Povertà educativa significa che in tanti oggi hanno scarso accesso ad occasioni di apprendimento che aiutino a vivere la vita in pienezza. In Italia questo è certo legato a uno stato di estrema sofferenza del sistema scolastico. Oggi siamo qui, però, per guardare alla scuola e alle sue difficoltà come a un nodo di un sistema territorio, in cui ci sono tanti altri nodi, tutti in relazione tra di loro: il nodo delle famiglie degli alunni, che a loro volta sono in relazione al luogo (un quartiere di una città metropolitana, un paese di un’area interna del paese, etc.); il luogo è a sua volta in relazione con le autorità pubbliche e con le attività produttive, che danno (o almeno dovrebbero dare) lavoro alle famiglie e/o che possono avere ricadute specifiche sulla qualità dell’ambiente.
Questo approccio sistemico al problema ‘scuola’ permette di capire meglio e, soprattutto, affrontare il problema. Spesso, infatti, uno stesso luogo presenta una concentrazione di valori allarmanti su ciascuno degli indicatori settoriali: tassi di evasione scolastica corrispondono ad alte percentuali di giovani NEET, elevati tassi di disoccupazione giovanile, bassi redditi, bassi indici di localizzazione di piccole e medie imprese, declino del fatturato commerciale, etc. Proprio in questi luoghi, poi, chi ha la responsabilità e (in teoria) le risorse di ‘risolvere i problemi’ – le istituzioni pubbliche, lo stato, le regioni, i comuni –, possiede i più bassi indici di performance amministrativa, alti tassi di corruzione quando non addirittura conclamati problemi finanziari e giudiziari.
Non a caso l’Atlante dell’infanzia usa come lente di comprensione della povertà educativa il concetto di ‘periferia’, che ci parla delle ‘distanze’ tra territori. Sulla natura di queste distanze e sulle cause non c’è un assoluto accordo. Non si sa se sia nato prima l’uovo – la difficoltà della scuola – o la gallina – il resto dei problemi territoriali in cui si inseriscono tali difficoltà–, ma nessuno può negare che esistano le disparità e che bisogna ridurle. Il problema è che non si sa da dove partire.
Per ragionare su questo, è utile riferirsi a questi luoghi come ‘territori caratterizzati da un permanente livello di fragilità di chi vi abita,’ dove gli individui sono fragili, ‘facili a rompersi’, entrare in crisi, rispetto al minimo ‘urto’ o cambiamento. Qui, paradossalmente, esiste una forma di resilienza – l’opposto di fragilità – in negativo: l’incapacità della maggior parte degli interventi migliorativi (progetti scolastici, politiche urbane, etc.) di generare processi di cambiamento permanente. Tale incapacità può essere spiegata solo attraverso una visione sistemica del problema: la maggior parte degli interventi esistenti è limitata poiché si concentra solo su uno dei nodi del sistema, senza alterarne le relazioni con gli altri nodi. Concluso l’intervento le cose tornano come prima. Nella teoria dei sistemi, si chiama ‘bouncing back’. Il sistema muta in modo permanente solo se si lavora per cambiare la natura delle relazioni tra i nodi, il che significa lavorare con più nodi contemporaneamente: la scuola – i dirigenti, gli insegnanti, gli alunni – ma anche le famiglie, le case, gli spazi pubblici, ma anche le imprese, il bottegaio, l’associazione di quartiere, ma anche l’ente pubblico, i funzionari, il sindaco e gli assessori, i consiglieri comunali, fino all’ultimo dei dipendenti comunali. Dalla prospettiva della scuola, queste sono le comunità di riferimento, che nei territori ‘ad alto tasso di fragilità’ sono ‘diseducanti’, incapacitanti, ma che potrebbero diventare ‘educanti’, capacitanti.
Questo significa lavorare a progetti che mettono la scuola in diretta relazione con quello che c’è al di fuori delle mura scolastiche, le proprie comunità di riferimento, il che può comportare passi anche banali, ma con importanti ricadute progettuali:
- Mappare queste comunità, permettendo ad alunni e insegnanti di riconoscerne i valori e disvalori, stimolando l’interesse cognitivo ed emotivo a proteggere i primi e mutare i secondi;
- Coinvolgere alunni e insegnanti in processi di natura comunitaria che trasformino tale interesse in esperienza concreta, se è vero che «finché non si ha esperienza che profondi e sostanziali cambiamenti sono possibili, si ripete facilmente “è sempre stato così e sarà̀ sempre così”, ed è molto difficile che l’uomo si impegni per operare cambiamenti» (Dolci D. Esperienze e riflessioni. 1974: 200).
Lavoro nella stessa regione dove Dolci scelse di lavorare, quasi 50 anni fa, la Sicilia. Mi dedico da ormai quasi vent’anni all’innesco di processi di apprendimento territoriale, interrogandomi sul tema del ‘perenne sottosviluppo’ della mia comunità, nonostante tutte le azioni per lo sviluppo ad essa dedicate. Da anni osservo il fallimento della gran parte di queste azioni, ma anche la potenza dei processi di mutuo apprendimento scuola-territorio (nel mio caso c’è anche l’università, visto che io lavoro lì).
Non riesco più a contare le volte in cui mi sono sentita dire “sarebbe bello, ma è come chiederci di correre la maratona senza neanche avere le scarpe”. I rappresentanti della scuola pensano spesso che un processo in cui la scuola diventa attore di processi di sviluppo locale sia troppo ambizioso di fronte ai tanti problemi interni (evasione scolastica, scarsa motivazione degli insegnanti, carenze fisico-strutturali, rigidità degli adempimenti burocratici, etc). Eppure, chi butta il cuore oltre l’ostacolo ne scopre ben presto la potenza di questi ‘esperimenti’. Fatemi fare un esempio che mi ha coinvolta in prima persona.
La città di Adrano, che con le sue 30,000 anime è la seconda più popolosa delle città della Valle del Simeto, è il terzo comune con reddito medio pro-capite più basso (€ 5.508) della Sicilia. È una città delle cosiddette aree interne, che si spopolano, in cui gli alunni diminuiscono, i plessi scolastici perdono l’autonomia amministrativa fino a chiudere definitivamente. I pochi giovani che rimangono appartengono alla categoria NEET (oltre 1 su tre in Sicilia, Eurostat 2017) perché questo è l’unico modo “di restare a casa”, accanto a i propri affetti. Qui, il disagio sociale fa meno rumore che nelle periferie metropolitane. Non ci sono i ‘punti luce’ di Save the children e non ci sono politiche speciali. Qui c’è il silenzio e i ricordi di una vita di comunità che non c’è più.
Qui, 15 anni fa, docenti e studenti di un istituto tecnico superiore sono stati un motore di cambiamento. È partito tutto dal conflitto tra una fabbrica di piastrelle, a cui il comune aveva rilasciato il permesso di usare rifiuti speciali, e i coltivatori delle aree limitrofe, i cui prodotti accusavano significativi sintomi di inquinamento. Il mio laboratorio di ricerca fu coinvolto e con la scuola si decise di avviare un percorso di lettura del conflitto attraverso una lente territoriale, per la formulazione di una idea di interesse collettivo che potesse portare alla risoluzione del conflitto. In collaborazione con le associazioni ambientaliste, la scuola aprì le porte per un intero mese, invitando tutti i cittadini a interagire con una grande mappa larga 10 e alta 3 m, raffigurante ‘il territorio’, usando banali tecniche per il ‘riconoscimento’ collettivo dei valori territoriali. L’iniziativa fu poi condotta fuori dalla scuola, nelle piazze e nelle parrocchie, finché la comunità maturò la necessità di chiedere e ottenere la revoca del permesso alla fabbrica, nell’ambito di una più ambiziosa mobilitazione contro il progetto di un inceneritore nella vicina città di Paternò. Questo piccolo seme, in 10 anni, ha condotto:
- alla nascita di un nuovo piano strategico di sviluppo locale sottoscritto dagli amministratori non solo di Adrano ma di altri 9 comuni simetini. Il piano chiama Patto di fiume Simeto, perché ispirato a una ‘identità territoriale’ legata al morente sistema ecologico fluviale. Il piano contiene progetti per la rivitalizzazione di questo sistema connessi a progetti di micro-imprenditoria giovanile ispirati al paradigma dell’economia agricola circolare;
- alla selezione di questa come area sperimentale di rilevanza nazionale nell’ambito della Strategia Nazionale Aree Interne (SNAI). Questo ha portato a un potenziale finanziamento nei prossimi 5-10 anni di 36 milioni di euro, in parte per i progetti di una Rete di Scuole simetina e di living labs per l’apprendimento territoriale.
L’oggi non è esattamente tutto rose e fiori, a causa della distanza tra la natura comunitaria del processo locale e la razionalità delle politiche regionali; distanza alimentata dalla carenza di supporto del governo alla SNAI. Quello che rimane è l’aver osservato da vicino quanto abbassare i muri delle scuole e responsabilizzare insegnanti e studenti di cose che sono solo apparentemente più grandi di loro possa innescare il cambiamento territoriale. Sono processi di mutuo apprendimento scuola-territorio, lenti e difficili, ma, quando riescono, profondi e i soli a generare cambiamenti strutturali. Per questo speriamo che dismettano il loro ruolo di ‘sperimentazioni’ e riescano presto a diventare una vera e propria ‘politica sistematica e duratura’.