientate ad assetti funzionali ai processi competitivi, divenendo parte della trasformazione del territorio in piattaforma produttiva. Lo stesso bene del rappresentare diventa una risorsa messa al lavoro nella produzione di competitività territoriale, perdendo in parte quell’autonomia rispetto alla sfera del mercato che aveva reso la rappresentanza una sfera istituzionale capace di creare fiducia diffusa, identità e appartenenze. Oggi il territorio vive l’emergere di un terzo ciclo lungo, l’affermarsi della società circolare, con un modello caratterizzato da polarizzazione sociale e crisi dei ceti medi, in cui i flussi dell’innovazione tecnologica di rete mettono al lavoro la stessa socialità trasformandola in economia del dato. La circolarità non è soltanto l’economizzare l’uso delle risorse ambientali, fare di più con meno, ma il trasformare in valore/servizio i beni relazionali della vita quotidiana incorporandoli nelle reti del valore attraverso la pervasività social dell’info-sfera. Che ne è del sociale e del territoriale in questo lungo processo? Io scorgo due esiti. Il primo riguarda la diffusione generalizzata di una condizione di vita urbana e il superamento di una divisione rigida tra città e territorio. Prossimità e simultaneità delle reti lunghe si intrecciano, aprendosi un ciclo caratterizzato dal ruolo forte del capitalismo delle reti (digitali, finanziarie, logistiche, ecc.) in cui ad entrare sotto stress è la legittimità delle forme di intermediazione degli interessi tradizionali ritenute non più in grado di mediare l’impatto dei flussi sulle economie locali o viceversa di fornire queste ultime delle necessarie reti lunghe per competere nel mondo.
Il secondo esito, quasi per reazione a questo universalizzarsi della condizione urbana, è l’affermarsi di una dialettica tra faglie sociopolitiche e possibili soglie/tessiture di convivenza socioeconomica. Da un lato, il territorio come dimensione politica e dei poteri diviene una dimensione sempre più astratta, in cui cioè le radicate differenziazioni di modelli regolativi e culturali ereditate come sedimenti storici (ad esempio tra “vecchio” Nord Est e “vecchia” Emilia), perdono sempre più il loro potere reale di strutturare e canalizzare passioni, interessi e processi; dall’altro lato, il convergere di economia, società e stili di vita a formare nuove polarità dello sviluppo che rompono la tradizionale geografia politico-economica, sia dal punto di vista delle centralità che delle nuove periferie. Il territorio come costruzione sociale è oggi contemporaneamente intreccio di più scale spaziali, di urbano e non-urbano; la coscienza di luogo è accumulo di capitali storici e risorsa fungibile. Oggi la relazione centro-periferia esprime più la dialettica tra spazi del margine e poli attrattivi, con in mezzo le piattaforme produttive e l’armatura urbana dell’Italia intermedia, piuttosto che il tradizionale rapporto tra Nord Ovest e Nord Est o N.E.C. Ne testimonia l’emergere di nuove spazialità dello sviluppo che definiscono grandi piattaforme produttive come il triangolo che chiamo LO.V.E.R., centrato sugli assi pedemontano lombardo-veneto ed emiliano con Milano come vertice occidentale. La ridotta capacità della politica di mettersi in mezzo rispetto a questa trasformazione ha fatto crescere fenomenologie di rancore, rabbia, oggi si direbbe di “populismo” o “sovranismo”. Quando nel 2008, alla vigilia della crisi, pubblicai una riflessione sul tema del “rancore”, cercai di ragionare sulle differenze tra il ciclo che mi pareva si aprisse con il sommovimento del 2008 e la stagione degli anni ’80 e ’90. Il rancore, come forma di conflitto senza voce dei ceti medi e subalterni fuoriusciti dall’alveo della politica di classe, inizia a emergere negli ormai lontani anni ’80 con il venir meno del patto sociale tra ceti medi e statualità, con l’indebolimento della capacità collettiva di riflessione sul futuro e sulla dimensione dei fini sociali, non solo dei mezzi. Ma il rancore in formazione degli anni ’80 e ’90 è stato molto diverso da quello “maturo” degli anni odierni. Mentre prima era il lamento di una composizione sociale e produttiva in ascesa sociale che non trovava posto nell’armatura napoleonica del rapporto centro-periferia, il rancore odierno espressione di un società in contrazione, deriva certo dalla condensa dei perdenti nella globalizzazione, ma anche dall’incertezza di chi perdente non è ma si trova privo di sicurezze e teme di regredire, preferendo una società gerarchica come modo per mantenere uno status residuo. La capacità di imprenditori politici di saldare questi due bacini spiega l’ascesa e la capacità di presa politica di ciò che chiamiamo “populismo”. Che se negli anni ’80 e ’90 si rivolgeva ancora a “Roma ladrona” per il ruolo residuo che lo Stato-nazione esercitava, oggi si rivolge a Bruxelles o alla dimensione dei flussi, da cui la torsione “sovranista”.
Per svuotare il bacino del nuovo rancore occorre ripensare e ripuntare su una nuova società di mezzo orientata a creare tessiture e soglie che superino le tante faglie territoriali e sociali che punteggiano il Paese. Oggi l’Italia è solcata oltre che dalla faglia Nord-Sud da faglie molecolari tra poli metropolitani (Torino-Milano), tra grandi hub urbani e territori, tra centri delle città sempre più orientati a diventare piattaforme di eventi e consumi e periferie prese da sindromi dell’abbandono e da crisi della socialità; o ancora tra condizioni ambientali e di qualità della vita e crescita economica, come nel Nord padano o tra le piccole comunità delle aree interne sconnesse dai poli strategici. Lo stesso Sud è solcato da linee di divisione tra assi che connettono poli di potenziale sviluppo come Napoli-Bari passando da Matera e Melfi. Per costruire soglie occorre però una nuova capacità di creare istituzioni, di fare società al di là della pura modernizzazione funzionale. Occorrerebbe compiere l’operazione che non fu avviata negli anni ’80, ovvero esprimere una capacità di mettere in relazione la frammentazione delle identità e degli interessi attraverso una sorta di patriottismo dolce dal basso in tempi di sovranismo dall’alto.