Università degli studi di Milano

Proprio mentre l’Europa iniziava ad avvertire i colpi dello shock finanziario americano, nel 2009 entrava in vigore il Trattato di Lisbona, basato su ambiziosi obiettivi: promozione di benessere diffuso per i cittadini; una crescita equilibrata e sostenibile; un’economia sociale di mercato competitiva capace di assicurare piena occupazione; coesione territoriale; progresso e giustizia sociale.

Ciò che è successo dal 2009 a oggi sembra contraddire in maniera eclatante tutti questi obiettivi. Sono infatti cresciute non solo povertà, diseguaglianza e disoccupazione, ma anche i divari fra generazioni, fra profili occupazionali, fra insider e outsider all’interno di ciascun paese. Si è inoltre interrotto il percorso di avvicinamento fra Europa occidentale e orientale e, quel che è peggio, si è creata una polarizzazione molto marcata fra paesi del Nord e del Sud Europa, invertendo un trend storico di convergenza verso l’alto.

La crisi finanziaria e la lunga e impressionante recessione economica hanno avuto una grande parte di responsabilità. Ma lo «shock sociale» degli ultimi anni è stato anche il frutto di un approccio sbagliato da parte delle istituzioni dell’Unione europea. In forme più o meno dirette, le modalità di consolidamento fiscale perseguite da Bruxelles hanno intensificato i problemi, soprattutto per i giovani e le fasce più vulnerabili della popolazione adulta (i pensionati hanno sofferto comparativamente di meno). Le conseguenze dello shock sociale si faranno sentire nei prossimi anni, forse decenni, anche in termini di minor crescita economica: un paradosso nel paradosso.


Oltre alla crisi e all’austerità, un fattore particolarmente destabilizzante in seno all’Ue è stato il rapido incremento dei flussi migratori, che ha provocato sentimenti e politiche anti-apertura, di marca populista. Il bersaglio principale sono stati i cosiddetti «extra-comunitari», la cui pressione ai confini meridionali e orientali dell’Ue ha assunto proporzioni da esodo biblico con il crollo del regime di Gheddafi in Libia e con la crisi siriana. Tuttavia l’insofferenza ha riguardato sempre di più anche i migranti intra-UE interni, fra paesi membri. La questione della libertà di movimento – in particolare il movimento delle persone – ha subito ovunque un’impennata di politicizzazione sulla scia del referendum britannico del 2016. Per far fronte alla crisi dei rifugiati e alla strabordante ondata migratoria dell’estate 2015 alcuni paesi hanno eretto veri e propri muri protettivi lungo le proprie frontiere. La metafora dell’Europa come «fortezza», coniata negli anni Novanta, si è trasformata in una sinistra realtà. Il grosso rischio è che questa nuova realtà oltrepassi i confini della metafora originaria. Che si vada in altre parole verso un’Europa «fortezza di fortezze», chiusa non solo verso l’esterno, ma anche al suo interno.


Nella sua attuale configurazione, la Ue è un progetto incompiuto. L’ultimo decennium horribile ha mostrato che l’Unione può trasformarsi da soluzione in problema. Invece di essere il teatro e lo strumento per riconciliare apertura dei mercati, democrazia, stato di diritto e coesione sociale, essa rischia di diventare uno scalpello che aggrava e amplifica le dinamiche negative collegate alla globalizzazione di mercati e finanza.

Insieme alle ombre, nel paesaggio attuale c’è per fortuna anche qualche luce. Alcune innovazioni promettenti sono state introdotte negli ultimi anni (come il Pilastro europeo dei diritti sociali), ma soprattutto è in corso un vivace dibattito “progressista”, articolato su tre direzioni di marcia. La prima riguarda la creazione di un efficace dirimpettaio all’Unione Economica e Monetaria (UME): un’Unione Sociale Europea (USE) che temperi e ammortizzi gli effetti negativi dell’UME stessa. Non si tratta certo di federalizzare il welfare nazionale. Ma più semplicemente di sorreggerlo nel suo delicato processo di modernizzazione (per ri-allineare le sue politiche alla nuova configurazione di rischi e bisogni), di integrarlo con nuove iniziative e programmi per la creazione di opportunità, di proteggerlo contro le indebite e perverse esternalità create dalla moneta unica e dalla disciplina UE della concorrenza.

La seconda direzione di marcia riguarda la creazione di una vera Unione Politica Europea: un quadro di istituzioni che – prendendo spunto dall’esperienza delle federazioni storiche – sappia conciliare effettività decisionale e rappresentanza. La cosa importante su questo fronte è capire che l’Unione Politica non è semplicemente un mattone dell’edificio, una dirimpettaia dell’UME e – se verrà istituita – dell’USE. È piuttosto la pietra angolare dell’intero edificio, quella che media e ri-bilancia le tensioni strutturali, e che dà senso all’intero progetto. La Ue è oggi in seria crisi perché non è ancora riuscita a rimediare al suo peccato originale, l’asimmetria “costituzionale” fra dimensione economica e dimensione sociale, dimensione giuridica e dimensione democratica. Nessuna comunità politica può ben funzionare, consolidarsi e stabilizzarsi solo attraverso la legge e il mercato. Solo una lettura scorretta (o auto-interessata) della cosiddetta “sussidiarietà” può pensare che ciò sia possibile. Oggi non è più scontato che l’Ue possa continuare a segnare la strada. Ciò non significa che non si debbano intensificare gli sforzi per sistemare e ri-stabilizzare la costruzione europea, tramite un più equilibrato bilanciamento fra la dimensione economica e quella sociale dell’integrazione e assetti istituzionali più intelligenti e più attenti ai processi di legittimazione democratica.

La terza direzione ha in fine a che fare proprio con il diritto e la giurisdizione. Vi sono oggi nella UE pericolose tendenze illiberali, che mettono in discussione alcuni fondamenti del costituzionalismo classico: separazione dei poteri, uguaglianza davanti alla legge, limiti certi e codificati al potere esecutivo e alla sua discrezionalità. La UE ha una “costituzione” (i Trattati) e un sistema giuridico che le forniscono strumenti adeguati a contrastare queste tendenze con la stessa fermezza con cui vengono contrastati gli aiuti di stato o la formazione di monopoli. È giunto il momento di attivare questi strumenti e neutralizzare sul nascere ogni seme di neo-autoritarismo.

Il ciclo di seminari organizzati dalla Fondazioni Giangiacomo Feltrinelli si propone di approfondire queste tematiche, sul piano delle diagnosi, ma soprattutto su quello dalle soluzioni. Ri-fondare l’Unione europea non sarà facile sotto il profilo politico. Nei processi storici, il cambiamento deve tuttavia poggiare innanzitutto sulle idee. E in democrazia le idee non solo si pensano, ma si discutono in pubblico. Perché è dalla discussione che emerge la consapevolezza delle sfide e la spinta a superarle, da parte sia dei cittadini sia dei loro rappresentanti.

 

In collaborazione con

L’articolo si inserisce nel contesto del progetto SOLID finanziato dal Consiglio Europeo della Ricerca con il programma H2020, grant n. 810356 

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