Per tante ragioni diverse, arcinote e poco conosciute, la mappa dell’Italia presenta una trama, fitta, irregolare, sconnessa, di confini economici e sociali. Tra regioni del Nord e del Sud, metropoli e aree interne, centri e periferie, e a volte anche all’interno degli stessi quartieri, perfino tra strada e strada. Il diverso assetto delle condizioni sociali e occupazionali, delle risorse e dei servizi, finisce per scavare veri e propri fossati tra i livelli di salute, benessere e accesso al futuro dei bambini e dei ragazzi. È quanto mostra dal 2010 l’Atlante dell’infanzia a rischio di Save the Children, un volume che di anno in anno, con l’aiuto di mappe, interviste, approfondimenti tematici, cerca di leggere in maniera integrata i diversi indicatori sullo stato di salute dei bambini e dei ragazzi per comprendere le dimensioni del rischio e dell’esclusione sociale. Un work in progress che invita a dissolvere, nel campo delle politiche per l’infanzia ma non solo, la categoria astratta del Bambino. Se si vogliono disegnare programmi e interventi appropriati e efficaci, dice l’Atlante, è strategico parlare sempre e comunque di bambini plurali, concreti, localizzati nello spazio e nel tempo.
L’estrema varietà dei territori dell’infanzia nel nostro paese è emersa con particolare evidenza nell’edizione 2018 dell’Atlante, dove abbiamo cercato di comprendere se esistono e che cosa sono le periferie per i bambini. Per rispondere a questa domanda ci siamo immersi nella complessa letteratura sull’argomento, un vasto corpus di studi che ci aiuta a leggere i territori dall’interno, fuori dagli stereotipi e dalle visioni congelate dell’abitare, e a declinare il concetto di periferia in tanti modi diversi: la periferia con la P maiuscola non esiste, esistono semmai tante ‘periferie’, per geografia, storia, composizione, popolazione, che descrivono una condizione dell’abitare in continua evoluzione.
Nella ricerca, in particolare, ci siamo avvalsi di questo concetto labile e sfuggente come categoria operativa per cercare di scandagliare alcuni meccanismi che finiscono per condizionare le regole di ingaggio della sfida educativa nei territori ai margini, alimentando sul nascere, e quindi nella fase più sensibile e strategica dello sviluppo di un bambino, povertà educative e diseguaglianze. Il ‘contesto’ in cui nascono e crescono bambini e ragazzi, ad esempio, esercita inevitabilmente un ruolo che, con Amarthya Sen, potremmo definire ‘capacitante’ per la costruzione di attitudini, competenze, conoscenze, fiducia in se stessi, socializzazione, eccetera. La progressiva marginalizzazione di bambini e ragazzi nei quartieri di edilizia residenziale pubblica (caratterizzati dalla concentrazione di una grande quantità di famiglie vulnerabili in contesti spesso privi di qualità ambientale) o nelle borgate abusive (segnate da una povertà diffusa di servizi e spazi per la famiglia, la ricreazione, la cultura) possono restringere l’ambiente vitale, ridurre le possibilità di apprendimento, gli interessi e le motivazioni. «Il nostro quartiere è un circuito chiuso», ci ha raccontato un giovane abitante del Perrino di Brindisi.
Ma il contesto di vita, a sua volta, è fortemente stratificato e richiede di essere analizzato in tutte le sue diverse componenti. Se quella territoriale può avere un peso rilevante, la dimensione familiare – in termini di capacità genitoriali, capitale economico e culturale della famiglia e della comunità locale – influenza inevitabilmente, in molti modi e fin dai primissimi passi, le attitudini e le capacità del bambino. Ad esempio, le sue stesse possibilità di accedere a un buon ciclo di istruzione, il tipo di indirizzo seguito e la qualità della preparazione conseguita. E le ricerche in questo campo evidenziano da sempre il vantaggio sistematico dei giovani che hanno genitori più istruiti, più risorse economiche e maggiori margini di investimento.
A mezzo secolo dalla lezione di Don Milani una gran mole di dati, nazionali e internazionali, ci dice infatti che ‘la strage dei poveri’ continua, ovvero che in Italia l’accesso alla conoscenza rappresenta ancora oggi un serio problema per tanti bambini e ragazzi che hanno la ventura di nascere nelle famiglie e nei quartieri ‘sbagliati’, ovvero con minori risorse a cui attingere. Un dato su tutti: nelle scuole caratterizzate da un indice socio-economico basso, più di uno studente su quattro finisce per ripetere l’anno, mentre nelle scuole ‘bene’ viene bocciato soltanto un alunno su 25. Nelle scuole, d’altra parte, sono all’opera meccanismi di canalizzazione formativa strisciante tra ordini di scuole tra scuole del centro e scuole ai margini, ma anche tra scuole principali e scuole secondarie, e a volte perfino all’interno delle stesse scuole, con la creazione di classi ghetto dove vengono messi a ‘pascolare’ gli alunni dati per persi ancora prima di iniziare.
Eppure, malgrado i dilemmi della frontiera educativa (e delle scuole di frontiera) siano noti da tempo, soprattutto dopo il varo della legge sull’Autonomia, e nonostante sui territori e nella scuola si raccolgano tantissimi dati, molti dettagli ci sfuggono e a tutt’oggi non abbiamo una mappa, affidabile e dettagliata, delle aree ‘ad alta priorità educativa’ sulle quali investire con fondi e programmi ad hoc, come si è cercato di fare con alterni successi in Francia e in altri Paesi europei. E se il problema non è stato ancora localizzato, se non se ne conoscono ancora le coordinate, non deve destare meraviglia che in Italia non sia ancora mai stata sperimentata una qualsivoglia politica o strategia nazionale organica per rispondere ai bisogni delle scuole di frontiera, capace di andare oltre il meccanismo dei bandi. Un sistema di finanziamento cieco che finisce per penalizzare le scuole con minore consuetudine e capacità di progettazione, proprio quelle che ne avrebbero maggiore bisogno.
Le ricerche realizzate sulle scuole di frontiera, e le testimonianze dei presidi e degli insegnanti che abbiamo ascoltato in questi anni, ci dicono che rimettere le frontiere educative al centro dei quartieri, soprattutto nei tessuti marginali, è una sfida difficile ma possibile senza dover necessariamente attendere dall’alto rinforzi e grandi investimenti (dei quali purtroppo non si vede traccia all’orizzonte) quando si riesce a puntare sulla formazione e la ri-motivazione del personale docente e sull’innovazione della didattica: il cooperative learning, il tutoraggio, la peer education (l’insegnamento reciproco tra ragazzi), la didattica laboratoriale, il procedere per problemi. Quando si punta sull’innovazione infrastrutturale per sperimentare nuovi modelli pedagogici in ambienti di apprendimento innovativi: spazi modulari e polifunzionali, facilmente configurabili e in grado di rispondere a contesti educativi sempre diversi, ambienti flessibili, funzionali ai sistemi di insegnamento/apprendimento più avanzati, con particolare riguardo alla didattica digitale. Quando si riesce a ripensare la scuola come un bene comune, socialmente condiviso, uno spazio ritrovato nella vita di territori spesso sguarniti di servizi, piazze, spazi pubblici. Un luogo di istruzione, ma anche un centro di aggregazione, cultura e intercultura, aperto al territorio anche oltre l’orario scolastico, dove ritessere le maglie della comunità educante, come insegna il progetto Scuole aperte promosso dal Comune di Milano. Di alcune di queste idee e progetti nella direzione di una scuola più inclusiva abbiamo dato conto in Lettera alla scuola, l’Atlante 2017, interamente dedicato alla scuola a cinquant’anni dalla lezione di Barbiana (https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/8-atlante-dellinfanzia-rischio-lettera-alla-scuola).
La lotta alle povertà educative in Italia richiede un’azione di rinnovamento e potenziamento complessivo del sistema scuola (dalla formazione dei docenti all’orientamento degli alunni, dalla valutazione all’innovazione della didattica, all’edilizia scolastica), ma reclama allo stesso tempo un’attenzione specifica e prioritaria nei confronti di quei territori dove si combatte la battaglia più difficile per garantire pari opportunità di futuro a tutti i bambini, nel rispetto del dettato costituzionale. Territori che oggi appaiono perlopiù abbandonati al loro destino.