Nei meeting, nelle ricerche sui giovani, nel dibattito politico e pubblico si assiste a un proliferare di idee e buoni propositi per mettere in salvo le nuove generazioni, senza futuro lavorativo, perse in un sistema che le rigetta e dove non hanno più una collocazione.
La sensazione è quella di essere considerati panda indifesi, tuttalpiù da proteggere, anziché futuri lavoratori da professionalizzare e responsabilizzare. Le reazioni dei giovani a questo stato delle cose, mutuando le categorie di Hirschman, oscillano tra atteggiamenti di exit, voice e loyalty. Assistiamo, infatti, al diffondersi di movimenti di protesta che vanno ad allargare la famiglia dell’ormai ribattezzato “popolo del NO”; defezioni totali dal sistema che spesso sfociano in rassegnazione e chiusura, problema che tocca in particolare la rappresentanza e il calo della partecipazione; oppure al comportamento mediano, quello di chi pur non accettando il sistema non lo rifiuta del tutto e prova a cambiarlo dall’interno, con il carico di frustrazione che questo comporta. A queste tre, nel caso di specie, se ne dovrebbe aggiungere una quarta che potremmo identificare con resource: rendersi preziosi e indispensabili, valorizzando le proprie capacità.
Tutto questo si traduce in concreto nella responsabilità dei giovani ad investire correttamente nella propria formazione (specie in Italia, dove la percentuale di laureati è sotto la media europea) e in particolare in acquisizione di nuove skills, a cui dovrebbe corrispondere, però, la capacità e la volontà di imprese e enti di saper integrare e valorizzare questo capitale di competenze e di intelligenze. Vuol dire anche, ad esempio, ripensare gli strumenti previsti per “traghettare” i neolaureati nel mondo del lavoro, e quindi stage, apprendistati e praticantati, ribaltandone le logiche sulle quali sono nati. Il giovane in prova non deve essere considerato, né deve farsi percepire, come un peso per il soggetto che lo prende in carico per “insegnarli il mestiere”, ma è un investimento e una risorsa, specialmente per agevolare e facilitare i processi d’innovazione e ammodernamento delle strutture entro le quali va a fare l’esperienza formativa. Bisognerebbe quindi rivedere l’inserimento lavorativo attraverso la logica del do ut des, dello scambio dell’esperienza in cambio di nuove competenze, per creare modelli win win attraverso l’integrazione e non la lotta infra-generazionale. Va in questa direzione, ad esempio, il progetto “Over meet under” (http://overmeetunder.tumblr.com), inaugurato a Milano il 30 marzo. Il programma è stato pensato per stimolare e avviare un dialogo e scambio tra over50 e over30, creando un matching professionale tra mondi ed esperienze diverse, fruttifero di future collaborazioni e di un arricchimento reciproco.
L’auspicio è che continuino a fiorire sperimentazioni e progetti di questo tipo e che possano tracciare un sentiero virtuoso nella strada per il futuro dell’occupazione in Italia.
Erika Munno
Ricercatrice del percorso Nuovi confini tra impresa e lavoro del progetto Spazio Lavoro