Proponiamo un estratto dell’introduzione di Enrico Biale e Corrado Fumagalli al volume Per cosa lottare. Le frontiere del progressismo, Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019.
Il progresso si fa agendo sulla realtà. Se questa società può avere tanti altri modi d’essere, il punto della questione diventa come scoprirli e soprattutto quale direzione prendere. Entro questa cornice il progresso è l’esito di un impegno nel presente, per cui, osservando nuove e vecchie fratture, apriamo occasioni per ripensare pratiche e relazioni consolidate. Su questo sfondo c’è chi parla di politicizzare temi al di fuori del dibattito pubblico. Altri individuano nuovi agenti di cambiamento. Qualcuno mette in discussione consuetudini e stili di vita. Non mancano, poi, coloro che battagliano contro perbenismi e senso comune. Ma, al di là delle diversità, tutti questi punti di vista pensano al progresso come l’esito di azioni reali e concrete volte a modificare gli aspetti sociali, politici ed economici che frenano l’avanzamento dell’umanità verso un ordine più giusto, un ordine in cui anche la centralità dell’essere umano potrebbe essere discussa.
Questa non è una cifra solo del pensiero progressista. Del resto, non c’è granché di nuovo quando una filosofia politica chiede di agire qui e ora. Da Marx in poi, in tanti si sono chiesti come cambiare il mondo. Ma, nel caso della filosofia politica progressista, l’azione sul presente non è di totale rottura. Si tratta piuttosto di una messa in discussione di maniere e presupposti su cui si fonda la vita in comune e che ostacolano l’avanzamento sociale, politico ed economico.
Spesso viviamo in sistemi cosi consolidati da inibire qualsiasi impulso di cambiamento. Non può essere allora un caso che, al centro della filosofia progressista, si trovi il tema della crisi. Proprio la crisi, sia questa ambientale, economica, migratoria, sociale, come uno shock improvviso, mette di fronte all’umanità i limiti dello status quo. “Lo stato d’inerzia della politica”, scrive Roberto Mangabeira Unger nella nuova introduzione al suo False Necessity: Anti-Necessitarian Social Theory in the Service of Radical Democracy, “continuerà a giustificare ricostruzioni razionali fino a quando c’è un problema nel mondo reale. Non c’è bisogno che sia un gran problema, tipo una guerra o una depressione economica. Basta una piccola crisi, per esempio l’instabilità finanziaria tra il 1997 e il 1999. Il problema sorprenderà l’essere razionale, le sue congetture e assunzioni.
Lui ha bisogno di una crisi del mondo reale per indebolire la morsa della falsa necessità”. […] È proprio nel rapporto con la realtà che si trova una componente caratterizzante del pensiero radicalmente progressista. In tutta la letteratura il cambiamento e inteso come un risultato provvisorio ed emendabile.
Ce lo ricorda molto bene Unger quando parla di “uno sperimentalismo emancipatorio” che promuove un’incessante trasformazione sociale e un continuo sviluppo di sé. Ed è con lo stimolo della critica che ogni cambiamento porta con sé la caratteristica di non essere una volta per tutte. O meglio, nell’esame approfondito di ogni avanzamento si può leggere un’acquisizione positiva per il pensiero: si sperimentano situazioni e limiti, la cui impossibilita di essere immediatamente superati apre nuovi fronti di riflessione.
Per esempio, perché non si può procedere altrimenti? Chi ha detto che bisogna spingersi oltre? Abbiamo l’equipaggiamento concettuale adatto per discutere certe forme di vita? Siamo sicuri che non si possa fare ancora meglio? E appunto per questo che ogni avanzamento ha un carattere temporaneo. Il cambiamento non è un’acquisizione definitiva, ma e l’effetto di un atteggiamento sperimentale che cerca di mettere alla prova dello sguardo critico ogni porzione del reale. I risultati così ottenuti sono tanto sostituibili da potersi dire poco più che provvisori, perché modellati sulle circostanze e inseriti in un ininterrotto processo di revisione. Per cogliere a fondo le implicazioni di questo punto, dobbiamo ammettere che le conclusioni, anche quelle che ci sembrano più salde, non possono escludere l’errore. Allo stesso modo, dove siamo portati a credere che qualcosa si possa perpetuare automaticamente, siamo ugualmente chiamati a un confronto con le esperienze quotidiane, gli altri e i dati naturali. Poco importa se, in questo modo, si afferma una filosofia i cui esiti sono nient’affatto predefiniti.
Quel che non deve venir meno è il presupposto: la speranza in una società più giusta. Se quindi di per sé la critica sembra dirci molto poco, in verità acquista valore perché parte di un sistema di principi normativi da cui si possono giudicare razionalmente nuove e vecchie circostanze. Così, il fatto che un miglioramento sia sottoposto a un attento esame può dar luogo a piccole e grandi deviazioni, ma mai alla messa in dubbio dell’idea che il possesso e l’uso di un’attitudine sperimentale debba portare ogni individuo al compimento delle proprie potenzialità.