Scienziato politico e filosofo

L’articolo qui riprodotto fa parte della rassegna Una svolta “dal basso” nel cuore dell’Europa: la Friedliche Revolution, la Germania verso la caduta del muro di Berlino


Otto Kallscheuer, Sinistra occidentale cercasi, “Micromega”, 2, 1990, pp. 164-175. 


La gauche – quelle gauche?


Se nella Repubblica Federale la sinistra è stata colta impreparata dal crollo del socialismo tedesco-orientale, ciò ha poco a che fare con il “trauma nazionale” che Peter Brandt su Vorwärts le vuole diagnosticare. Si tratta, invece, della naturale conseguenza della sua mancanza di interesse e della sua perplessità dinanzi alla rivoluzione democratica dei paesi dell’Est, a partire dal suo atteggiamento vergognosamente privo di solidarietà nei confronti del movimento di Solidarność e di Charta ’77. Ma già questa mancanza di capacità di giudizio morale e politico era il compito di percepire il mondo circostante (tedesco-occidentale ed europeo) come luogo di creativa azione politica, anziché limitarsi a occupare i posti disponibili.

Non è un paradosso: la fine del progetto rosso-verde inteso come futuro orizzonte politico ha coinciso con il successo socio-culturale delle vedute rosso-verdi (e dei loro sostenitori). Già negli anni Ottanta, la sinistra tedesco-occidentale era in gran parte regredita sino a diventare un puro cartello di interessi – o mastodonte socialdemocratico-sindacale a salvaguardia (tardo)industrialistica della proprietà e dei diritti conquistati, o “sociotopo” (C. Leggewie) ecopacifista dei nuovi strati medi postindustriali.

La sinistra tedesco-occidentale, infatti, mentre riusciva indiscutibilmente a modernizzare lo stile di vita tedesco-occidentale, aveva perso la capacità di porre alle strutture istituzionali della società la “questione democratica” (Uli Rödel). Incapace di azione politica come creazione comunicativa di potere (Hannah Arendt), era sempre più sprofondata nella Kulturgesellschaft. Gettare uno sguardo al di là del proprio piccolo universo (nazionale e sociale) avrebbe potuto solo turbare il fondamentale particolarismo di interessi all’interno del quale ogni segmento della “sinistra” coltivava il proprio hobby socio-culturale: per i lavoratori impiegatizzati, la settimana di 35 ore; per gli alternativi, la foresta tropicale; per gli autonomi, la guerra di popolo palestinese o nicaraguense (eccetera); per le donne, l’offensiva delle quote e per le accademie evangeliche la critica dell’ingegneria genetica.

La fine dell’epoca postbellica in Europa, che nell’anno del Signore 1989 si è manifestata in Germania con il successo dei Republikaner xenofobi all’Ovest e con la Rivoluzione Democratica Tedesca all’Est, ha rivelato in un primo tempo soltanto che la “sinistra” come forza politica, cioè capace di intervenire sulla società, semplicemente non esiste più. Questa affermazione potrebbe essere documentata portando l’esempio del caravanserraglio antifascista militante contro i nazionalpopulisti di Schönhuber o anche quello della cosiddetta “questione nazionale”, da discutere in questa sede.


Baluardo antifascista


Se la “sinistra” della Repubblica federale era restata senza parole di fronte alla rivoluzione democratica nella RDT, ha reagito solo con riflessi condizionati alla trasformazione di questa in un movimento nazionale di annessione. Con le sue affrettate dichiarazioni pro o contro la riunificazione, la sinistra che si professa tale documenta nel migliore dei casi la propria “crisi di identità” (W. Müller-Jentsch). Quando la sinistra ancora si esprime – la maggioranza dei suoi rappresentanti, infatti, tace – ciò accade prevalentemente in due forme, che qui cum ira et studio, esagerando un po’, ricondurremo a due tipi estremi ideali: Antifa e Schumacher.

Il modello Antifa o “radicalismo di sinistra contro nazionalismo di destra” raccoglie tutti coloro che sino a ieri hanno cercato di far parlare di sé con confuse campagne contro i “modernizzatori rosso-verdi”. Con la stessa povertà progettuale con la quale finora si offriva la “lotta militante antifascista” (cioè: marce contro i Republikaner e gli Skins) come legame di identità per radicali di sinistra frustrati provenienti dagli ambienti subpolitici in disgregazione verdi-alternativi, ex DKP e autonomi, ora la relativa stampa di lotta (Konkret, Arbeiterkampf) e i fondamentalisti verdi di sinistra diffondono slogan a difesa (senza se e senza ma) della doppia statualità tedesca. I cori “mai più Germania” dovrebbero in certo qual modo fungere da barriera acustica antifascista per impedire lo scatenarsi nazional-tedesco di “pretese da razza superiore nei confronti dei polacchi e dei popoli dell’Unione Sovietica” (D. zum Winkel). Detto tra parentesi, questa variante tedesco-occidentale delle argomentazioni pro-Stasi ormai fallite all’Est è già stata superata dalle conclusioni raggiunte dai riformisti della SED, che su Neues Deutschland, il 12 dicembre 1989, mettevano insistentemente in guardia dal “bollare a priori come revanscista ogni manifestazione del sentimento di appartenenza nazionale”.

 

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