Università degli Studi di Milano

L’articolo qui riprodotto fa parte della rassegna Una svolta “dal basso” nel cuore dell’Europa: la Friedliche Revolution, la Germania verso la caduta del muro di Berlino


Nelle sue memorie delle rivoluzioni dell’89, Timothy Garton Ash si chiedeva: come è potuto accadere? Perché così presto? Scrivendo a ridosso degli eventi lo studioso britannico raccontava che, nell’estate del 1989, sia gli attivisti dell’opposizione al regime comunista, sia la chiesa protestante, che stava avendo un ruolo fondamentale nel dar voce al dissenso, erano pessimisti sulla possibilità che ci fosse un’apertura, come quella in corso in Polonia, e che il governo accettasse quindi di riconoscere alle espressioni della società civile una qualche forma di rappresentanza politica. La Stasi, la polizia segreta – continuava Garton Ash – “appariva ancora onnipotente, e la popolazione nel suo complesso non ancora pronta a mettere a rischio il pur modesto livello di benessere raggiunto. Oltretutto, le file dell’opposizione si erano ridotte continuamente per via dell’emigrazione nella Germania Occidentale. Un ragazzo che avesse preso parte a una manifestazione avrebbe ricevuto la minaccia di una lunga pena detentiva, e in seguito sarebbe stato condotto in un’altra stanza della stazione di polizia, dove un altro funzionario gli avrebbe sottoposto un modulo già compilato in tutti i dettagli con la domanda di emigrazione. Prigione o Occidente”. Ovviamente la gran parte sceglieva di lasciare il paese. Nessuno nel luglio del 1989 avrebbe scommesso sul fatto che nel giro di quattro mesi il muro di Berlino sarebbe stato smantellato da una folla festante. Che accadde in quei mesi? Uno degli eventi decisivi è certamente la straordinaria manifestazione di Lipsia del 9 ottobre, in cui più di 70000 cittadini, provenienti da tutte le parti della DDR, percorsero ordinatamente le vie della città portando cartelli su cui c’era scritto “Wir Sind Das Wolk”. Uno slogan che contestava alla radice la legittimità di un regime che rivendicava per sé proprio il titolo di “repubblica popolare”, come facevano buona parte dei regimi comunisti, non solo in Europa.

Oggi possiamo festeggiare il trentesimo anniversario di quella rivoluzione, celebrandone il carattere pacifico (Friedlicher Revolution è il modo in cui i tedeschi ricordano gli eventi di quei giorni) anche grazie a una serie di circostanze imprevedibili. La manifestazione ebbe luogo, infatti, durante una visita del leader sovietico Michail Gorbachev. La Germania Est, per ragioni storiche facilmente comprensibili, era il paese del Patto di Varsavia che dipendeva in maniera più stretta dall’Unione Sovietica. L’alleanza “eterna” tra le due, ricorda sempre Garton Ash, era addirittura sancita nella costituzione della DDR. Da subito, dunque, la visita di Gorbachev cominciò ad alimentare aspettative di segno diverso, accumunate soltanto dalla consapevolezza che una sua parola avrebbe fatto pendere la bilancia da un lato o dall’altro nel conflitto in corso sul futuro del paese. Ebbene, oggi la maggior parte degli storici sono concordi nel ritenere, sulla base dei racconti di testimoni situati da entrambe le parti del muro, che Gorbachev fu determinante nell’impedire che le truppe, che erano state concentrate in vista di un intervento per disperdere la folla, non venissero impiegate. Non a caso Garton Ash parla di un “effetto Gorbachev” nell’imprimere una svolta decisiva agli eventi di quei giorni, aprendo la strada per il crollo del Muro e la fine del regime comunista.

Se a Lipsia non ci fu spargimento di sangue, e la “rivoluzione” si svolse senza violenza, si deve quindi al felice incontro tra la determinazione di Gorbachev nel riformare il sistema sovietico e il coraggio dei tedeschi che quel giorno sfidarono un regime che appariva ancora in pieno controllo del paese, ben sapendo che potevano andare incontro a una repressione violenta come era accaduto in passato, in particolare in Ungheria nel 56 e in Cecoslovacchia nel 68. Probabilmente, il leader sovietico non aveva l’intenzione di provocare il crollo del regime, ma soltanto di sbloccare la situazione in favore dei “riformisti” come Krenz e Schabowski. Le cose, come sappiamo, andarono diversamente. Poco più tardi l’Unione Sovietica, in preda ormai a una crisi che avrebbe provocato anche in quel paese il crollo del regime comunista, fu costretta ad accettare che si avviasse il processo di unificazione tra le due Germanie. Si chiudeva il lunghissimo dopoguerra iniziato con l’interruzione delle trattative tra Stalin e i leader delle altre potenze vincitrici.

Oggi Garton Ash, scrivendo su la NYRB (The New York Review of Books) celebra l’anniversario della “Friedlicher Revolution”, ma si interroga anche su cosa ha condotto diversi paesi dell’ex blocco sovietico, a trenta anni da quella rivoluzione, a scivolare verso forme più o meno esplicite di autoritarismo. In molti casi promosse da persone che furono in prima linea nella lotta al comunismo. Le rivoluzioni dell’est europeo furono, come scrisse Habermas, rivoluzioni “recuperanti”, perché erano ispirate dal desiderio di recuperare per quei paesi una tradizione, quella del costituzionalismo liberale, che era stata eradicata in seguito alla guerra, e poi all’occupazione da parte delle truppe sovietiche. Ma questo spirito “recuperante” ha preso forme, quelle di società dominate da un capitalismo collusivo, che hanno finito per tradire le aspettative che animarono le manifestazioni del 1989. Anche se la situazione nell’ex Germania Orientale è diversa da quelle di paesi come la Polonia o l’Ungheria, non c’è dubbio che questo sia un tema su cui valga la pena di riflettere. Così come merita attenzione il “lato oscuro” dell’epopea della “società civile” nata in quei giorni esaltanti, con cui oggi facciamo i conti.

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