Interrogarsi sulla filosofia della storia, come faceva Agostino, vecchio e malandato in un mondo sconquassato, è chiedersi: l’umanità sta andando nella direzione giusta? Per Agostino, la risposta era sì, così come era sì per Kant, Hegel e Marx, ma da un bel po’ di tempo, sotto l’influsso di Nietzsche, di Spengler e di Heidegger anche pensatori formalmente progressisti sono convinti del contrario. La direzione presa dall’umanità è sbagliata, bisogna assolutamente scendere dal treno prima della catastrofe finale, che sarà in un unico colpo economica, ecologica e sociale. Non ho niente in contrario a questa visione, in linea di principio, purché sia vera, il che non è detto, e proprio qui è il problema. Se fosse vero che andiamo di male in peggio, allora l’umanità si comporterebbe in maniera totalmente incoerente, creando le premesse per la propria fine assecondando la sua inclinazione all’imbecillità. Tuttavia, ci sono buone ragioni per pensare che gli imbecilli (o i furfanti, perché anche questo è possibile, anzi probabile) siano i catastrofisti, il che è un bene in sé. Che può diventare un meglio se, oltre a constatare gli errori della filosofia della storia negativa, se ne costruisce una positiva.
Il test di una filosofia della storia, quale che sia, è una versione del falsificazionismo e suona come: è vero che andiamo di male in peggio? È importante il di-male-in-peggio perché il di-bene-in-meglio è troppo facile da confutare, basta un dolore reumatico che affligge il filosofo della storia e già le magnifiche sorti non sembrano più tali. Bene, se è provato – il che, ripeto, è sempre possibile – che davvero l’umanità corre verso la catastrofe, o perlomeno che recede o indugia in una morosa stazionarierà, allora si tratta di smettere tutto quello che si sta facendo per prendere un’altra direzione. Ma se invece non fosse così, se un progresso (ovviamente, mai così forte come quello sognato) avesse luogo, allora bisognerebbe proseguire sulla strada che abbiamo preso, senza dar retta ai retrotopisti, che rivolgono l’utopia al passato, e più precisamente a un passato che non è mai stato presente, e su questa sola base criticano il presente che c’è per davvero e il futuro che potrebbe esserci.
Il cavallo di battaglia dei retroropisti (sono sicuro che lo abbiate già sentito) è: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Dunque il progresso non è che regresso, perché il nostro modello di sviluppo realizza il contrario del precetto “a ognuno secondo i suoi bisogni”, e va buttato là dove gli compete, all’inferno o ai suoi sostituti temporali. Il retrotopista assume questo principio come una evidenza che non merita neppure di essere discussa, e nel farlo si emette implicitamente una condanna senza appello sul nostro tempo, sul futuro che ci aspetta, e sull’idea che la storia abbia un senso condivisibile. E se fosse vero il contrario, e cioè che i poveri sono sempre più ricchi (pur mancando ancora di tanto), e i ricchi sono sempre più poveri (pur non facendosi mancare niente)?
Verifichiamolo, cioè falsifichiamo la tesi dei ricchi-sempre-più-ricchi ecc. Il divario tra ricchi e poveri si è ampliato negli ultimi decenni, ma solo in termini relativi: i ricchi si sono arricchiti più di quanto si siano arricchiti i poveri, che comunque sono meno poveri di prima, almeno a quanto ci dicono delle statistiche sempre difficili da verificare (vivendo in una nazione di evasori fiscali come l’Italia, per esempio, ho imparato a maneggiare con molto scetticismo le dichiarazioni di povertà assoluta in cui talora indulgono i miei connazionali). Ma accanto alla difficoltà empirica del misurare quanto ricchi sono i ricchi e quanto poveri sono i poveri c’è una difficoltà trascendentale a cui a mio parere non si presta sufficiente attenzione. Se davvero i ricchi fossero sempre più ricchi, Jeff Bezos, che (per quello che ne sappiamo, magari ci sono narcotrafficanti e dentisti ancora più ricchi) è attualmente l’uomo più ricco della terra, sarebbe anche l’uomo più ricco della storia: ma così non è. L’uomo più ricco della storia, per quel che ne sappiamo, era Mansa Musa I, re del Mali nel Quattrocento. Poi abbiamo tanti altri, tra cui Augusto, Cesare, Napoleone, Gengis Khan. Per cui, a quanto ne sappiamo, gli uomini più ricchi della storia sono tutti morti, e i ricchi oggi viventi sono molto più poveri di loro.
Ma, più seriamente: con quali criteri si fanno questi calcoli? Quali sono le autorità che li certificano? Come si fanno i confronti tra un sovrano assoluto che possiede tutto uno Stato, un sovrano costituzionale, un capitano di industria? E ovviamente la ricchezza non è immediatamente sinonimo di potere, o di peculiari condizioni di benessere. I camorristi devono starsene blindati in compound videosorvegliati, e i miliardari che cadono sotto i colpi degli scandali sessuali resi possibili da una opinione pubblica più severa e attiva hanno oggettivamente meno potere dei tycoon delle generazioni che li hanno preceduti, e tutti quanti hanno meno ricchezze, meno potere e meno gloria di Attila. Queste considerazioni di senso comune, che raramente mi è capitato di leggere, suggeriscono che la tesi secondo cui i ricchi sono sempre più ricchi è infalsificabile e, strettamente parlando, insensata. Esprime uno stato d’animo e nulla che possa venir citato come argomento serio: abbiamo vere difficoltà a stabilire, in una stessa cultura e addirittura nello stesso quartiere di una città, il valore immobiliare di un appartamento, e saremmo in grado di comparare con competenza i beni di un despota orientale, di un capitano d’industria ottocentesco e di Alessandro Magno? L’ironia è che spesso chi sostiene come una tranquilla evidenza che i ricchi sono sempre più ricchi ha passato anni a spaccare in quattro il capello in un dottorato per spiegare che la lotta dei galli nell’isola di Giava va interpretata in modo molto differente da come la concepiremmo noi occidentali, inclini a paragonarli a scommesse sui galli un tempo in uso tra noi.
L’incommensurabilità delle culture vale ovunque, anche al di là del buon senso, ma l’accertamento delle ricchezze è ci permette invece di tracciare una linea uniforme e progressiva che da Creso porta a Besos.
Vignetta, il divario tra ricchi e poveri
fonte: ultimora.news
Se la tesi dei ricchi sempre più ricchi è infalsificabile, e dunque insensata, la tesi correlativa dei poveri sempre più poveri è falsificabilissima. All’inizio dell’Ottocento eravamo un miliardo, adesso siamo sette miliardi, e il numero dei vivi, attualmente, supera quello di tutti i morti della storia dell’umanità (anche su questo non mi è chiaro come si siano fatti i conti, dunque la butto lì con beneficio di inventario). Il che significa che i poveri sono sempre più ricchi, perché un numero crescente (e si tratta di quantità impressionanti) di esseri umani supera la soglia della povertà assoluta, che è per l’appunto la mancanza di mezzi di sussistenza. E, cosa forse ancora più significativa, nei paesi sviluppati in cui io e voi (lo dico perché avete addirittura il tempo di leggermi) abbiamo la fortuna di essere nati la vita media e la vita attiva delle persone si è prolungata in modo vertiginoso. Senza parlare poi della disponibilità di beni di consumo, come abiti, cibi e tecnologie a basso costo (per la prima volta nella storia del mondo il numero dei bambini sovralimentati è il doppio di quello dei bambini sottoalimentati) che fa sì che per nulla sorprendentemente un homeless ha un telefonino (che gli cambia completamente la qualità della vita). Anche a voler valutare negativamente, per motivi irrazionali (l’isola di plastica nel Pacifico può essere evitata, la fame a cui l’industria ha posto rimedio no) la maggiore disponibilità di beni di consumo, resta che per affrontare seriamente la questione “poveri-sempre-più-poveri” non si possono tralasciare i benefici che ogni essere umano trae dai progressi scientifici e tecnologici, che significano: meno mortalità infantile, maggiore protezione civile, cure più efficaci, maggiore alfabetizzazione – ossia le circostanze che spiegano la curva demografica impressionantemente favorevole degli ultimi due secoli.
Considerazioni affini si possono svolgere per alti proverbi che vanno e vengono nello spazio pubblico per certificare quanto siamo caduti in basso e quanto l’umanità vada verso il peggio. Proprio come i ricchi sarebbero sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, le guerre sarebbero sempre più guerre: più cruente, più micidiali, più spietate, più selvagge. Ma ovviamente neanche questo è vero: oggi si fa conto di cinque morti, un tempo erano normali diecimila morti in una qualsiasi battaglia non dico di Zhukov (erano centinaia di migliaia) ma di Federico il Grande o di Napoleone. I bombardamenti chirurgici fanno indubbiamente delle vittime, ma queste sono infinitamente minori di quelle causati dai bombardamenti a tappeto, che sono stati abbandonati essenzialmente per gli effetti che avrebbero prodotto su una opinione pubblica più evoluta, critica ed esigente (ulteriore prova del fatto che l’umanità verso il meglio). Ci si indigna sacrosantamente sul trattamento dei prigionieri di Guantanamo, ma nessuno, neppure i maniaci che li torturano, ha pensato di impalarli, prassi normale per i prigionieri nell’Europa di Raffaello, Tasso e Cartesio. E quanto alle guerre sconosciute, come quella del Rwanda, oggi non sarebbero più possibili, perché sarebbero immediatamente tuittate e rituittate (queste guerre sconosciute, d’altra parte, ci ricordano che le stragi peggiori si sono fatte a colpi di machete, non di tecnologie avanzate). E sostenere che le guerre commerciali e finanziarie sono peggiori di quelle militari è segno di una drammatica insensibilità verso i morti di Gettysburg e di Verdun, di Hiroshima e di Dresda.
Venendo alla vita civile, tranne che in politica, dove oggi l’incompetenza è un valore (ma anche l’uno-vale-uno è segno di un illuminismo, seppure incompiuto: “osa pensare con la tua testa”, per balorda che sia), le cariche dirigenziali oggi non possono essere disgiunte da capacità, dunque appaiono estremamente richieste, pagate e ricercate. Ovviamente questa circostanza non coincide con la giustizia sociale, ma comporta la riduzione di un’ingiustizia e di un rischio, quello di un incompetente alla guida di una realtà complessa. Se un erede al trono non promette troppo bene, non lo si acceca né gli si taglia il naso, come era prassi a Bisanzio, ma lo si esclude con qualche stratagemma dalla successione. In un ambito meno impegnativo, persino ai professori universitari si chiede, almeno pro forma, di essere intelligenti. Da dove traiamo l’idea della corsa verso il peggio? Forse dal fatto che il procedere della modernità e la dittatura della tecnica ci ha omologati – tutti uguali dentro e fuori, il destino dell’umanità secondo Zarathustra, Pasolini e tutti quanti? Vorrei sommessamente far notare che cinquant’anni fa era comunissimo che interi paesi del meridione italiano, della Grecia e del Portogallo fossero popolati da donne vestite di nero e da uomini in coppola e camicia bianca, una prosecuzione naturale dei costumi tradizionali (in effetti, nulla è più omologante del folklore). Oggi tutti sono vestiti in maniere differenti, tranne i pochi che (come altri compratori disseminati nei centri commerciali di tutto il mondo) hanno deciso di seguire i canoni estetici di Dolce & Gabbana. E ancora: la televisione ci offriva, originariamente, uno o due canali, ora Netfilx ci offre migliaia di film: eravamo più omologati allora o ora? La mensa di fabbrica offriva una scelta? Vegani, melariani, islamici in ramadan, cibi casher oggi sono previsti: non è un progresso? Sono scelte che si notano poco nelle mense, più che altro perché la gente lavora sempre meno, eppure gli stessi ragazzini che cent’anni fa avrebbero mangiato il rancio in gavetta prestando il servizio militare (una omologazione scomparsa, e di cui non sentiamo la nostalgia) adorano il sushi. Omologazione anche qui? Mi sembra che si perda il significato delle parole, e a questo punto non vale neppure la pena di parlare. Piuttosto, una convergenza tra utile e felicità: conviene di gran lunga moltiplicare la sfera dei gusti e dei desideri, perché produce più reddito, ora che sappiamo prevederli e conoscerli attraverso gli algoritmi che monitorizzano il consumo. (Se qualcuno dicesse che questa è una infrazione della privacy, allora dovrebbe accusare di infrazione della privacy anche il bibliotecario che scheda il libro che prendiamo in prestito e i patiti di bird watching).
Queste sono circostanze a mio avviso cruciali in sede di filosofia della storia. Diversamente da quando si pensava che la società della tecnica coincidesse con la disumanizzazione (interpretazione che del resto derivava da un fraintendimento della nozione di “tecnica”, che è coestensiva all’umano), non si è mai prodotta così tanta umanità come oggi, non si è mai stati così attenti all’umanità come oggi. E quello che avviene sul web ne è la forma più evidente: moda, viaggi, stili di vita, pornografia, alimentazione, risposta alle domande più curiose (ho trovato un tutorial su come annodare le cravatte a farfalla e un altro su come usare un komboloi greco). I nostalgici dello stato commerciale chiuso sarebbero gli ultimi a rinunciare a questa ricchezza per trovarsi a bordo di una Trabant (che viceversa potrebbero ordinare liberamente su Amazon). E soprattutto niente appare più inappropriato delle caratterizzazioni dell’umanità nel mondo tecnologico del secolo scorso – l’uomo a una dimensione, la solitudine dell’uomo nell’età della tecnica: ma quando mai? Sappiamo quanto può essere solo un uomo in un paese, quanto rumore umano ci circondi e quanto sia difficile da gestire, perché è il rumore di individui diversissimi gli uni dagli altri.
Sì, ma cosa dire dell’anima dell’uomo sotto la sferza del Capitale? Dell’ottundimento della cultura di massa americanizzata? Per esempio quella che deploravano Horkheimer e Adorno, dimenticando che se si trovavano negli Stati Uniti era perché in Germania vigeva a norma di legge una cultura di massa più imperiosa e non troppo intelligente, e che non ci sono seri motivi musicali o ideologici per preferire lo Horst-Wessel-Lied a Tutti Frutti. Marcuse ce l’aveva con l’uomo a una dimensione (come abbiamo appena visto, nulla di meno vero) e con la “desublimazione repressiva”, il che non gli impediva di insegnare a La Jolla, in riva al Pacifico, tra bouganville, edonismo e pacifismo, quando avrebbe potuto tornarsene a insegnare Hegel in Germania, magari a Karl-Marx-Stadt. Non c’è bisogno di abbracciare un panglossismo senza riserve per concludere che la cultura di massa – spesso molto più intelligente e divertente di quella di élite, specie se prende i contorni minatorii e in definitiva fascisti delle Lezioni di sociologia della musica – è pur sempre meglio che l’analfabetismo o l’indottrinazione forzata, e che la desublimazione repressiva è comunque preferibile alla repressione senza sublimazione. Tutto questo costituisce un punto a vantaggio di una filosofia della storia tutt’altro che spengleriana. Non stiamo decadendo, anzi, progrediamo, e proprio il confronto con gli eroi della teoria critica lo dimostra. Adorno poteva permettersi di disprezzare il jazz come musica da negri (lui si esprimeva proprio così), Horkheimer poteva compromettere la salute dei suoi uditori imponendo loro del fumo passivo dei suoi sigari, Marcuse poteva immaginare una liberazione sessuale che oggi condurrebbe difilato in tribunale. Se niente di tutto questo appare a noi, ora, accettabile, dipende molto meno dalle loro teorie (che si riducevano spesso a uno stalking dell’illuminismo) ma dall’illuminismo effettivo portato dal progresso tecnico, che ha abbattuto la necessità dello schiavismo da cui deriva il disprezzo per i neri, provato la nocività del fumo, e promosso – riducendo l’importanza dei muscoli e il primato maschile che ne derivava – l’emancipazione femminile.