Premessa
L’11 marzo 1990 il Cile torna formalmente alla democrazia. Le immagini della solenne cerimonia d’insediamento del primo presidente eletto democraticamente dopo diciassette lunghi anni di dittatura civico-militare danno conto non soltanto di un passaggio di poteri negoziato e pattuito dagli esponenti della giunta militare e da quelli dell’opposizione democratica che aveva dato vita, agli inizi del 1988, alla Concertación de partidos por la democracia (in seguito Concertación), ma prefigurano i limiti e i problemi del processo di transizione che con quella cerimonia prende l’avvio.
Il dittatore Augusto Pinochet e il presidente eletto, Patricio Aylwin, sono l’uno accanto all’altro, circondati dai loro fedeli. Il primo simboleggia l’ordine e la modernizzazione, finalmente conseguiti dal paese dopo i convulsi anni delle amministrazioni di Eduardo Frei Montalva e di Salvador Allende; il secondo, la libertà ritrovata dopo un lungo periodo di repressione. Pinochet restituisce al presidente del senato la fascia presidenziale che viene immediatamente dopo indossata da Aylwin ed è lo stesso dittatore a consegnare, al presidente democratico, l’insegna del padre fondatore della patria, simbolo del potere repubblicano.
C’è da notare che in nessun paese, mai, la transizione da una dittatura a una democrazia, per quanto graduale e contrattata essa sia stata, ha espresso il suo significato simbolico nella partecipazione del dittatore agli atti costituzionali e protocollari previsti dalle procedure democratiche. “Misión cumplida”, afferma Pinochet con aria soddisfatta dopo i risultati delle prime elezioni parlamentari del dicembre 1989, in cui i partiti della destra ottengono la maggioranza al congresso. La missione a cui si riferisce è l’ordine riportato nel paese con il golpe del 1973 e il graduale ritorno alla democrazia di cui, lui, insieme a tutte le forze armate, si sente artefice. Il dittatore che se ne va e il nuovo presidente democratico si dichiarano entrambi vincenti (Stabili 2008, 191-193).
Per capire alcuni degli elementi che segnano gli ultimi 25 anni della storia del Cile, farò essenzialmente riferimento alle scelte di politica economica, estera e interna dei governi di Patricio Aylwin (1990-94), Eduardo Frei Ruiz-Tagle (1994-2000), Ricardo Lagos (2000-2006), Michelle Bachelet (2006-2010), tutti espressione della coalizione di centro-sinistra; di Sebastián Piñera (2010-2014), esponente della destra e, infine, quello attuale di Michelle Bachelet, esponente, questa volta, di una nuova coalizione di centro-sinistra, Nueva mayoría, che include anche il Partito comunista.
Politica economica e politica estera
La transizione democratica si avvia in Cile quando, grazie all’applicazione scrupolosa della ricetta neoliberista e dei programmi del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale, l’economia del paese è in espansione. La radicale privatizzazione del settore pubblico, la razionalizzazione industriale con la conseguente mobilità della forza lavoro, il sostegno agli investimenti con una riduzione drastica delle imposte dirette e indirette, la svalutazione del peso rispetto al dollaro per favorire le esportazioni, il controllo da parte della Banca centrale dei tassi d’interesse e alcune misure redistributive di carattere sociale permettono al regime autoritario cileno di consegnare un paese con i conti in ordine. E, infatti, uno dei temi su cui gli esponenti della giunta militare e della Concertación registrano convergenza d’intenti, durante le trattative e negoziazioni intercorse prima delle elezioni parlamentari e presidenziali del dicembre 1989, è proprio il fatto che la politica economica di Hernán Büchi, Chicago boy e ministro dell’economia di Pinochet, non sarebbe stata in alcun modo modificata. Il primo governo democratico si trova, dunque, a godere del vantaggio di non doversi misurare con quei difficili e impopolari compiti che il governo argentino di Raúl Alfonsin e quello brasiliano di José Sarney avevano dovuto affrontare (González 2004).
Dal governo di Aylwin al secondo di Bachelet, ancora in carica, la decisione di continuare il sentiero tracciato dalle politiche rigorosamente neoliberiste si coniuga con la convinzione di orientare i propri sforzi per rompere l’isolamento politico internazionale del regime e proiettare all’estero un’immagine del paese aperta e dialogante. La strategia adottata si basa su tre pilastri fondamentali: multilateralismo; apertura economica e commerciale; regionalismo aperto. Vale la pena sottolineare che tale strategia, condivisa da tutti i governi successivi alla dittatura, si è dunque progressivamente configurata come una vera e propria politica dello Stato e non dei singoli governi. La politica estera diventa quindi una diplomazia dello sviluppo, caratterizzata da un forte pragmatismo, libera dai vincoli ideologici legati al periodo della guerra fredda e gode del consenso della classe politica e dell’opinione pubblica (Tolosa e Lahera 1998).
Il rafforzamento della partecipazione multilaterale del Cile avviene in una pluralità di istanze e luoghi, abbracciando tutti gli aspetti della politica estera del paese: politico-diplomatico, economico-commerciale, strategico e di difesa. In questo inserimento (o reinserimento) nella comunità internazionale, i governi cileni puntano all’eccellenza delle proprie istituzioni politiche e alla difesa della democrazia, dei diritti umani, della sicurezza e della giustizia internazionale. Il paese partecipa attivamente ai lavori delle Nazioni Unite, occupando il seggio non permanente nel consiglio di sicurezza due volte negli ultimi venticinque anni e dimostra un atteggiamento determinato e autonomo, come quando nega, nel 2003, il suo appoggio agli Stati Uniti per l’intervento multilaterale in Iraq. È inoltre membro della Commissione dei diritti umani e, in una serie di occasioni, capo del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite. Un suo preminente uomo politico, José Miguel Insulza, è segretario generale dell’Organizzazione degli stati americani (Osa) dal maggio 2005 al maggio 2015 e assume un ruolo molto attivo nelle nuove organizzazioni regionali, la Unión de naciones suramericanas (Unasur) e la Comunidad de estados latinoamericanos y caribeños (Celac). Il Cile partecipa inoltre a operazioni multilaterali per il mantenimento della pace, a protocolli per la sicurezza internazionale e a iniziative contro le armi di distruzione di massa. Infine ratifica, nel 2009, lo statuto della Corte penale internazionale dell’Aia per i crimini internazionali (Chile. Ministerio de Relaciones Exteriores, 2010).
Gli sforzi per consolidare all’estero un’immagine del paese come riferimento dei valori democratici nella regione hanno come obiettivo strategico quello di potenziare l’espansione commerciale. L’amministrazione Pinochet aveva utilizzato solo lo strumento di apertura unilaterale, perché la condizione di isolamento internazionale gli impediva di usare altri strumenti. Con il ritorno alla democrazia si continua la politica di apertura unilaterale ma, ad essa, si affiancano altri due strumenti: le negoziazioni commerciali multilaterali e le aperture concordate a livello bilaterale. Per quanto riguarda lo strumento multilaterale, il Cile riprende, nel 1993, a partecipare attivamente al General agreement on tarifs and trade (Gatt) e aderisce, nel gennaio 1995, alla creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Il portato è il rilancio degli accordi d’integrazione economica regionale e anche un fenomeno nuovo: la negoziazione di accordi commerciali mega-regionali. Entra, nel 1994, come membro a pieno titolo, nell’Asia-pacific economic cooperation (Apec). Nel 2011 aderisce al Regional comprehensive economic partnership (Rcep) che coinvolge essenzialmente Australia, Nuova Zelanda e alcuni paesi asiatici tra cui Cina, India Giappone Corea del Sud. Nel 2012 contribuisce alla nascita dell’Alleanza del pacifico, nel febbraio 2016 firma l’adesione formale al Trans-pacific strategic economic partnership agreement (Tpp) e guarda con favore al Transatlantic trade and investment partnership (Ttip) in corso di negoziato dal 2013.
Lo strumento commerciale bilaterale è utilizzato ampiamente e proprio in questo ambito si raggiungono i più grandi successi. Gli sforzi della diplomazia commerciale sono enormi. Il risultato è che il Cile registra venticinque accordi commerciali vigenti con sessantatré paesi che racchiudono il 64,1% della popolazione mondiale e costituiscono l’86,3% del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale (Frohmann 2013).
Il terzo pilastro della strategia di inserimento internazionale è il cosiddetto “regionalismo aperto”. La partecipazione del Cile ai processi di integrazione economica regionale è alquanto singolare poiché trova limitanti le misure protezioniste a cui si ispirano i vari organismi regionali. Nel 2006 aderisce alla Comunidad andina de naciones (Can) ma solo in qualità di membro associato, senza prendere impegni vincolanti di tipo commerciale. La stessa posizione adotta nei confronti del Mercado común del sur (Mercosur). Ma l’estrema prudenza a non lasciarsi invischiare, a livello regionale, in politiche commerciali rischiose per il modello economico adottato, è controbilanciato, come si ricordava in precedenza, da un grande impegno sul fronte delle iniziative di integrazione regionale relative alle questioni politiche, di difesa dei diritti umani, della pace e della sicurezza (Fuentes 2012).
La strategia appena descritta registra un successo macroeconomico indiscutibile. Bastano poche cifre per illustrare l’andamento spettacolare dell’economia del paese, considerato il “giaguaro” dell’America Latina. Nel periodo 1987-1997 il tasso annuale di crescita ha superato il 10% con una punta, nel 1993, del 12,3%. Se all’inizio degli anni novanta il Prodotto interno lordo era di 32.851 milioni di dollari, nel 1999 è salito a 75.237 milioni con una crescita del 129,1% rispetto al 1990. Agli inizi del 2000 il Pil nominale era di 77.982 milioni di dollari, nel 2009 arriva a 172.107 milioni con una crescita del 120,7%. Nel 2010 il Pil era di 217.280 milioni e nel 2015 di 240.222 milioni di dollari con una crescita del 12,3%. Ovviamente, quest’ultima, è una percentuale molto modesta rispetto ai due decenni precedenti ma indicativa del fatto che la crisi finanziaria statunitense del 2008 e quella europea hanno certamente rallentato ma non messo in crisi il suo andamento progressivo (Cepal 2016).
Va anche ricordato che nel 2012, gli investimenti esteri diretti (Ied), il cui ammontare è calcolato in 30.323 milioni di dollari, segnano un nuovo record storico, registrando un aumento del 32,2% rispetto al 2010 e permettono al paese di posizionarsi, per il secondo anno consecutivo, come il loro secondo maggiore ricettore, in America Latina e Caraibi, dopo il Brasile. È da notare che, circa il 26% delle entrate degli Ied, vengono a loro volta investiti fuori dal paese dalle sussidiarie cilene delle imprese straniere. Inoltre, secondo le statistiche della Banca centrale cilena, un elemento importante è che il paese sta diventando una piazza rilevante per le imprese transnazionali che operano nella regione. Dal Cile si starebbero consolidando e coordinando alcune operazioni regionali, cosa che lo trasforma in una piattaforma di investimenti o una porta d’entrata per altri mercati latinoamericani. La rivista Forbes lo incorona come il migliore luogo dove fare affari in America Latina (Think Tank Milken Institute 2016; Forbes 2016).
I successi economici sin qui descritti però, se hanno portato a diminuire in modo sostanziale i livelli di povertà, hanno aumentato la disuguaglianza che è rimasta stabile rispetto ai tempi del regime militare o, secondo alcuni analisti, è addirittura aumentata. Se il Cile è uno dei paesi più ricchi dell’America Latina e risulta al primo posto tra quelli del Cono Sud per il Pil pro capite, è anche quello che presenta i più alti livelli di disuguaglianza. Sin dal primo governo della Concertación lo slogan imperante, “crescita con equità”, indicava il tentativo di coniugare il modello neoliberista con alcune riforme di ordine fiscale e con un’enfasi forte sulla promozione dell’equità nelle voci di spesa. Tutti i successivi governi, e persino quello di destra di Sebastián Piñera, introducono politiche sociali tendenti ad ammorbidire gli effetti del modello economico adottato. Ma se questo certamente favorisce la diminuzione della povertà, lascia l’istruzione, la sanità e le pensioni in mano al settore privato; non riesce a contenere il processo progressivo della concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta élite aumentando così la distanza tra quest’ultima e il resto della popolazione (Tokman 2010; Solimano 2012).
Questa situazione, insieme all’aumento della delinquenza e ai problemi emergenti della droga e della violenza, crea profondo malessere e inquietudine tra i partiti di centro-sinistra. In effetti, alcuni dei dirigenti di partito, dei parlamentari e dei leader storici sembrano accettare una strategia dello sviluppo e un sistema economico che offre dividendi importanti in termini di progresso materiale ma che sono molto lontani dai modelli in cui credevano in tappe anteriori della loro vita. È indubbio che, dall’inizio del millennio, persista una sensazione di frustrazione crescente per non riuscire a dare un’impronta più democratica sia alla coalizione di appartenenza, sia al governo.
Un altro problema, legato al tipo di sviluppo economico perseguito, è la corruzione politica che diventa via via più visibile e che, se tocca prevalentemente settori della destra, non risparmia tutti gli altri arrivando a lambire persino la famiglia dell’attuale presidente della repubblica Michelle Bachelet. L’ultimo capitolo ha prodotto una delle crisi politiche più profonde degli ultimi due decenni. L’ufficio delle imposte, durante alcuni accertamenti, nel 2015 consegna alla procura della repubblica un elenco di nomi di politici, familiari di parlamentari, militanti di diversi partiti, assessori e funzionari pubblici che, tra il 2009 e il 2013, avevano emesso fatture false all’impresa mineraria Soquimich, amministrata dall’ex genero di Pinochet. Gli accertamenti, partiti dal sospetto di un finanziamento irregolare alle campagne elettorali di vari candidati, sono preceduti da un’altra inchiesta giudiziaria sugli affari milionari della nuora e del figlio della Bachelet (Monckeberg 2015).
Forte disuguaglianza economico-sociale e corruzione producono attualmente una specie di immobilismo nella classe politica e grande indignazione cittadina.
Una democrazia “protetta”. La questione istituzionale e lo scontento sociale
Se sul piano internazionale ed economico-commerciale si assiste a un attivismo senza precedenti, sul piano della politica interna il processo per democratizzare le istituzioni dello Stato è lento, faticoso, incerto. Dopo venticinque anni dal ritorno alla democrazia le eredità autoritarie sono ancora molto pesanti e fanno del Cile, secondo alcuni autori, un caso, tra le transizioni pattuite, quasi paradigmatico. L’uscita dalla dittatura è stata possibile non soltanto grazie a un patto nel senso convenzionale della parola, ma soprattutto a una correlazione di forze favorevole, in sostanza, al mantenimento di un ordine autoritario (Huneeus 2014; Besso Pianetto 2015).
La costituzione del 1980, voluta dal dittatore, è ancora vigente. Nella versione originaria essa si componeva di due parti. La prima conteneva le disposizioni transitorie che dovevano regolare, sino alle elezioni parlamentari del 1989, la fase di transizione graduale a un regime di “democrazia protetta” e che in realtà istituzionalizzava un’autocrazia autoritaria. La seconda parte era invece costituita dalle cosiddette “norme permanenti” che sarebbero entrate in vigore a partire dal 1° marzo 1990, con l’insediamento del presidente della repubblica eletto. Tali norme permanenti stabiliscono una repubblica presidenziale “forte” in cui emerge, centrale, la figura del presidente eletto direttamente a maggioranza assoluta per un periodo di otto anni. Resta invece svuotato di ogni rilevanza un parlamento ridotto nelle sue competenze e mortificato nella sua funzione. A differenza di un sistema presidenziale democratico, il contrappeso al potere del capo dello Stato non è, infatti, costituito dal congresso ma da un Consejo de seguridad nacional, composto essenzialmente dai rappresentanti dei rami delle forze armate, del tribunale costituzionale e della corte suprema, i cui membri sono tutti designati dall’alto.
Tuttavia il nodo problematico più importante, e che consente di capire le difficoltà del processo di democratizzazione in corso, è costituito dalle condizioni fissate per la riforma della costituzione. Se si pensa che per qualsiasi modifica riguardante gli organi supremi dello Stato quali il tribunale costituzionale, le forze armate e il consiglio di sicurezza nazionale si richiede l’approvazione di almeno due terzi dei parlamentari in due legislature consecutive, si capisce immediatamente quanto difficile si presenti il lavoro di smontare l’impalcatura istituzionale autoritaria e i tempi lunghi che tale operazione comporta (Fuentes 2012; Huneeus 2014, 155-190).
A cominciare da una prima modifica che precede le elezioni presidenziali del 1989 e che riduce il periodo del mandato presidenziale, numerose altre piccole si susseguono negli ultimi venticinque anni, grazie alle fitte negoziazioni tra i partiti di governo e quelli dell’opposizione. Le più consistenti, approvate durante il governo di Ricardo Lagos nel 2005, eliminano l’esistenza dei senatori designati e l’impossibilità, per il presidente della repubblica, di rimuovere il comandante in capo delle forze armate, ma non intaccano le misure anti-terrorismo previste nel testo né i meccanismi che fungono da ostacolo alla rappresentanza e alla partecipazione piena dei cittadini, lasciando inalterata la sostanza dell’impianto antidemocratico (Cristi e Ruiz-Tagle 2014).
Le pressioni prodotte da più parti per la costituzione di un’assemblea costituente si fanno sempre più pressanti durante il primo mandato di Michelle Bachelet; sono imbrigliate durante il governo della destra di Sebastián Piñera e finalmente trovano ricezione in quello attuale. Una parte importante dell’agenda della Bachelet e della sua coalizione di governo, Nueva mayoría prevede, infatti, non una revisione della costituzione del 1980 ma la scrittura di una nuova fondata su valori democratici e partecipativi. Tra il 2015 e la metà del 2016 il governo lancia un massiccio e pervasivo “processo costituente” invitando la cittadinanza a discutere e ad elaborare proposte. Gli incontri sono fitti e intensi sia all’interno del paese sia nelle comunità dei cileni residenti all’estero, ma ancora non risulta chiaro quando, come e da chi le idee e le proposte elaborate debbano essere prese in considerazione.
Anche la questione della riforma della legge elettorale, legata al tema costituzionale, si trascina a lungo. Soltanto nell’aprile del 2015 il tribunale costituzionale avalla la decisione del congresso di derogare il sistema elettorale bi-nominale, eredità della dittatura, che ha cristallizzato a lungo le forze politiche su un costante pareggio portando ad una progressiva caduta di prestigio del sistema partitico. Esso contemplava, infatti, l’elezione di due seggi per circoscrizione: per ottenerli entrambi, le liste dovevano conseguire almeno il 66,6% dei voti, il che ha escluso dall’assemblea legislativa, per ben venticinque anni, i piccoli schieramenti. La nuova legge elettorale, che adotta il metodo D’Hont – un sistema proporzionale moderato – approvata con il voto contrario dei due partiti della destra, Unión demócrata independiente (Udi) e Renovación nacional (Rn), a partire dalle prossime elezioni parlamentari, aprirà, dunque, le porte del congresso anche ai partiti situati al di fuori dei due grandi blocchi, Nueva mayoría di centro-sinistra e Alianza di destra (Hunees 2014).
Molti passi avanti, invece, si fanno per quanto attiene ai diritti umani anche se, per il quadro appena abbozzato, sono passi graduali e prudenti. Patricio Aylwin, dopo meno di due mesi dall’insediamento del suo governo, annuncia, nell’aprile 1990, la formazione di una commissione d’inchiesta per verificare le cause e le circostanze della morte e della scomparsa di molti cittadini verificatasi durante gli anni della dittatura. La Commisión nacional de la verdad y reconciliación, presieduta dal giurista Raúl Rettig Guissen, non ha competenze giudiziarie. Ha, invece, il mandato di raccomandare misure di riparazione per i familiari delle vittime e di individuare le iniziative legali e amministrative più appropriate per impedire o prevenire nuove violazioni. La relazione finale della commissione, consegnata al presidente della repubblica l’8 febbraio 1991, è resa pubblica agli inizi di marzo dello stesso anno (Stabili 2008, 193-208).
Va detto che, nel corso degli anni novanta, la maggior parte della popolazione e l’opinione pubblica, distratta dall’euforia consumista e affascinata dell’importanza che il paese sta acquistando sul piano internazionale, non dimostra grande interesse per il tema. Gli attori sociali impegnati sul tema dei diritti umani si riducono ai gruppi dei familiari delle vittime, a pochi organismi e a qualche rappresentante dei partiti di sinistra.
Ma il corso degli eventi cambia improvvisamente. Ormai abbandonato il ruolo di comandante in capo dell’esercito e diventato senatore a vita, Pinochet, durante un suo viaggio in Inghilterra, nell’ottobre 1998 è arrestato a Londra su richiesta dei giudici spagnoli Baltasar Garzón e Manuel García Castellón, con l’accusa di essere il responsabile della scomparsa di alcuni cittadini spagnoli in Cile durante il suo governo (Remiro 1999; Montoya-Pereira 2000).
La società cilena riappare, dopo una lunga parentesi di apparente riconciliazione, spaccata. I vecchi odi e rancori riemergono; molti cileni democratici, finalmente felici nel vedere il dittatore agli arresti, si contrappongono a molti altri cileni che vogliono dimenticare il passato e a moltissimi altri che semplicemente lo difendono. Le piazze tornano a riempirsi di manifestanti delle due parti, mentre riemerge una destra orgogliosa che rispolvera gli antichi fantasmi degli anni sessanta, settanta e ottanta. Allo stesso tempo, insieme alla destra e ai militari, anche se con modi e stili ovviamente diversi, il governo cileno reclama la “restituzione” del dittatore con la motivazione che nessuno che non sia cileno può metter naso, neppure in nome della difesa dei diritti umani, nella storia e nelle vicende interne del paese. Certamente il clima elettorale che vive il Cile per le elezioni presidenziali e parlamentari previste nel dicembre 1999 può spiegare in parte le posizioni menzionate. Il timore che il candidato socialista alle presidenziali, Ricardo Lagos, non riesca a vincere la sfida elettorale in seguito al conseguente cambiamento del clima politico in Cile, denso di tensioni, è grande, così come grande è il timore che i prezzi pagati negli anni anteriori per una transizione pacifica siano vanificati.
Il 3 marzo 2000, dopo le alterne vicende giudiziarie londinesi, Pinochet, grazie alla decisione del ministro degli interni britannico, Jack Straw, che decide di “liberarlo” per “ragioni umanitarie”, torna in Cile. Il suo rientro avviene pochi giorni prima dell’insediamento del presidente socialista Ricardo Lagos, candidato della coalizione di centro-sinistra che, nonostante la complicata situazione, riesce a vincere le elezioni (Stern 2004).
Il quadro politico e sociale che il generale trova al momento di tornare in Cile è molto diverso da quello della partenza. Il governo, impegnato nella negoziazione di importanti accordi commerciali con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, non può venire meno al suo impegno preso, a livello internazionale, di far luce sulle violazioni dei diritti umani e favorire il corso della giustizia. Si ritrova inoltre con i partiti della destra che non hanno più tanta voglia di difenderlo: appoggiare pubblicamente un dittatore coinvolto nelle violazioni dei diritti umani ha, tutto sommato, un costo politico altissimo, sia per l’immagine interna sia per quella esterna. Pinochet deve dunque affrontare la riapertura delle istruttorie che erano rimaste bloccate al momento della sua partenza e che richiedevano la revoca dell’impunità parlamentare. In un clima sociale teso, l’amministrazione della giustizia comincia a funzionare con una certa intensità, grazie anche alla riforma del codice penale avvenuta nel frattempo e al graduale cambio di guardia in seno alla magistratura. Dal 2000 al 2004 un alternarsi di revoche e di aperture di processi nei suoi confronti non lo lasciano tranquillo. Nel 2002 è costretto a dimettersi dalla carica di senatore e nel dicembre 2004, con l’imputazione per un omicidio e nove sequestri perpetrati nel quadro del Plan condor, gli vengono imposti gli arresti domiciliari. Nel luglio dello stesso anno era intanto esploso lo scandalo dei suoi fondi segreti depositati presso la banca Riggs di Washington. Sui depositi bancari dell’ex dittatore si avvia un’altra inchiesta giudiziaria. Pinochet appare dunque non solo golpista, responsabile delle violazioni dei diritti umani, ma anche ladro. Muore il 10 dicembre 2006 in un letto dell’ospedale militare. Una folla immensa, nonostante tutto, gli tributa onori e ancora una volta il paese si presenta, allo sguardo degli osservatori, profondamente diviso (Huneeus 2014).
In un clima d’intensa emozione creato dalle ricchissime iniziative e dibattiti organizzati in occasione del 30° anniversario del golpe militare e della morte di Salvador Allende, il presidente Ricardo Lagos annuncia, nel settembre 2003, la formazione della Comisión nacional sobre prisión política y tortura. L’obiettivo è quello di supplire ai “vuoti” investigativi della precedente commissione Rettig, che si era pronunciata soltanto sui morti e gli scomparsi, lasciando fuori dalla sua indagine i sopravvissuti alla prigionia e alle torture. Nel novembre 2004, il presidente della repubblica rende noti all’opinione pubblica, attraverso tutti i canali della televisione, i risultati delle indagini. Il riconoscimento delle vittime vive viene posto in primo piano con l’obiettivo dichiarato di ricostruire la memoria collettiva e di raggiungere la coesione dei cileni intorno alla pace, alla libertà e al diritto (Stabili 2008, 222-239).
L’elezione, nel gennaio del 2006, della prima donna presidente della repubblica del Cile, Michelle Bachelet, eletta con quasi il 54% dei voti, sembrerebbe concludere, perlomeno simbolicamente, la lunga transizione cilena. È figlia del generale dell’Aviazione, Alberto Bachelet, fedele ai valori democratici al momento del golpe, detenuto, forse torturato e certamente assassinato nel 1974. Anche lei era stata detenuta e torturata, insieme alla madre, nel recinto di Villa Grimaldi, tra i più tristemente famosi centri di tortura cileni. Esiliata, ritorna in Cile a metà degli anni ’80, lavora come medico e s’impegna politicamente. Durante il governo di Ricardo Lagos è prima ministro della sanità, poi della difesa e viene apprezzata molto dall’opinione pubblica per il suo lavoro.
Bachelet colloca la questione sociale al centro della campagna presidenziale, sino a fare del tema delle disuguaglianze nei redditi, risorse e opportunità uno dei punti qualificanti del suo programma di governo. La costruzione di una rete di protezione sociale, la modifica del sistema elettorale, una riforma dello Stato orientata verso la trasparenza e il decentramento, un forte impegno per la tutela dei diritti delle donne e la promessa di un governo con partecipazione paritaria dei due generi diventano le principali proposte (Subercaseaux e Sierra 2005).
Il programma di riforme sociali non favorisce certo la simpatia dei circoli economici e finanziari che esprimono senza mezzi termini il loro dissenso e si muovono in modo da rallentare notevolmente la marcia delle iniziative previste. L’opposizione parlamentare fa il resto. L’apparente incapacità del governo a procedere speditamente nella direzione annunciata scatena l’insofferenza sociale.
Nel 2006 le rivolte degli studenti delle scuole medie superiori, appoggiati dagli universitari, aprono una lunga stagione di continue mobilitazioni che riscuotono consenso e ampia partecipazione popolare. Allo sciopero nazionale del maggio 2006 partecipano più di un milione di persone in tutto il paese. Attorno al movimento degli studenti si articolano gli altri attori sociali. Dai temi squisitamente rivendicativi, si passa a chiedere la fine dei profitti degli istituti privati e, infine, una nuova legge che deroghi quella approvata durante il regime militare, che chiuda il processo di privatizzazione fuori controllo e apra a un’istruzione pubblica, di qualità e gratuita per tutti. Le giornate di protesta continuano negli anni successivi e si radicalizzano durante il governo della destra di Sebastián Piñera (2010-2014). Non solo sono segnate da una grande partecipazione ma anche dalla repressione che registra un grande numero di arresti. Nel 2011 in tutto il paese le università sono occupate e l’immensa manifestazione dell’agosto non solo mette in discussione la riforma dell’istruzione ma contesta tutta l’architettura autoritaria imposta dalla costituzione del 1980. Il tema di una cittadinanza piena e partecipativa è parte fondamentale del dibattito. La dimensione etica della politica e i comportamenti etici della classe dirigente vengono posti come condizione essenziale per partecipare al processo elettorale (Zarzuri 2011; Reyes e Vallejo 2013).
Il 2013 è un anno importantissimo. Si ricorda il quarantesimo anniversario del golpe di Stato e della morte di Allende con un’incredibile quantità di iniziative, incontri, dibattiti e, allo stesso tempo, si svolge la campagna elettorale per le elezioni parlamentari e presidenziali che hanno luogo in dicembre e che, per la coincidenza dell’anniversario, acquistano un forte senso simbolico e un grande impatto emotivo. Come candidata della coalizione di centro-sinistra, Nueva mayoría, Michelle Bachelet si presenta per un secondo mandato e disputa la presidenza della repubblica a un’altra donna, la candidata della coalizione di destra, Alianza, Evelyn Matthei. Come Michelle, anche Evelyn è figlia di un generale della forza aerea, Fernando che, a differenza di Alberto Bachelet, aderì al golpe e fece parte della giunta militare sino al marzo del 1990. Fedelissima di Pinochet, ammorbidisce in modo graduale la sua posizione politica con il ritorno alla democrazia. Diventa candidata della destra dopo che varie candidature maschili, per diverse ragioni, si bruciano. Vale la pena ricordare che un terzo candidato forte è il quarantenne Marco Enríquez-Ominami, figlio di Miguel Enríquez, storico leader del Movimiento de izquierda revolucionaria (Mir), assassinato nel 1974 da sicari del regime (Castillo-Montes 2013).
Nel suo programma elettorale Bachelet accoglie i temi della lotta degli studenti e indica, come iniziative prioritarie del suo esecutivo, la riforma dell’istruzione e la creazione di un’assemblea costituente. Ma le candidature per la camera dei deputati, all’interno della coalizione di centro-sinistra, di due leader nazionali degli studenti, Camila Vallejo y Giorgio Jackson, producono dure controversie e una gran parte del movimento si pronuncia per l’astensione.
Alle elezioni del 15 di dicembre partecipa, di fatto, solo il 41% degli aventi diritto al voto. Sembra che l’astensione sia essenzialmente giovanile. Bachelet viene eletta con il 62% delle preferenze e si insedia nel marzo del 2014, durante una cerimonia presieduta dalla seconda carica dello Stato, la presidente del senato Isabel Allende, figlia di Salvador. Il passato ingombra il presente (Zapata Larraín 2015).
Ma in questo suo secondo mandato Bachelet non riesce a riscuotere i consensi personali che aveva registrato durante il primo. Il rallentamento della crescita economica che sembrava inarrestabile, gli scandali finanziari, la corruzione che lambisce tutti i partiti politici con il conseguente crescente discredito nell’opinione pubblica, la lentezza con cui alcune delle promesse elettorali vengono realizzate mentre altre sono disattese, rendono il panorama politico attuale assai incerto.
Le elezioni amministrative dell’ottobre 2016 registrano il 65% di astensione e la vittoria dei candidati della destra in molti dei comuni più importanti. Un piccolo spiraglio di ottimismo si apre con l’elezione a sindaco di Valparaíso, la seconda città più importante del paese, del trentunenne Jorge Sharp, avvocato del lavoro, indipendente di sinistra. La sua vittoria è l’ennesimo segnale di crisi degli schieramenti di centro-sinistra e centro-destra che dalla fine della dittatura si alternano al potere.
Resta comunque la sensazione che, in Cile, le continuità con il passato siano più forti delle novità che aprono al futuro.