Università di Pisa

Proponiamo qui un breve estratto del saggio di Michele Battini Homo Italicus Orbánicus pubblicato nell’Annale Feltrinelli 2019 Thinking Democracy Now. Between Innovation and Regression.


La democrazia moderna si è rivelata uno straordinario potenziale di libertà individuali e collettive, ma anche l’incubatrice di reazioni spaventose a tali libertà: la democrazia garantisce diritti, regole, separazioni dei poteri e pluralismo, ma produce crisi e instabilità, perché della società essa distrugge il tessuto biologico dei liens sociaux di Antico Regime, e manca di tradizione, appartenenza comunitaria, senso del sacro. Essa può generare accentramento amministrativo, manipolazione autoritaria del suffragio, istanze di protezione sociale corporativa.

La democrazia, infatti, non è solo un ordinamento giuridico fondato sui diritti dell’uomo, sulla sovranità della nazione, sulla cittadinanza, ma anche un tipo di società, a cui Tocqueville ha dato i connotati che si sono rivelati pienamente solo nella società di massa novecentesca[1]: la democrazia è una grande e incessante trasformazione, che non può essere separata dai processi dell’economia di mercato. Sin dal XIX secolo, la ricostruzione di una coesione morale economica e istituzionale della società minacciata dal mercato, dall’individualismo politico e dal conflitto di classe si è perciò affidata ai miti della comunità, dell’identità, della persona integrata nello Stato e ad esso sottomessa.

L’ideologia cattolica intransigente, il saint-simonismo, il corporativismo cristiano, il socialismo nazionale boulangista, il sindacal-nazionalismo, il fascismo o la tecnocrazia nazional-conservatrice hanno offerto esempi diversi di combinazione di categorie della destra politica (il rafforzamento dello Stato per controllare gli effetti di disgregazione prodotti dalla democrazia) e della sinistra sociale (il rafforzamento dello Stato per ragioni di giustizia) contribuendo a realizzare politiche di restaurazione dell’ordine della gerarchia sociale e politica.

La convergenza in corso tra nazionalismo (protezionismo economico) e populismo sociale produce anch’essa la tendenza a restaurare la sovranità dello Stato intaccata dagli istituti della globalizzazione finanziaria (come il Fondo Monetario Internazionale) e dai trattati europei, ma per decifrare la natura autentica della deriva illiberale in corso in Europa e in Italia bisogna infatti distinguere le peculiarità di questa area geopolitica.

Derive illiberali e autoritarie investono innanzitutto i Paesi di recente e rapido sviluppo, come la Turchia di Recep Erdogan, l’India di Narendra Modi o le Filippine di Rodrigo Duarte, per gli effetti delle tensioni presenti tra le spinte alla modernizzazione, la sovranità statuale su territori connotati dal pluralismo linguistico e religioso e tradizioni che resistono alla modernizzazione. In Europa le derive si sono affermate soprattutto nelle aree orientali e centrali: nella Russia di Putin, nell’Ungheria di Orbán, nella Polonia di Duda, nelle repubbliche ceca, slovacca e austriaca: qui – eccettuato il caso dell’Austria – le cause profonde delle tendenze sovraniste, nazionaliste e illiberali riconducono naturalmente alle eredità dello statalismo socialista burocratico e della pianificazione economica centralizzata, ma anche a una più debole modernizzazione e dunque agli errori dei gruppi dirigenti riformisti che si sono installati dopo la rottura del 1989-1991 (i quali hanno spesso accettato di realizzare politiche radicali  di liberalizzazione e privatizzazione, creando le basi di una reazione protezionista e nazionalista antiliberale, sia sul piano economico che politico). Nei nazionalismi dell’Europa orientale e centrale riaffiora la vecchia visione del nesso tra Stato, nazione ed economia che ha connotato la storia di quelle regioni dall’epoca degli Imperi Centrali alla forma degli Stati succedanei dopo la I guerra mondiale.

La macro area occidentale appare invece investita da processi di natura diversa (con la parziale eccezione dell’Occidente atlantico, cioè di Stati Uniti e Canada): l’Europa occidentale, che ha conosciuto una nuova epoca di sviluppo nei decenni alla II guerra mondiale, conosce un evidente declino della forza industriale e della capacità di innovazione tecnologica, oltre che un grave declino demografico: processi strutturali aggravati dalla fragilità crescente (dopo la bocciatura, nei referendum, del progetto costituzionale europeo) delle istituzioni confederali dell’Unione. Processi strutturali e politici sono ulteriormente appesantiti dalla perdita di prestigio delle classi dirigenti: le élites politiche sono considerate incapaci di arrestare il declino economico e di organizzare una redistribuzione più equa delle risorse.

L’arretramento complessivo, in termini assoluti e in termini relativi, dei redditi dei lavoratori e dei piccoli imprenditori, e la precarietà dei ceti impegnati in lavori flessibili minacciati dalle nuove tecnologie creano la psicologia collettiva da “stato di assedio”. La minaccia viene dal basso – i flussi dei migranti – e dall’alto: i profitti dei ceti degli ultra-ricchi e la tendenza all’aumento (dopo la decrescita nei tre decenni successivi alla II guerra mondiale) della ineguaglianza sociale, in condizioni di crescita lenta della produttività e di declino demografico.

L’Europa moderna appare un mondo che ha perso vitalità per effetto della caduta della natalità e per l’insicurezza provocata dalla «minaccia demografica» rappresentata dai flussi migratori, ma anche per le aspettative delle giovani generazioni destinate a uno status sociale meno prestigioso di quelle dei genitori.

Declino economico e demografico riducono dunque le prospettive della democrazia anche perché le scelte di politica economica keynesiana non appaiono più possibili (a partire dal deficit-spending e dalle leve fiscali e monetarie), nonostante le coraggiose immissioni di liquidità effettuate dalla Banca Europea. Gli stessi linguaggi dell’europeismo solidale e dei diritti umani suonano come retoriche vuote e false: in presenza di risorse scarse, è più popolare reclamare in prima istanza i diritti del proprio gruppo, e i movimenti nazionalisti e populisti ottengono attraverso libere elezioni l’investitura maggioritaria. Tra democrazia da un lato e principi democratici, dall’altro, è intervenuta una frattura.

Nei sistemi rappresentativi democratici si intravede il rischio che le scelte elettorali legittimino gli attacchi a quello che Orbán e Salvini definiscono un «liberismo divisivo», e l’amputazione delle prerogative dei corpi legislativi, delle Corti costituzionali, delle libere agenzie di comunicazione. L’attacco all’intermediazione e al principio di rappresentanza, in nome della rappresentazione della identità del popolo-nazione, costituisce la nuova forma dei processi di nazionalizzazione delle masse e la combinazione tra decisionismo, autoritarismo politico e politiche sociali populiste – in Italia simbolizzata dal contratto di governo tra la Lega di Salvini e i Cinquestelle – si manifesta come una nuova forma del vecchio fenomeno dei sincretismi politici che a suo tempo proposero, tra le due guerre mondiali, i modelli di stabilizzazione fondati sulla rappresentanza corporativistica, la tecnocrazia e l’autoritarismo politico.

[1] A. de Tocqueville, L’Antico Regime e la rivoluzione, edizione critica, Einaudi, Torino 1989, con l’Introduzione di L. Cafagna, pp. 558-559. Cfr. R. Nisbet, La tradizione sociologica, La Nuova Italia, Firenze 1965, p. XVIII, e A.J. Mayer, Il potere dell’Ancien Régime fino alla prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 78 sgg.

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