Pubblichiamo qui un estratto del contributo di Nicolò Giangrande raccolto nel volume Dieci idee per ripensare il capitalismo, pubblicato da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
L’Italia ha così vissuto tre decenni caratterizzati da (i) massicce privatizzazioni, che hanno sottratto allo Stato interi settori strategici; (ii) ampie riforme del mercato del lavoro, che hanno contribuito a peggiorare la qualità dell’occupazione e a ridurre i salari; (iii) alcune riforme universitarie, che hanno marginalizzato il settore della ricerca. Questi interventi hanno privato l’Italia degli strumenti fondamentali per sostenere lo sviluppo economico e hanno trasformato il Paese da una potenza economica mondiale a un “nano industriale” (Gallino, 2003).
Siamo così passati nel corso di un trentennio da un vasto intervento pubblico in diversi settori produttivi di eccellenza a livello internazionale, che era stato pensato per poter sostenere uno sviluppo di lungo periodo, a un Paese fortemente dipendente dalla domanda di altri Paesi, i quali, avendo una politica industriale ben definita, possono imporre livelli di produzione, occupazione e salari.
Un numero può rendere bene l’immagine del problema. Le crisi aziendali attualmente affrontate al tavolo ministeriale sono oltre 150 (Ministero dello Sviluppo Economico, 2019). Si tratta di un chiaro ritratto del lento e inarrestabile declino economico dell’Italia. Per tutte queste vertenze, che hanno delle ripercussioni negative in termini industriali, occupazionali e salariali, non è stata ancora predisposta alcuna soluzione di lungo periodo capace di invertirne la rotta.
L’Italia continua a essere caratterizzata, eccetto rarissime eccezioni, da una struttura produttiva composta da imprese che occupano tra uno e nove addetti, con una gestione prevalentemente di tipo familiare, con una bassissima propensione all’innovazione, non esposte alla concorrenza internazionale e attive sul mercato domestico la cui sopravvivenza dipende dall’erogazione di credito bancario. Un sistema produttivo con queste caratteristiche non richiede una forza lavoro altamente qualificata, e tende a guadagnare competitività tramite la compressione salariale e dei diritti.
I fenomeni di sottoccupazione, disoccupazione ed emigrazione intellettuale dei giovani altamente qualificati deteriorano e impoveriscono ulteriormente il capitale umano italiano. A questa drammatica condizione di sottoutilizzazione delle forze disponibili, si aggiunge anche un contesto territoriale caratterizzato da una carenza cronica di infrastrutture materiali e immateriali, soprattutto nel Mezzogiorno. Entrambe queste insufficienze rendono la gran parte delle imprese italiane poco competitive sul mercato globale.
Inoltre, i profondi divari regionali (svimez, 2019) e il calo demografico italiano (istat, 2019) acuiscono ulteriormente il declino economico e aumentano i deficit di competitività dell’Italia in relazione agli altri attori globali.
Il problema principale da affrontare oggi, tra i vari, è come contrastare il pensiero economico dominante, e il suo intrinseco anti-statalismo, il quale sostiene che la diseguaglianza sia una condizione necessaria per la crescita economica (Franzini e Pianta, 2016). Si deve, quindi, invertire una politica economica – largamente condivisa e attuata da tutti i governi dal 1992 in poi – basata su imponenti privatizzazioni, forte precarizzazione del lavoro, minore progressività e incentivi fiscali alle imprese.
Davanti a una realtà di crescenti diseguaglianze è necessario ripensare il capitalismo, mettendo al centro dell’agenda politica una nuova stagione di sviluppo economico e sociale per l’intero Paese attraverso due interventi: (i) ridare centralità al lavoro, (ii) ripensare le politiche industriali.
Documento tratto dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Riprendendo l’intuizione di Michał Kalecki (1943) presente ne Gli aspetti politici del pieno impiego, dovremmo riflettere sul fatto che il potere contrattuale
dei lavoratori e dell’impresa nel mercato del lavoro si riflette nel loro potere negoziale nella sfera politica. Per poter dar voce e rappresentanza agli interessi dei lavoratori nella sfera politica bisogna prima riconquistare il terreno nella sfera economica, a partire dalla questione occupazionale e salariale.
Il salario, infatti, in un sistema capitalistico svolge un doppio ruolo (Bhaduri e Marglin, 1990; Hein, 2017; Kalecki, 1968, 1971) è un costo di produzione per le imprese, ma è anche parte della domanda aggregata, attraverso i consumi. La compressione indefinita dei salari ha contribuito, e contribuisce, a peggiorare le aspettative delle stesse imprese e allontana sempre di più la crescita economica. Una condizione di piena e buona occupazione, invece, favorisce anche la crescita della produttività del lavoro, perché le imprese, non potendo più competere attraverso la riduzione del salario, sono obbligate a innovare.
Inoltre, poiché il nostro sistema produttivo, alle condizioni attuali, non è in grado di assorbire l’offerta disponibile nel mercato del lavoro, è necessaria una forte mobilitazione politica e sindacale, che ampli il fronte per sostenere l’intervento pubblico in economia.
Infatti, non è più rinviabile la realizzazione di un vasto piano di investimenti pubblici e di un intenso piano di assunzioni nelle amministrazioni pubbliche, con l’obiettivo di: (i) rinforzare la struttura del sistema produttivo italiano, spingendo le imprese ad aumentare la propria dimensione e il capitale tecnologico, (ii) rinnovare le infrastrutture materiali e immateriali, soprattutto nelle aree più arretrate e (iii) aumentare l’occupazione stabile, di qualità e retribuita.
Per fare questo è fondamentale: (i) ridurre gli attuali centri decisionali, optando per una centralizzazione della politica industriale a livello nazionale ed europeo, da concordare insieme alle organizzazioni sindacali e datoriali, (ii) finanziare un corposo piano di investimenti pubblici diretti, (iii) riformare e finanziare gli ammortizzatori sociali, in modo tale da sostenere il reddito di tutti i lavoratori in caso di crisi.
È necessario, quindi, un piano di lungo periodo che punti a occupare nel settore pubblico, nei suoi diversi rami, e in particolare nei centri di ricerca, i laureati sottoccupati e disoccupati e i giovani accademici precari. Questo provvedimento trova fondamento nel fatto che da un lato il settore privato italiano non produce spontaneamente innovazioni e dall’altro il settore pubblico italiano è sottodimensionato rispetto a Regno Unito, Francia e Stati Uniti d’America, e con una età anagrafica media che supera i 50 anni.
Si tratta, in sostanza, di ripensare il duplice ruolo che lo Stato può ricoprire in economia: (i) innovatore di prima istanza (Bellofiore e Vertova, 2014; Colacchio e Forges Davanzati, 2019) in settori ad alto valore aggiunto e (ii) datore di lavoro di ultima istanza (Caffè, 2016; Minsky, 2014) da un lato per assorbire lo stock di disoccupati di lungo periodo e dall’altro impiegare laureati e dottori di ricerca formati in Italia.
Questo produrrebbe almeno due effetti utili: da un lato l’aumento dell’occupazione, qualificata e non, accrescerebbe la domanda interna a beneficio delle imprese italiane che operano nel mercato domestico; dall’altro la produzione di innovazioni del settore pubblico si trasmetterebbe anche al settore al settore privato, sia direttamente sia indirettamente (Forges Davanzati e Giangrande, 2019b).
Kalecki, quando ragionava sul fatto che la contro-partita di una maggiore spesa del governo sarebbe stato un più elevato livello di vita delle persone, si domandava – ed è la domanda con la quale concludo – “Non è questo il fine di tutta l’attività economica?” (1943).