Il testo che segue è tratto da Willy Brandt Memorie (Garzanti), 1991
13 agosto 1961: fui svegliato fra le quattro e le cinque del mattino. Il treno elettorale partito da Norimberga aveva appena raggiunto Hannover. Un funzionario delle ferrovie mi consegnò un messaggio urgente da Berlino. Mittente: Heinrich Albertz, capo della cancelleria del senato. Contenuto: l’est chiude il confine del proprio settore. Mi si prega di tornare immediatamente.
Nella casa del quartiere di Dahlem, sede del comando alleato – quella fu la mia prima e ultima visita – mi stupì trovare la foto del generale Kotikov, che era stato il comandante sovietico della città: i suoi colleghi occidentali avevano certa mente avuto l’intenzione di pagare in questa forma, almeno, il loro tributo allo statuto delle quattro potenze, che la parte sovietica aveva invece calpestato nel momento in cui, in quello stesso giorno, cedeva il potere esecutivo sul proprio settore alle autorità della DDR, che avevano in programma la divisione della città.
All’aeroporto di Tempelhof mi accolsero Albertz e il capo della polizia Stumm. Andammo alla Potsdamer Platz e alla porta di Brandeburgo e dappertutto vedemmo lo stesso scenario: muratori, ostacoli, pali di cemento, filo spinato, militari della DDR. Giunto al municipio di Schoneberg ebbi informazioni secondo le quali le truppe sovietiche erano in stato d’allerta intorno alla città e Walter Ulbricht si era già congratulato con i reparti che avevano cominciato a costruire il muro.
Come avrebbero reagito le potenze occidentali? In che modo avrebbero accettato che venissero loro prescritti i passaggi da un settore all’altro? Dopo alcuni giorni ne era rimasto uno solo, il Checkpoint Charlie nella Friedrichstrasse, e non era successo niente. Quasi niente. E soprattutto proprio niente a favore delle numerose famiglie tedesche separate.
Se avessi avuto più sangue freddo, in quelle ore mattutine di domenica 13 agosto, mi sarei accorto che gli egregi signori comandanti erano sconcertati, perplessi, senza istruzioni. L’americano, con espressione preoccupata, fece trapelare ciò che da Washington gli era stato fatto intendere: non ci si doveva in alcun caso lasciare andare a reazioni avventate o addirittura creare problemi: in definitiva Berlino Ovest non era direttamente minacciata.
Pochi giorni dopo il primo anniversario della costruzione del muro, il 17 agosto 1962, Peter Fechter, un muratore di diciotto anni, morì dissanguato al di là del Checkpoint Charlie. Non potemmo soccorrerlo, non ci fu concesso. La sua morte ebbe una larga risonanza e lo sdegno fu profondo. Ci furono dimostrazioni di dolore e di rabbia. Alcuni giovani dissero che avrebbero provocato delle falle nel muro con la dinamite, altri costruirono dei tunnel e si resero meritevoli verso i concittadini fino a che persone irresponsabili non cominciarono a trarne guadagno. Un giornale popolare mi accusò di tradimento perché la polizia era stata incaricata di sorvegliare il muro. Una sera fui chiamato in municipio: si era preannunciato un corteo di protesta, promosso prevalentemente dagli studenti. Mi servii dell’altoparlante di un auto della polizia: dissi che il muro era più duro delle teste che volevano sbattervisi contro e che non lo si poteva eliminare con le bombe.
Già immediatamente dopo la costruzione del muro c’erano state scene spaventose, di eccitazione impotente, alle quali bisognava dar voce, ma che, allo stesso tempo, bisognava frenare. Esiste un compito che può diventare particolarmente difficile per un oratore? Dopo la crisi dell’agosto 1962 andai in giro per le aziende, per gli uffici: cercai di far capire ai berlinesi ciò che era possibile e ciò che non lo era.
L’esperienza berlinese mi ha insegnato che non ha senso batter la testa nel muro, a meno che non sia di carta, ma che ha molto senso non accettare con rassegnazione pareti separatorie arbitrarie. Questa politica non comporta vantaggi immediati per il singolo, ma dall’impegno che mettiamo nella ricerca della comprensione fra i popoli e di risultati razionali dipende la vita di molti. I diritti umani non cadono dal cielo, le libertà civili neppure.
Sfoglia la photogallery
Dal patrimonio di Fondazione Feltrinelli alcune istantanee tra 1961 e 1962 che danno conto dei drammatici effetti dell’edificazione del muro divisorio: le avvisaglie si mostrano alla Porta di Brandeburgo con la posa di filo spinato sulla linea di confine tra i settori Ovest e Est. Ben presto le barriere si alzano e si diversificano (cavalli di frisia, sbarramenti anticarro) e la sorveglianza armata, anche con mitragliatrici pesanti, diviene un deterrente di tragica efficacia. Famiglie separate, avvisi minacciosi (Chi ci attacca sarà annientato) e storie di fughe con un esito drammatico (l’assassinio di Peter Fechter, lasciato in agonia per più di un’ora a pochi metri dal Checkpoint Charlie) sono solo alcune tra le conseguenze di quel drastico rimedio all’esodo verso la libertà.